Diretta Italiana al Mount Dickey in Alaska. Il racconto di Mario Manica della salita del 1991

Diretta Italiana, 1850 metri di sviluppo VII+ A3, fu la prima via su roccia aperta da italiani in Alaska. Salita nel 1991 sull’allora inviolata parete Sud del Monte Dickey (2909m), la linea impegnò una lunga cordata composta da Giuseppe Bagattoli, Paolo Borgonovo, Fabrizio Defrancesco, Bruno De Donà, Fabio Leoni, Mario Manica e Danny Zampiccoli.
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Sulla cima del Mt Dickey (2909m) in Alaska nel 1991 dopo l'apertura della Diretta Italiana sull'inviolata Sud del Mt Dickey. Da sx Fabio Leoni, Giuseppe Bagattoli, Mario Manica, Paolo Borgonovo, Fabrizio Defrancesco, Bruno De Donà, Danny Zampiccoli
archivio Mario Manica

Nell’aprile del 2024 il britannico Tom Livingstone e lo sloveno Gašper Pintar hanno effettuato la prima salita della via di misto 'The Great Wall' sulla parete sud del Mount Dickey (2909m) nella Ruth Gorge in Alaska. I due ci hanno spiegato che erano saliti a sinistra della via italiana. Incuriositi, le nostre ricerche ci hanno portati direttamente a Fabio Leoni, Mario Manica, Giuseppe Bagattoli, Danny Zampiccoli, Fabrizio Defrancesco, Bruno De Donà e Paolo Borgonovo che ad inizio giugno del 1991 avevano salito la Diretta Italiana sull’allora inviolata parete Sud. Una muraglia verticale di 1500 metri, solcata da un linea quasi diretta alla cima. Per inciso, la prima via su roccia aperta da italiani in Alaska e soltanto la quarta nuova linea tricolore dopo la Via Cassin, la Variante Messner e The Ridge of no return di Renato Casarotto, tutti tra l'altro sul Denali. Mario Manica ce l’ha riportata alla memoria.


LA PRIMA VIA TRICOLORE SU ROCCIA IN ALASKA da un racconto di Mario Manica

1988 Isola di Baffin, big wall fuori rotta.
Freddo, isolamento totale, incredibili pareti ovunque. Il desiderio è di evadere. Evadere dalla nostra amata Patagonia, che in questi ultimi anni viene presa d’assalto. Così in questo 1988 partiamo in quattro alla volta di un’isola spaventosamente grande e spaventosamente selvaggia, la più vasta dell’arcipelago artico canadese. Non c’è nulla che la renda ricca: niente minerali né petrolio. Ma le sue grandi pareti sono indicibili. Con solo una manciata di alpinisti ad averle salite. La Terra di Baffin sarà la nostra casa. Il Mt Asgard 2015 m, nella Cordigliera Artica, la “nostra” montagna. Con Luca Leonardi, Fabio Leoni e Fabrizio Defrancesco apriremo in stile alpino Sole di mezzanotte, lungo il pilastro sudovest della Torre sud. VII A3 70° 600 m.


1991 Alaska: la prima via italiana su big wall.
Tre anni più tardi cerchiamo un'altra meta fuori dalle consuete rotte di noi bigwallisti. È il 1991, e per mancanza di fantasia, ma tanta voglia di metterci all’opera, chiameremo la nostra spedizione Alaska ‘91. Perché è lì che vogliamo andare io e Fabio: nella terra che gli Stati Uniti hanno acquistato dalla Russia nel 1867.

Al 1991 le linee italiane in Alaska figurano tutte sul Mt McKinley, il Denali, la cima più alta del Nord America 6190 m. Le centinaia di cime che lo circondano, al suo cospetto appaiono insignificanti satelliti di granito. Soprattutto agli occhi di noi europei. Ma un articolo della Rivista della Montagna e alcune foto di un inserto del National Geographic americano ci danno le esatte dimensioni di questi nanetti. Le loro big wall di granito si riflettono nel Ruth Gorge, nel cuore della Central Alaska Range, con imponenza straordinaria.

La Est del Mount Barrille 2332 m si solleva dal ghiacciaio nei suoi infiniti 900 metri d’altezza. Il Mount Dickey 2909 m alza l’asticella a 1500 metri lungo le sue pareti est e sud. Con 4000 metri in larghezza. Il Mount Bradley 2770 m arriva a 1400 metri di bigwall; 1200 metri per il Mount Johnson 2560 m. E 1300 metri per il Moose’s Tooth 3139 m. Sono tutte pareti granitiche enormi e il potenziale tutto attorno è letteralmente infinito.

C’è poi un altro motivo che spinge me e Fabio a questa scelta. Le linee italiane aperte qui - e che vie e che apritori! - sono appunto tre: lo Sperone Cassin, la Variante Messner, The way of no return di Casarotto. Tutte al Denali-McKinley come detto, e al 99% su ghiaccio. Se riuscissimo nell’intento, la nostra sarebbe la quarta via tricolore, ma la prima via italiana su roccia in Alaska.

Alaska ‘91, serve una squadra
Dunque, deciso. Serve una squadra ora. Una cosa tira l’altra e da due... Il primo a entrare è Danny Zampiccoli. Qualsiasi parete, purché scalabile, lo entusiasma. Piccolino, capelli sempre arruffati. In qualsiasi situazione, anche la più critica, lui potrà sfoderare da sotto il suo pizzetto una carica di gioiosa abilità. Arruolato! Quindi c’è Defrancesco. Con lui sono già stato al Cerro Torre, alla Torre Centrale del Paine e a Baffin. Ci lega un feeling proprio bello! A bordo pure lui. Poi il Borgo (Paolo Borgonovo): simpatico, pieno di battute, spalle buone! Non può mancare! Per Giuseppe Bagattoli, spesso in giro con Fabio, gli aspetti negativi non esistono. Mai! Ci vuole il suo spirito. Infine el beretela Bruno De Donà. Il nostro mito alpinistico. Non meno conosciuto per i suoi sermoni e il suo cappello di lana stile peruviano. Neppure quando dorme sembrerebbe levarselo. E infine, Bruna, moglie di Fabrizio, ad accompagnarci. E da due... finiremo in otto, sette in parete/cordata!

Le serate di diapositive sono il nostro unico canale per promuoverci. Stamperemo magliette e cartoline per autofinanziare la spedizione. Ne venderemo un sacco nelle nostre conferenze, nei rifugi alpini, tra amici, finché quasi per intero tutti i biglietti per l’Alaska saranno pagati.

Nelle poche volte in cui riusciamo a vederci tutti quanti per decidere come organizzarci, risulta chiaro che dovremo dividerci in due gruppi. Ma chi deciderà i gruppi? Rimandiamo la decisione, allegramente convinti del fatto che, una volta tra le montagne, sarà tutto più facile. Il materiale comunque lo prepariamo per due cordate. Dopo una puntata a Yosemite in cui Fabio, Danny e io scaleremo Triple Direct, via verso Anchorage, la capitale dell’Alaska, anticipando il resto del gruppo.

All you can eat e tenda per otto!
Abbiamo il compito di trovare un campeggio economico. Ma lo sarà solo con uno stratagemma: si paga a tenda, non a ospite. Quindi anticipiamo i nostri 36 dollari per i tre giorni che calcoliamo di restare. Poi montiamo la tenda. Una Ferrino tipo Globe: in 8 persone si dorme più che bene! Inoltre ci sta anche molto materiale: 1 dollaro e mezza a testa al giorno. Il gestore non ha parole, sconcertato del magro affare fatto con noi italiani. Poi è la volta della spesa.... Un mese di cibo per otto persone equivale a una montagna di cibo. Occorre tagliare: via questo, via quello; via la carne (cosa che farà andare su tutte le furie Bruno), meno carta igienica, meno pasta, via lo zucchero, tagliamo le cose più pesanti. OK! questo può bastare.

La sera prima della partenza tutti allo Sizzler: 8 dollari e si mangia all’infinito, all you can eat. Per Paolo, Bruno e Giuseppe è una novità. Usciamo che rotoliamo tanto ci siamo abbuffati, ma diamo tutti la colpa ai confettini colorati sopra le nostre montagne di gelato. Ci hanno rovinato la digestione!

Con un vecchio scalcinato ed economico scuolabus, affittato allo scopo, raggiungiamo in 200 chilometri Talkeetna. E per risparmiare ancora, dormiremo negli hangar della piccola compagnia aerea che l’indomani ci trasporterà sul ghiacciaio. Mai nessun avvicinamento alle pareti sarà così confortevole. Voleremo sopra i ghiacciai, sopra le montagne e le pareti. Tutto filerà liscio: con 4 voli di Cessna eccoci nel mezzo del Ruth Gorge. I nostri sacconi del materiale e la montagnola di cibo sparpagliati nella neve. Ci sentiamo pulci su un grande lenzuolo bianco, accerchiati da giganti insuperabili.

Ruth Gorge: granito granito e ancora granito
Il lungo serpente di ghiaccio parte dalle pendici del Mount McKinley poi per 30 chilometri, sia sulla destra sia sulla sinistra, pareti pareti e ancora pareti. Guglie guglie e ancora guglie. Granito granito e ancora granito. Canali canali e ancora canali. Ghiaccio ghiaccio e ancora ghiaccio. Ci sediamo sui sacconi per un bel po’. Ognuno guarda alla propria montagna, ognuno sogna la propria linea. Il sole ci cuoce. Occorre montare velocemente la nostra mega globe, che fungerà da tenda cucina e magazzino; se restiamo esposti al sole in un attimo ci ustioneremo.

Installiamo anche le nostre quattro tendine: Danny e Fabio; Fabrizio e Bruna; Borgo e Giuseppe; ed essendo gli unici due fumatori, io e Bruno. Io ho anche l’ingrato e investigativo compito di verificare se Bruno si tolga effettivamente il cappello quando dorme. E se per caso lo fa, se sotto ha i capelli. Ma questo rimarrà un segreto fra me e Bruno. Il sole non se ne va praticamente mai la sera, chiusi tutti nella tenda-mensa riparati dal freddo e dal vento, come fossimo in campeggio, chiacchieriamo e cantiamo mentre Bruno e Paolo suonano l’armonica.

Tutti una squadra
I giorni dopo cominciamo a guardarci attorno, a preparare gli zaini, a individuare possibili linee nuove di salita finché non arriva il momento di decidere chi con chi; cioè formare due cordate: una da quattro e una da tre. Tutti però vorrebbero arrampicare con tutti. Proviamo a sorteggio oppure a estrazione di bastoncini: la soluzione non arriva; nessuno di noi, in realtà, la vuole trovare. Siamo tutti una squadra.

Due le vie individuate. Una sul Mount Barrille 2332 m, al centro della Est: un bel pilastro di circa 900 metri di dislivello; l’altra sull’enorme e involata Sud del Mount Dickey, 1500 di dislivello. Al mondo alpinistico parrà strano che sette alpinisti legati a un’unica corda tentino una via nuova di 1500 metri. E sì, è sembrato strano anche a noi essere in così tanti su una via di granito del genere. Ma vi assicuro che ognuno, senza dire una parola e senza un capo spedizione, sapeva quando muoversi partire o anche restare in silenzio. Ognuno super competente. Tutti eravamo lì per fare la cima. Ma anche per divertirci: non c’è stata sera che non finisse in scherzi o con una bella cantata. Era bello, ed era strano. Sembravamo un’allegra brigata di amici che si fosse ritrovata per la prima volta dai tempi delle scuole elementari.

Mt Dickey, 1500 metri di grande parete
La roccia non sarà quella di Baffin o del patagonico Cerro Piergiorgio 2565 m (dove con Renzo Vettori, nel novembre 1985, al Pilastro nord-ovest avevamo aperto la prima linea di questa immensa muraglia di roccia, Greenpeace 800 m VII+ A1). Il granito qui è molto fragile. Saliamo lentamente, una cordata sempre in parete: chi arrampica chi porta materiale chi ride chi scherza, chi sistema le corde fisse chi le soste.

Danny e Fabio superano alcuni difficili tiri in placca e in un gran diedro aperto, per poi affrontare una delicata traversata a destra. Cerchiamo di salire al centro di un grande pilastro per i primi 700 metri, poi si vedrà; la parete da sotto non sembra così grande, ma la cartina dettagliata di questa zona parla chiaro: Campo Base s.l.m. 1400 metri, cima del Mount Dickey 2909 m s.l.m. Dunque: 1500 metri di parete.

Il tempo spesso fa i capricci, spesso però c’è anche un gran bel sole. Il morale è alle stelle. Sentiamo che una lunga cordata salirà una gran lunga via. Qualche giorno lo passiamo fermi al Campo Base. Le filippiche di Bruno tengono banco, parla di politica di torti subiti e di come cambierebbe lui le cose. Bruno è il più vecchio tra noi. Con lui è la prima volta che scalo. Ha la fama di alpinista duro, di quelli che prima di ripiegare spaccano le montagne. La sua più incredibile impresa, pagina di storia della Patagonia, è la salita in stile alpino della Torre Egger. Non dategli una placca verticale o un muro liscio! Dategli un camino sporco o ghiacciato o bagnato, e nessuno e niente lo fermerà.

Si parte per la vetta
Dopo una decina di giorni siamo pronti: tutte le nostre corde sono stese in parete. 700 metri, fin quasi in cima al pilastro. È il momento. Si parte per la vetta, una vetta che comunque è distante più di 800 metri di dislivello dalla fine delle corde fisse.

Fabrizio è davanti. Per arrivare in cima al pilastro ci sono due tiri su una placca difficilmente proteggibile. È pane per i suoi denti. Dietro, pian piano, gli altri. Nel tardo pomeriggio siamo tutti in cima al pilastro. Il posto è magnifico! Sembra di essere sul Cap Spire di El Capitan in Yosemite: acqua a volontà e sabbietta sotto i materassini; tutt’attorno pareti enormi. Proprio di fronte a noi l’allora inviolata e pazzesca parete nord del Mount Bradley 2770 m (salita poi in stile alpino dai canadesi Maxime Turgeon e Louis Philippe Ménard nel giugno 2005). Sotto, la lunga lingua di ghiaccio del Ruth Gorge. A sinistra spunta la perfetta sagoma del Broken Tooth 2758 m, a destra incredibilmente grandi i pilastri quasi tutti inviolati del Moose’s Tooth 3139 m.

Lassù, su quel pilastro, ceniamo tutti assieme e cantiamo a squarciagola come fossimo al pub. Chi arrampicherà durante la notte è già nel sacco a pelo. Anni dopo Jack Tackle, che quella stessa notte a chilometri di distanza stava aprendo con Jim Donini la via Cobra Pillar sul Mount Barrille, mi dirà di averci sentito cantare, e di aver sentito in quei canti la nostra gioia di vivere.

Roccia come fosse burro
La cordata ora si muove più lenta. I tiri non sono così difficili come la parete già aperta, ma è difficile capire dove salire. La parete è davvero enorme. Abbiamo paura di sbagliare e di dover scendere. Inoltre, un camino canale che all’ultimo abbiamo deciso di non salire, ha scaricato due secondi dopo alcune camionate di ghiaccio e roccia. Ci spostiamo verso destra, probabilmente abbastanza vicini alla via aperta da Galen Rowell, David Roberts e Ed Ward del 1974.

Un tiro con dei passi in artificiale su roccia da panico mi toglie un anno di vita. Metto un chiodo, poi un altro, quindi un dado. Messo il dado, tolgo il primo chiodo con le dita come l’avessi sfilato dal burro tenero. Avanti così. Per fortuna va tutto bene. Questo tratto era obbligato per evitare di entrare nei camini colatoi. Per salirlo ho impiegato sicuramente alcune ore. Dalla sosta sopra di me ora un bel camino bagnato leggermente sporco di muschio e con dei piccoli tettini di ghiaccio.

È passata la mezzanotte. Inizia a nevicare. Per fortuna non fa freddo. Quando il primo è più lento, finiamo per trovarci sulle soste non di rado in tre o quattro. Ogni tanto è un bel casino di zaini e corde attorcigliate. Siamo felici, si ride e scherza anche se siamo tutti super attenti e tesi come corde di violino. La neve ora scende copiosa. Borgo riesce in qualche modo a preparare, appeso alle corde, una ciotola con dentro della minestra calda.

È il turno di Bruno. È il suo terreno. Quando è arrivato in sosta, e ha guardato in su, senza dire una parola è partito. Come se qualcuno gli avesse dato una carica di energia nucleare. Tutti al riparo! ci urla. Non serve che lo ripeta una seconda volta. Dal camino sentiamo un martello compressore che sbuffa scava batte rompe demolisce. Giù pezzi di neve e ghiaccio. Bimm, bemm, bamm. Corda! Dammi corda!, dice. Sale batte demolisce, è davvero il suo terreno. Come un bambino che gioca con il secchiello e la paletta in spiaggia, crediamo si stia davvero divertendo.

Le frontali non servono, la luce attorno basta. Nevica sempre più forte. Abbiamo perso il conto dei tiri fatti, dovremmo essere sulla quarantina: di primo mattino siamo sulla cengia ben visibile dal basso, qualche centinaio di metri sotto la cima.

Un urlo, poi silenzio.
Attraversiamo per circa 200 metri a sinistra, poi di nuovo su. Decidiamo di evitare il grande canale di neve che porta direttamente in cima: troppo pericoloso per le valanghe, per la neve che copiosa scende. Danny sale per delle placche inclinate e sporche di neve; sparisce dalla nostra vista, un urlo poi il silenzio. Dopo lunghissimi secondi risponde che una mano gli è rimasta schiacciata sotto una grande lastra. Per fortuna è riuscito ad evitare il peggio, sembrerebbe solo una gran botta-escoriazione. Con cautela saliamo. Siamo stanchi, bagnati. La neve ora è fonda e instabile.

Cerchiamo di rimanere il più vicino alle rocce. Paolo Giuseppe e Bruno si danno il cambio per fare traccia: alcuni tratti sono davvero faticosi, la montagna è avvolta in una fitta nebbia. Una schiarita quasi miracolosa, ed ecco la cima poco davanti a noi! Una cima non cima: un grande plateau innevato. Ci sediamo stanchi nella neve, le macchine fotografiche fanno il loro dovere; alle nostre spalle, per pochi secondi, vediamo il Denali-McKinley. Trovare la discesa in un labirinto di crepacci coperti di neve e senza indicazioni ci costa tempo, un sacco di fatica e qualche bel spavento. Per evitare lunghi e pericolosi traversi, facciamo lunghe doppie nel vuoto sui seracchi. La nostra cordata si muove lentamente, e lentamente arriviamo anche alla cabina d’emergenza.

Diretta italiana. 1850 m di sviluppo VII+ A3
E… sorpresa! Bruna, che sinceramente ancora non riesco spiegarmi come abbia fatto, ha portato fin quassù i nostri sette paia di sci! Borgo, Giuseppe, Fabri e Danny partono come saette non appena se li sono messi ai piedi. Io, Fabio e Bruno un po’ meno! Ma con i nostri incredibili voli e le nostre incredibili acrobazie scendiamo pure noi, e dopo due ore siamo tutti riuniti al Campo Base. Passiamo la notte chiacchierando e rivivendo la salita. E dopo infinite discussioni, e solo per alzata di mano, la chiameremo Diretta italiana.

di Mario Manica

NB: Nota dell’autore
Spesso nel citare le ascensioni al Mount Dickey si dimentica l’incredibile salita in stile alpino di Andreas Orgler e Tommy Bonapace al pilastro Est. Ascensione compiuta nel 1988 in 5 giorni: 53 tiri ED VII+ A3+. Ci tengo molto a ricordarla, perché personalmente ritengo sia una delle salite più stupefacenti e meno note degli anni Novanta su roccia, non solo in Nord America. La via non è mai stata ripetuta.




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