Enrico Rosso, gran signore dello stile alpino italiano
Scrivere una breve introduzione per presentare Enrico Rosso è compito ingrato e francamente impossibile. Per le nuove generazioni il nome probabilmente, purtroppo, evoca poco, chi invece mastica l’alpinismo da anni sa invece che si tratta di un alpinista forte quanto riservato che a fine anni '80 ed inizio anni '90 ha salito in Himalaya e Karakorum una serie di vie di assoluto rilievo mondiale. Shivling, Nuptse, Latok 3 e il Thalay Sagar sono soltanto una manciata delle cime salite seguendo un filone unico: stile alpino, nella sua purezza più assoluta, sulle montagne più complicate ed affascinanti al mondo.
Enrico, se uno non ti conosce e da uno sguardo veloce al tuo curriculum alpinistico, la prima cosa che viene in mente è: "mamma mia, quanta roba". Di cui si sa poco, pochissimo però…
Il periodo nel quale ho fatto le mie migliori salite è compreso tra la seconda metà degli anni '80 e la prima degli anni '90, parecchio tempo fa quindi. Un po’ perché all’inizio lavoravo al Parco del Gran Paradiso e poi perché sono entrato nell’azienda di famiglia, non ho mai avuto le esigenze di comunicazione di un vero professionista. D’indole inoltre sono abbastanza discreto e infine, sono convinto di essere un pessimo comunicatore. All’epoca comunque, nonostante tutto, sono usciti diversi articoli sulle riviste specializzate.
Le tue scalate spiccano per delle scelte ben precise
Le mie scelte, al di là dell’altezza, sono sempre state: per la bellezza e l’isolamento della montagna, per la novità della via di salita, per uno stile di scalata improntato sulla leggerezza dell’organizzazione e l’adozione dello stile alpino in scalata.
A che cosa ti sei ispirato e perché?
Sono nato in una città, Biella, che storicamente ha detto molto nel campo dell’alpinismo e dell’esplorazione. Nei primi anni del secolo scorso nomi come Quintino e Vittorio Sella, Mario Piacenza e Alberto De Agostini hanno rappresentato un’élite di alpinisti esploratori che ha tenuto il passo dei migliori a livello mondiale. Successivamente Gaja, Rivetti e poi più avanti Machetto e Rava ne continuarono la tradizione. In modo speciale questi ultimi hanno espresso, negli anni ’70, assieme soprattutto agli inglesi, un alpinismo leggero e di ricerca. Sono figlio di queste storie.
Ci parli un attimo allora di questo stile. Cos’è, e quanto conta nel tuo modo di vedere le cose?
Spedizione leggera e stile alpino sono due concetti che mi hanno appassionato da subito, da quando ho iniziato a scalare e ad interessarmi di alpinismo extraeuropeo. Un gruppo formato da pochi alpinisti, con un bagaglio leggero, decide di tentare una grande montagna extraeuropea per una nuova via scalando come sulle Alpi: lo zaino in spalla con tutto ciò che serve per progredire e vivere sulla montagna. Lo stile e cioè: passare leggeri sulla montagna, intraprendere un viaggio in verticale tagliando i ponti dietro se stessi, senza compromessi fa assolutamente la differenza, sia nella profondità dell’esperienza che nel valore tecnico ed estetico della salita.
L’ultima volta che abbiamo parlato di te era per la via russa aperta sul Thalay Sagar. Quella era anche, se non sbagliamo, l’ultima delle tue aperte in Himalaya. Tra cui spicca forse la parete NE dello Shivling nel ormai lontano 1986. Ci parli un po' di quella salita con Fabrizio Manoni e Paolo Bernascone? Cosa rappresentava quella parete all’epoca e come l’avete vissuto?
Nella seconda metà degli anni '80 la parete nord-est dello Shivling era uno degli obbiettivi più ambiti in Himalaya. Noi tre eravamo un gruppo di ragazzini con poca esperienza e un grande sogno: una montagna esteticamente bella con una storia affascinante e una grande parete ancora da scalare. Lo Shivling era perfetto: posto sopra la sorgente del Gange, per gli hindū il simbolo stesso di Shiva, una storia di grandi tentativi e scalate, una silhouette da "Cervino dell’Himalaya" e 1500 m di parete nord-est tecnicamente estremi e ancora non scalati. Un tentativo in stile alpino su quella parete per l’epoca era futuristico. Dopo aver perso, per un errore nelle manovre di corda, più di metà del materiale da scalata, il pentolino per far fondere la neve e tutti gli accendini e fiammiferi, dal terzultimo giorno non riuscimmo più a bere e mangiammo liofilizzati impastati con la neve. Rischiammo seriamente di morire ma, alla fine, dopo nove giorni, riuscimmo a tornare al campo base. Ora, dopo 30 anni, l'ho raccontato nel libro Shiva's Lingam, Viaggio attraverso la parete Nord–Est (Edizione Versante Sud).
Poi nel 1987 c’è anche stato il Nuptse, quel magnifico pilastro sud. Anche qui, un problema tentato a lungo, da alpinisti di grande spessore… Con che spirito avete affrontato la spedizione e come è andato quel primo tentativo?
Con Fabrizio Manoni (Manetta) leggemmo il report entusiastico di Jeff Lowe sul pilastro sud del Nuptse. Lo incontrammo anche a Milano e ci mostrò meglio quella linea di 2500 m che aveva tentato due volte con Mark Twight nel 1986. Il Pilastro, in realtà, è alto 1600 m e svetta a 6900 m. Seguono poi un’ampia sella che lo collega all’estesa parete del Nuptse e un ghiacciaio che si alza di 500 m fin sotto una parete di misto di 400 m oltre la quale c’è la cima est del Nuptse, all’epoca ancora inviolata. Fu l’inizio di una storia che sarebbe durata 15 anni e avrebbe coinvolto alpinisti da tutto il mondo. Manetta ed io passammo un mese e mezzo sotto quel pilastro e non smise mai di nevicare. Alla fine decidemmo di tentare comunque. Furono 6 giorni surreali, scalavamo su una parete completamente coperta di neve anche nei settori più verticali con scarse possibilità d’assicurazione. Un tiro di corda ci costò un’intera giornata. Ci fermammo 30 m sopra il punto raggiunto da Lowe e Twight. Tornando, la vista sul pilastro ci accompagnò per un bel pezzo di strada, quando mi voltai per un ultimo sguardo decisi che sarei ritornato.
Poi due anni più tardi sei tornato, con Kurt Walde, tu avevi solo 28 anni, Kurt 27… E questa volta le condizioni della parete erano ideali, e avete anche incontrato per caso dei canadesi…
Sì, nel 1989 ero di nuovo al pilastro, questa volta con Kurt Walde e in periodo pre-monsonico: decisamente meno nevoso e quindi più favorevole alle scalate, specialmente quelle più tecniche. Dopo i due tentativi del 1986 Twight aveva scritto "… ci sono dei limiti logistici alle grandi salite in stile alpino". Eravamo consapevoli che tutto il progetto, i 1600 m estremamente difficili del pilastro e poi altri 900, di cui gli ultimi 400 particolarmente insidiosi sopra i 7000 m, potevano essere troppi per una salita in stile alpino come volevamo noi. Fissammo quindi l’obbiettivo primario nel pilastro e, se poi ne avessimo ancora avuta la forza, avremmo puntato alla cima est. Al campo base trovammo un gruppo di canadesi con il nostro stesso permesso. Passammo qualche tempo a prenderci le misure: loro a fare alcune ricognizioni e acclimatazione, noi una puntata al campo 2 dell’Everest per vedere una possibile via di discesa sulla parete nord del Nuptse e naturalmente, nel contempo, acclimatarci. L’unica soluzione sensata era comunque quella di collaborare e così ci accordammo per collegare le due cordate: avremmo aperto la via uno/due giorni a testa.
Sono seguiti sette giorni in puro stile alpino, un bivacco sotto la cima per aspettare il tempo che migliorava, poi l’inevitable mancanza di cibo ed energie alla fine… Ci racconti un po' com’è andata e cosa ti è rimasto impresso di quella salita?
La scalata fu dura ma molto più sicura e agevole di due anni prima con tutta quella neve e in più conoscevo bene la via fino a metà del tratto chiave: la Diamond Tower. Salimmo per 7 giorni consecutivi con tempo bello e brutto. L’ultimo giorno le difficoltà erano diminuite, eravamo in sofferenza, molto provati e Kurt aveva una brutta infezione in gola. Abbandonammo una parte del materiale per alleggerirci e ci slegammo, ognuno arrampicò verso i 6900 m della cima del pilastro per conto suo. Salendo vento e nuvole ci avvolsero e iniziò a nevicare. Kurt ed io arrivammo in vetta assieme, posammo gli zaini e, scattate alcune foto, iniziammo a chiederci come fare per la notte: montare la tenda in quelle condizioni sarebbe stato difficile. Sotto la cima, sull’altro versante, ci salvò una cavità perfetta all’interno di un seracco. I canadesi ci raggiunsero un’ora dopo. Due giorni dopo il tempo migliorò e noi decidemmo di scendere: avevamo finito il gas e quindi non si poteva più bere, l’infezione che Kurt aveva in gola preoccupava e poi eravamo da un lato stanchi e dall’altro appagati dalla cima del pilastro. I canadesi, dopo un consulto, decisero di provare a salire ancora. Scendemmo arrampicando slegati sulla via Bonington perché avevamo solo pochi chiodi e una corda da 40 m, che usammo comunque nei tratti più difficili per assicurarci a vicenda. Con il secondo giorno di discesa raggiungemmo, dopo 10 giorni in totale, il campo base. I canadesi salirono ancora per 200 m il ghiacciaio sopra la cima del pilastro e poi decisero pure loro di scendere. Arrivarono alcune ore dopo di noi al campo. Quindici anni dopo un gruppo russo guidato da Babanov ha steso 1400 m di corde fisse sul pilastro, è sceso in fondo valle per riposare, è risalito e quindi ha raggiunto la cima est dalla via del pilastro sud per la prima volta.
Nello stesso anno è arrivato anche il tuo primo 8000, il Cho Oyu…
Ero curioso di provare un 8000, non era il mio alpinismo ma valeva la pena conoscerlo. L’obbiettivo era una nuova via sulla nord dell’Everest, il Cho Oyu doveva essere l’acclimatazione. C’era molta neve e brutto tempo, il periodo post monsonico è quasi sempre così. Alla fine del periodo utile per la salita avevo un’acclimatazione da campo 1 (6300). Ci doveva essere il cambio di luna, avevo solo più pochi giorni a disposizione, speravo in una finestra di bel tempo e, alla fine, fu proprio così. Sono salito stando male il primo giorno per la mancanza d’acclimatazione ma il secondo mi sono ripreso e ho raggiunto la cima. Successivamente, per un pasticcio della nostra agenzia con i visti, le autorità cinesi ci hanno rispediti in Nepal e il tentativo all’Everest non si è potuto fare.
C’è stato anche il K2, sembra però che non sia scattata veramente la molla per le cime più alte del mondo. E’ giusta questa osservazione? Come mai?
Al K2 è andata più o meno come al Cho Oyu inoltre, a quell’epoca, era il 1996, lavoravo già in azienda e quindi non avevo più a disposizione molto tempo. Comunque, ci furono 20 giorni di brutto tempo e poi bello gli ultimi 4 giorni a disposizione, la mia acclimatazione arrivava fino a 6200 m. Anche quella volta ho tentato di forzare ma il K2 non è il Cho Oyu. A 7300 m ho deciso di scendere con un tempo stupendo, non stavo male ma ero troppo lento. Il giorno seguente sono sceso dal campo 2 e ho camminato fino a Urdukas per raggiungere i portatori che, nel frattempo, avevano smontato il campo. Ero in forma ma l’acclimatazione è più importante della forma fisica. Sugli 8000, specie sulle normali, ci sono ormai dinamiche da condominio: c’è troppa gente. In montagna cerco tranquillità, concentrazione e voglio gustarmi la libertà di decidere, di creare, di guardarmi dentro e di muovermi secondo quello che l’istinto mi dice.
Cosa ci racconto invece del pilastro sud del Latok III?
Il Latok è del 1988. Fu indicato a Marco Forcatura da Giovanni Bassanini. Io invitai Marco a venire con me al Kun, nell’Himalaya del Kashmir, per realizzare un film sulla prima salita di Mario Piacenza del 1913 e lui mi invitò al Latok. Saremmo andati prima in Karakorum e poi in Kashmir. Della partita faceva parte anche Marco Marciano, romano anche lui come Forcatura, entrambi alpinisti molto forti. Il Latok è stata un’esperienza bellissima e durissima fatta nell’isolamento più totale. Dopo la prima settimana di nevicate continue ci hanno abbandonati anche l’ufficiale di collegamento e il cuoco e siamo rimasti solo noi e la montagna. Il nostro campo era a tre giorni di cammino da Askole: poche case di fango e paglia. La via, tecnicamente molto dura, era stata aperta 8/10 anni prima da una spedizione giapponese. La nostra è stata la seconda salita assoluta della montagna e la prima in stile alpino.
Nel 1993 invece ti leghi in cordata con Gian Carlo Ruffino e Alessandro Vanetti per quel missile del Thalay. Una montagna che avevi sognato a lungo, giusto?
Ho deciso di tentare il Thalay già nel 1986, quando l’ho valutato in alternativa allo Shivling e poi quando l’ho visto dalla cima di quest’ultimo. Con Gian Carlo a Alessandro ci siamo trovati subito in sintonia sull’idea di alpinismo e la passione per quella montagna stupenda.
L’odissea della salita, un sogno o un incubo? Per chi non la conosce, riesci a fare un tuffo nel passato e raccontare quell’esperienza?
Prima della partenza abbiamo vissuto un periodo bellissimo di preparazione praticamente in comunità. Giorni in cui abbiamo sognato. Il coinvolgimento emotivo era grande ma ci siamo anche divertiti tanto. Per me, andare in montagna deve essere anche un divertimento e bisogna mantenere una certa dose di autoironia. La spedizione è continuata così: allegria e grande impegno. La via Through the mirror sul pilastro nord-est ci ha impegnati per 6 giorni di cui uno è stato perso per la caduta della tenda dalla parete sul ghiacciaio sottostante e così abbiamo dovuto scendere e recuperarla. Le difficoltà notevoli non ci hanno tolto il piacere d’arrampicare sul magnifico granito del Thalay, alternato da terreno misto e goulottes. La parte finale, sotto la calotta sommitale di ghiaccio, è invece di roccia pessima dove proteggersi è quasi impossibile. La nostra linea incontra quella polacco-norvegese a 200 metri dalla cima e da lì, per un deciso peggioramento del tempo, abbiamo dovuto scendere.
Per curiosità, cosa hai pensato quando nel 2016 questa montagna è tornata sotto i riflettore grazie alla direttissima russa?
Avevo adocchiato già all’epoca quel pilastro che incontra la nostra via a tre quarti e più volte ci ho fatto un pensiero ma non c’è mai stata occasione. I russi hanno fatto un lavoro stupendo in uno stile impeccabile.
Ad un certo punto hai chiuso il capitolo Himalaya. Sei per certi versi tornato indietro, verso quelle prime spedizioni extraeuropee? Nel ’84 avevi già aperto nuove vie nelle Ande, ed un decennio più tardi sei tornato
Quella prima spedizione del 1984 mi ha fatto innamorare delle Ande peruviane ma dopo quattro anni sono ritornato in Sud America per andare in Patagonia. Nell’ambito della mia famiglia ho da sempre sentito parlare di Alberto De Agostini, un lontano cugino (sua mamma e quella di mio bisnonno erano sorelle) e questo personaggio mi ha talmente affascinato che ho deciso di andare nei luoghi delle sue esplorazioni per studiarne l’attività e la personalità con l’obbiettivo di realizzare delle ascensioni e un film documentario.
L’amore per le Ande ti è rimasto, infatti sei tornato lì più e più volte. Cosa cerchi e trovi solo li?
Al di la dell’indiscutibile bellezza, sulle Ande è meno complicato muoversi e non c’è burocrazia. Dal punto di vista organizzativo è come scalare sulle Alpi. In Sud America trovo un ambiente grandioso e spesso ancora selvaggio, problemi alpinistici logici ed evidenti ancora da risolvere come: creste, pilastri e qualche volta anche pareti ed è ciò che mi piace cercare e trovare in montagna.
Sappiamo che sei molto legato anche alla tua terra, il biellese
Sì, sono sempre stato legato da un grande affetto alla mia terra, alla sua storia, ai personaggi che l’hanno fatta. Da ragazzo ero incuriosito da questo personaggio a cui era dedicata la parete Piacenza, una delle più impegnative delle Alpi biellesi. Quando ho scoperto la portata dell’attività di Mario Piacenza mi sono convinto dell’importanza della memoria storica per i giovani e ho deciso di organizzare un programma di spedizioni incentrate sulle figure di Piacenza e De Agostini con l’obbiettivo di realizzare due film documentari. Quell’idea si è poi concretizzata in numerose spedizioni, due film sulla figura di De Agostini e uno su quella di Mario Piacenza.
Hai toccato un tasto dolente. Nel frenetico mondo odierno, quanto è importante la storia e conoscerla?
Si tende spesso, specialmente da parte dei più giovani, ad osservare ed ammirare ciò che succede al vertice in quel momento, dimenticandosi di ciò che ha preceduto e che ne è stato il presupposto. La storia è fonte d’ispirazione: conoscere il passato serve a progettare il futuro.
Sei sempre stato molto discreto. Troppo forse? Per esempio una vostra via sulle Grandes Jorasses è stata ricalcata per lunga parte alcuni anni fa, completamente inconsapevolmente, da altri.
La discrezione fa parte del mio carattere ma, come ho già detto, sono anche stato un pessimo comunicatore. Alcune volte non ho sufficientemente divulgato ciò che ho fatto e così, nel caso del pilastro della est delle Jorasses, la via aperta con Paolo Cavagnetto è stata parzialmente ripercorsa da un’inconsapevole cordata russa. Sul Pic Adolphe però ho relazionato sulla via aperta con Valerio Bertoglio, Superlorenzi, ho anche lasciato diverse protezioni: chiodi e cordini sulla via. Era chiarissimo che fosse già stata salita. Alcuni anni dopo fu ripetuta, spittata e diventò Police des Glaciers, forse sarebbe stato più appropriato Voleur des Glaciers.
Domanda completamente diversa dal solito: sei guida alpina, ma hai anche una azienda di famiglia, un caseificio. Quello dei formaggi è un altro mondo, enorme ed affascinante. Ci parli un attimo di questo lavoro che, immaginiamo, dev’essere una passione quanto l’andar per montagne?
In realtà le mie prime esperienze di montagna sono legate ai formaggi. Da bambino seguivo spesso mio padre, per più giorni, attraverso gli alpeggi per visionare e contrattare le partite di formaggio. Il mondo legato ai formaggi ma più ampiamente alla cultura contadina della mia terra è quello in cui la mia famiglia vive da sempre. Oggi, fortunatamente, un prodotto tipico non è più solamente qualcosa con cui alimentarsi ma innanzitutto un fatto di cultura che parla della natura e dell’uomo con la sua storia. L’attività è iniziata alla fine del 1800 con la bisnonna paterna a Sordevolo, capoluogo della Valle dell’Elvo, nell’alto biellese, e noi siamo la quarta generazione a portare avanti una tradizione che si, è anche una grande passione.
Cos’hai sempre cercato, e cosa cerchi tutt’ora, quando vai in montagna?
Citando Machetto rispondo che cerco il mio "posto giusto". Citando Margherita Yourcenar rispondo che in montagna mi sento a casa, perché la montagna è il luogo dove per la prima volta ho gettato uno sguardo consapevole dentro me stesso ed è diventata la mia vera patria.
Festeggi oltre 30 di arrampicata e alpinismo. Cos’è cambiata di più in questi decenni e, domanda al contrario, che cosa invece è rimasto invariato?
Con l’età, la famiglia e il lavoro sono diminuiti il tempo a disposizione e la forma fisica ma sono rimasti i sogni e qualcuno, di tanto in tanto, riesco ancora a realizzarlo. Un alpinista resta sempre alpinista.
1984: due nuove vie: parete Nord-Est dello Jirishanca Chico e parete Nord-Ovest del Ninashanca (Ande Peruviane - Cordigliera di Huayuash).
1985: sulle Alpi Occidentali, ripetizioni e prime salite invernali. Apre numerose vie nuove, in qualche caso in solitaria.
1986: prima ascensione in stile alpino della parete Nord-Est del Monte Shivling (Himalaya del Garhwal).
1987: primo tentativo alla cima Est del Monte Nuptse per la via del pilastro Sud (Himalaya del Nepal).
1988: prima salita in stile alpino e seconda salita assoluta del Monte Latok III (Karakoram) e cresta Nord-Est del Monte Kun (Himalaya del Kashmir). Quest’ultima sarà la prima di una serie di spedizioni che avranno come obiettivo un programma di ricerca storica sulle figure di due importanti alpinisti-esploratori: Alberto Maria de Agostini e Mario Piacenza. Il prodotto del programma saranno due film e diverse pubblicazioni.
1988: prima salita del pilastro di sinistra della parete Est delle Grandes Jorasses.
1989: prima ascensione del pilastro Sud (m 6917) del Monte Nuptse (Himalaya del Nepal)
1989: monte Cho-Oyu (m 8201 - Himalaya del Tibet).
1990: no stop da El Chalten sul Monte Fitz Roy per la via Franco-Argentina (Ande della Patagonia).
1992: esplorazione nelle Ande della Terra del Fuoco, in particolare sul Monte Sarmiento, per il film "Padre Patagonia".
1994: nuova via in stile alpino sul pilastro Nord-Est del Talay Sagar (m 6950 - Himalaya del Garhwal).
1995: via nuova sulla parete sud della Gorra Blanca (Ande della Patagonia).
1996: tentativo allo sperone sud-ovest del K2 (m 8611 - Karakoram).
2000: parete sud-ovest dell’Alpamayo (m 5947) per la Via Ferrari (Ande Peruviane - Cordillera Blanca).
2003: prima salita, in stile alpino, della cresta Sud del Nevado Copa (m 6188 - Ande Peruviane - Cordillera Blanca).
2006: Aiguille Poincenot e Cerro De Girad (Ande della Patagonia).
2007: Nevado Alpamayo per la Via dei Francesi e scalate esplorative nel gruppo dei Nevados Chinchay (Ande Peruviane - Cordillera Blanca).
2008: organizza la spedizione Italo-Peruviana che porterà alla salita di una via nuova sulla parete Nord-Ovest del Nevado Santa Cruz (Ande Peruviane - Cordillera Blanca).
2010/13: tentativo di traversata del Cordon Mariano Moreno, Cerro Solo, Cerro Elettrico e Cerro Vespignani. Queste salite funzionali alla realizzazione di due films: "Impalpabili Regioni dell’Etere" e "Le Montagne non finiscono là" (Ande della Patagonia).
2011: via nuova sulla parete Est del nevado Santa Cruz Chico e sul Gran Gendarme del Nevado Santa Cruz Principale (Ande Peruviane - Cordillera Blanca).
2014: Huayna Potosi e tentativo sullo sperone Sud della cima Nord del Monte Illimani (Ande boliviane - Cordillera Real).
2016: prima ripetizione della cresta Sud-Ovest del Monte Jaqusiri e via nuova sulla parete Nord-Ovest del Monte Rumi Mallku (Ande boliviane - Cordillera Real).
2017: Nevado Condoriri, Nevado Chachacomani ((Ande boliviane - Cordillera Real), nuova via sulla Gran Muralla (Ande boliviane - Cordillera Quimza Cruz)
2018: Monte Kenya, parete nord della punta Batian e traversata sulla punta Nelion (Africa)
La copertina del libro Shiva's Lingam. Viaggio attraverso la parete Nord–Est (Versante Sud). Il racconto del viaggio di Paolo Bernascone, Fabrizio Manoni ed Enrico Rosso attraverso la parete Nord-Est dello Shivling. Un’epopea di otto giorni al limite della vita.