Riccardo Scarian: the 'Sky' has no limits
"Per me l’arrampicata non è fatta di soli numeri, ma è il sapersi dipingere in quel meraviglioso quadro che è la natura".
Leggo queste parole nella didascalia di un post, pubblicato da Riccardo Scarian durante il suo ultimo "viaggio arrampicatorio" in India, dov’è stato insieme alla compagna Valentina Fortuna, a gennaio di quest’anno. E ho ancora in mente questa frase quando lo incontro, in un bar nel centro di San Martino di Castrozza, in Primiero, per farmi raccontare i suoi primi 40 anni di scalate in mezz’ora: un’impresa assai titanica. Eppure le imprese titaniche non sembrano spaventarlo, a partire da quando – appena ragazzino – scoprì l’arrampicata: disciplina capace di farlo eccellere, competere e primeggiare.
"In realtà la mia prima passione fu lo sci alpino, – spiega Sky – che ho praticato con costanza e qualche successo fino ai 15/16 anni, raggiungendo piazzamenti come il secondo posto ai campionati nazionali di categoria. Però poi, proprio a 16 anni, rimasi folgorato dall’arrampicata. E fu quasi per caso. Era il 1984 e il mondo verticale non andava così di moda come adesso, anzi. In quel periodo, se arrampicavi eri uno straccione, o comunque un tipo strano e alternativo, ma per il me adolescente si trattava semplicemente di fuggire dal conformismo. Scoprii così che la mia valle era un oceano infinito di falesie dalle linee inesplorate ed ignote, alle quali iniziai ad avvicinarmi in maniera ingenua e per certi versi pericolosa."
Un esempio di tale pericolo?
"La mia prima via in montagna. Si trattava del Diedro Micheluzzi al Dente del Cimon, c’era questo mio coetaneo che si spacciava per grandissimo esperto, almeno rispetto a me che avevo appena cominciato. Mi invitò a provare insieme a lui questa via, mi aspettavo che l’avrebbe tirata tutta lui da primo di cordata, visto che la mia esperienza su vie in montagna era pari a zero. Andò a finire che i primi tiri, quelli più facili, li scalò lui, lasciando le difficoltà maggiori, che venivano dopo, a me. Mi ritrovai quindi ad inventare soste e manovre alpinistiche a caso: certo, avevo già un discreto livello grazie alle arrampicate in falesia, ma alpinisticamente non ero molto sul pezzo. Tant’è che arrivai persino a recuperarlo su un chiodo invece che in sosta, con tutti i rischi del caso. Ricordo poi che all’uscita della via incontrammo un’altra cordata, a cui chiedemmo indicazioni sul percorso da seguire per scendere a piedi, perché non lo sapevamo. Ci dissero di "seguire gli omini" ma noi nemmeno sapevamo cosa fossero. Fatto sta che ci mettemmo a seguire due persone che stavano rientrando, convinti che fossero proprio loro questi "omini" di cui ci avevano parlato gli altri."
Era l’età della scoperta, più che della performance. Com’è cambiato poi il tuo approccio, dall’arrampicata come avventura all’arrampicata come competizione?
"Entrambe le dimensioni, nel mio modo di scalare, sono sempre coesistite. Ma, se devo indicare uno spartiacque a partire dal quale l’arrampicata più competitiva ha cominciato ad affacciarsi, c’è soltanto un nome che mi viene in mente: Totoga. Una spettacolare parete di calcare fra la dolomia delle Pale di San Martino, falesia dalle vie durissime e chiodate lunghe. E lì, anche se non sempre si riusciva a concludere tutti i progetti che volevamo, ci si divertiva parecchio. Nel 1990 ero riuscito a ripetere le vie più dure aperte da Manolo in Totoga, arrivando fino all’8b. Sentivo che arrampicare mi veniva bene e venni coinvolto nelle competizioni quasi senza rendermene conto. L’ambiente delle gare sportive lo conoscevo già grazie allo sci alpino, ma per quanto riguarda l’arrampicata era ancora qualcosa di nuovo e sconosciuto."
La prima gara di cui hai ricordo?
"Meglio non averne ricordo: ero talmente agitato da non riuscire quasi a muovermi. Fu un vero fiasco. Però la terza già riuscii a vincerla. E si parla comunque di Coppa Italia, gare già di un certo livello. Poi, nel 1987, entrai nel Soccorso Alpino della Guardia di Finanza."
Il che un po’ ti ha cambiato la vita.
"Si sicuramente. Con la leva obbligatoria ero venuto a conoscenza di questa realtà: avrei potuto svolgere il servizio militare nella Guardia di Finanza, con la possibilità di finire poi nel corpo del Soccorso Alpino e dunque a Passo Rolle, vicinissimo a casa. Mi sembrava una tipologia di lavoro che potesse permettermi di stare in montagna quanto più tempo possibile e, di fatto, lo è stata. Nel 1996, visti i miei risultati, mi proposero di entrare nel Gruppo sportivo delle Fiamme Gialle, abbandonando per un po’ l’attività di Soccorso. E così sono stato un atleta professionista per 10 anni circa, facendo parte anche della squadra Nazionale. Fu una bellissima opportunità, che mi permise di migliorarmi e di rientrare poi, finita la carriera agonistica, nel Soccorso Alpino, di cui sono parte tutt’ora."
Almeno fino a fine anno.
"Già, a fine anno arriverà il congedo dal SAGF!"
Che farai allora?
"Sicuramente continuerò ad arrampicare e viaggiare e, perché no, dedicarmi anche a fare la Guida Alpina."
Quello sì che fu un traguardo al quale tenevi!
"Compiuti i 18 anni, provai sia le selezioni per diventare Maestro di Sci che quelle da Guida Alpina. (Che riuscii a superare entrambe). Avevo 5 anni di tempo per concludere entrambi i corsi, ma le ferie che avevo a disposizione allora erano poche e sicuramente non sufficienti a farmeli frequentare e finire tutti e due. Decisi di dare la precedenza a quello come Maestro, poi c’è stato il periodo delle gare e solo quando finì la mia avventura nel Gruppo sportivo decisi che era tempo di diventare anche Guida Alpina! Figura alla quale ho sempre tenuto. Così nel 2004 riprovai le selezioni e dal 2006 sono finalmente Guida Alpina."
Il che può permetterti di trasmettere agli altri ciò che la montagna ha trasmesso a te. Un nuovo cambiamento rispetto allo stile di vita da "garista".
"Dopo 10 anni nel professionismo, la mia mentalità è cambiata. Lì venivo pagato per la performance e per gli obiettivi che mi ponevo. Terminato quel periodo, allenarmi duramente non ha più lo stesso significato. Sto vivendo l’arrampicata per il gusto di farlo, senza preparazioni specifiche che mi consentano di arrivare ad una competizione in determinate condizioni: questa ritrovata rilassatezza azzera lo stress, anche se riesco comunque a mantenere la forte motivazione che sta alla base del mio arrampicare, ormai da 40 anni."
Se dovessi allora scegliere una via, una gara e un tiro in falesia che secondo te possono meglio definire questi 40 anni, quali sarebbero?
"Partendo dalle gare, direi la prima che ho vinto, nel 1990 a Erto. C’era una struttura montata ad hoc nella piazza del paese ed ero così felice di essere arrivato in finale che la sera prima festeggiai molto, forse troppo, insieme ad un amico. Ciò non mi impedì di vincere il giorno dopo, nello stupore generale e mio in primis. Però aggiungerei anche il Campionato italiano di boulder in Val di Fassa, nel 2001. Anche lì vinsi e fu un orgoglio e un onore incredibile vedere al 2° e 3° posto due atleti che erano già stati campioni del mondo, come Christian Core e Flavio Crespi. Per quanto riguarda la falesia, ovviamente Bain de sang, il 9a che ho ripetuto in a Saint Loup in Svizzera nel 2006. È stata una bella soddisfazione: in quegli anni, di italiani a quel livello eravamo forse in tre o quattro."
Passiamo alle vie lunghe. Quale multipitch aperta in carriera ti è rimasta più nel cuore?
"Anche qui devo citarne due, ma entrambe nello stesso posto, che ho davvero nel cuore: si tratta di Val Nuvola, nei pressi di Passo Brocon. È un luogo incantevole e selvaggio, chiuso da pareti aggettanti e veramente dure, ma stupende. In Val Nuvola ho aperto Shakti, nel 2011, con difficoltà fino all’8b+. E poi la sua gemella, Wu Wei, un progetto iniziato nel 2016 insieme all’ amico Alessandro Zeni. Ha un tiro di 9a molto tosto e abbiamo impiegato ben 6 anni per aprirla tutta, dal basso come fatto con Shakti. Ale poi ha liberato tutta la via l'anno scorso. Ma ci sono anche altre due vie che resteranno indelebili nella mia mente e non sono mie."
E quali sono?
"La via Attraverso il pesce in Marmolada, che ho salito a-vista nel 1991." (Seconda ripetizione on-sight, dopo quella del collega finanziere e grande amico Daniele De Candido nel 1990, ndr).
Che effetto fa percorrere a vista un itinerario così storico?
"All’epoca era una delle vie più difficili e temute delle Alpi. Con l’amico che mi accompagnava non eravamo molto fiduciosi di potercela fare: la notte prima, in rifugio, non avevamo nemmeno chiuso occhio. Ma poi... è successo ed è stata una magia."
L'altra?
"L’ altra sicuramente è stata la prima salita in stile "trad" del Mattino dei maghi 7c+ al Totoga, il 7 ottobre 2017 con l'amico Alessandro Zeni. A distanza di poche ore abbiamo compiuto due salite dove era assolutamente vietato sbagliare! Anche quello, un giorno davvero magico."
A questo punto mi ritorna in mente la frase iniziale, "sapersi dipingere in quel meraviglioso quadro che è la natura." Forse significa proprio questo; alla fine della nostra chiacchierata, penso non ci sia frase più adatta per descrivere Riccardo Scarian.
Intervista redazione Elbec