Filip Babicz e il Grand Capucin in 49 minuti. L’intervista speed
Il 23 settembre Filip Babicz ha salito in solitaria e senza corda la Via degli Svizzeri con uscita sulla via O Sole Mio sul Grand Capucin nel massiccio del Monte Bianco, fermando il cronometro dopo soli 49 minuti. Come per l'Integralissima di Peuterey, l’Aiguille Noire de Peuterey e lo Spigolo Nord del Pizzo Badile, si tratta di un tempo strabiliante, difficile se non impossibile da comprendere. Ecco i dettagli dell'impresa direttamente dal 39enne.
Partiamo dall’inizio Filip, dalla tua prima volta sulla Via degli Svizzeri a maggio. Cos’hai pensato salendo questa classica delle classiche?
Era un giro di acclimatamento ad inizio stagione, il giorno prima ero al Dente del Gigante e volevo vedere questa grande classica. Insieme a Simone Rigollet abbiamo scalato la linea originale, non uscendo su O Sole Mio. Mi sono reso conto subito che questa via si presta molto ad una salita "speed" e ne ho parlato sia con Simone, sia con Didier e Jacques Chanoine, i figli di Armando, il gestore del rifugio Torino, anch’essi quel giorno sulla Via degli Svizzeri. Al momento pensavo però ad una salita in cordata, tipo il record di velocità sul Nose di El Capitain, non ad una solitaria.
Sei partito dal punto più basso della parete. Raccontaci.
Sì, è un "dettaglio" importante. Il mio obiettivo era scalare l’intero Gran Capucin nel minor tempo possibile, non percorrere una via precisa. La Via degli Svizzeri parte molto in alto, dal Couloir des Aiguillettes, un canalone posto tra il Grand Capucin e il Trident du Tacul. Attualmente però si parte molto più in basso, sotto l’attacco diretto della Bonatti, a causa delle condizioni del canale, del crepaccio terminale e del rischio di caduta di pietre. Di seguito si fanno due tiri in traverso lungo le "Terrazze di Francesco" ed infine attraverso un centinaio di metri di terreno facile si raggiunge l’attacco originale della Via degli Svizzeri. Quando ad agosto sono ritornato su Gran Cap per iniziare a preparare il record ho notato che negli ultimi 2 mesi il ghiacciaio si era abbassato ulteriormente di ben 25 metri! C’era anche una corda fissa per raggiungere il livello di prima, ma questa soluzione non mi andava a genio. Ho tracciato quindi un tiro d’attacco, tra l’altro molto bello, piazzando 1 spit in placca dov’era impossibile proteggersi. Con il passare dei giorni lo scioglimento del ghiacciaio continuava e poco dopo sono usciti fuori altri 5 metri di placca! Quindi ho messo un altro spit in partenza. Alla fine, il 23 settembre sono partito 45 metri sotto la cengia iniziale.
Pazzesco. Fa riflettere certamente. Senti, prima di quel 23 settembre l’hai salito in tutto 7 volte. Cosa cercavi e cosa ti hanno insegnato questi tentativi?
Durante le mie salite in velocità, come spiega anche Alex Honnold, “l’idea è la ricerca della sensazione di perfezione.” [The idea is you're seeking out that feeling of perfection.] Questi "lap", li chiamo così dal gergo dell’atletica, servono per avvicinarmi sempre di più alla salita ideale. Cerco le traiettorie ottimali, i passaggi più veloci, memorizzo tutto. Ovviamente avendo grande margine su queste difficoltà potrei salire la stessa via in mille altri modi, ma l’obiettivo non è salire, è farlo nel minor tempo possibile. Sono due cose molto diverse.
Il numero delle salite di preparazione dipende della mia percezione. Devo sentirmi pronto per affrontare la sfida considerando il rischio coinvolto, pronto per dare il massimo sia fisicamente che mentalmente. Dopo la prima salita a maggio l'ho rifatta altre 6 volte, tre in cordata con Giulio Bosca, Michela Patriarca e Andrea Parisi e poi tre in solitaria, studiando i dettagli della parete e rendendola sempre di più "casa".
Nel mezzo però sei stato in spedizione, in Perù, con il gruppo dell’alta montagna. Un’esperienza importante anche questa?
Sì, è stata un’esperienza importante anche se conclusa prematuramente per me causa malattia. Ho scoperto sulla mia pelle l’importanza della squadra in montagna, di potersi fidare dei propri compagni. Non quando va tutto bene, ma soprattutto nelle situazioni difficili, quando si è deboli. È in questi momenti che la comprensione e l’aiuto dell’amico fanno la differenza.
Poi sei tornato sul Grand Capucin. L’hai fatto proprio allo scadere dell’estate, ultimo giorno utile…
Sì era molto stressante, appena 12 ore dopo il record la parete era bianca ormai. Dopo essermi ripreso dalla malattia presa in spedizione, volevo a tutti i costi sfruttare il poco tempo rimasto. Mi sono lanciato a capofitto nella preparazione del nuovo record al Badile, ma anche lì, alcuni problemi personali presto mi hanno costretto a fare dietrofront. Visto le circostanze, ho scelto un progetto vicino a casa. Tra mille problematiche andavo a preparare la salita al Capucin, ma senza la tranquillità necessaria per questo tipo di obiettivo era uno sforzo psicofisico immane. Così è arrivato settembre e le prime nevicate hanno sporcato la parete. Il 19 settembre, 4 giorni prima della salita, ero al Torino ed ero disperato: sapevo che il brutto tempo che avrebbe posto fine alle mie speranze stava per arrivare… e la parete era ancora sporca dalla perturbazione precedente! Credevo fosse la fine dei giochi, ero rabbioso! In questo momento non facile per me sono rimasto in contatto solo con le mie fedelissime sostenitrici, Michela Patriarca e Renata Rossi.
Ho rifatto per l’ennesima volta i miei calcoli mettendoci tutta la mia fede dentro. L’ultima chance, pensavo: "Domani, il 20 settembre, lascio asciugare la parete, poi il 21 andrò su a controllare. Se vedo un buon cambiamento posso sperare che il 22 si scalderà ed asciugherà ancora. Se la trovo molto sporca, è la fine". Il 21, come da programma, sono andato a fare l’ultimo giro. Non era male ma comunque scendendo in doppia ho dovuto dare una mano alla natura: appeso alle corde toglievo i cubi di ghiaccio dai gradini per pulire la mia "pista".
Una "pista" lunga 49 minuti. Ti aspettavi questo tempo? Cosa speravi?
L’obiettivo era fare un ottimo tempo, immaginavo poteva essere 1h15’ circa. Il sogno era avere lo zero davanti, scendere sotto l’ora, ma non sapevo se fosse possibile. 570 metri di parete sono tanti e anche tanti in più rispetto ai canonici 300-350 metri della sola Via degli Svizzeri. Scendere sotto il muro dei 50 minuti? No, questo era proprio inimmaginabile per me!
Ci parli allora dello stile di salita? Cos’hai adottato? Che materiale avevi con te?
Lo stile della salita, lo “Speed Solo”, è stato spiegato in modo preciso ed inequivocabile da Alex Honnold in occasione del suo record del Nose su El Capitan: "Tutto vale, ogni combinazione di arrampicata in libera, arrampicata artificiale, barare. Metti i piedi sugli spit, tiri le protezioni se serve, vale tutto." [Anything goes, any combination of free climbing, aid climbing, cheating. You're stepping on bolts, you're pulling on gear if you need to, total free-for-all.] L'obiettivo è scalare più velocemente possibile, non in libera, facendo ogni passo pulito. È questione di priorità.
È doveroso aggiungere però due parole anche sull’etica e la totale autonomia, il punto comune per tutti i miei record. La montagna viene affrontata in condizioni standard senza snaturarla rendendo la mia performance imparagonabile con le altre salite dello stesso percorso. Quindi no ai depositi, no alle corde fisse aggiunte per l’occasione, no all’assistenza (ristori, cambi materiale etc.). Con questi paletti la mia salita rimane a tutti gli effetti una "vera" scalata della montagna, non una gara di corsa.
Come materiale avevo le scarpette EB Balboa, un sacchetto della magnesite, un imbrago ultraleggero, una longe di 130 cm, un friend viola, 2 rinvii, 2 orologi, 2 gel e un berretto per un totale 1,2kg. Per le doppie invece ho portato 60 metri di cordino kevlar da 6mm, un nano otto e un cordino autobloccante (1,8kg in più).
49 minuti per la salita. Quanto ci hai messo invece per scendere ;-)?
Una cinquantina di minuti, con calma. In cima sono stato un quarto d’ora e in un paio d’ore scarse dalla partenza ero di nuovo alla base della parete.
Filip nel video di te sul Badile si è visto bene quanto ti sei spinto fisicamente. E qui?
Al massimo. Quando accendo il cronometro divento un vero cavallo da corsa, la gara diventa la bolla in cui mi trovo. Non esiste altro e a questo devo pensare preventivamente durante la fase di preparazione. Sia il corpo che la mente devono essere pronti per reggere uno sforzo fisico del genere nelle circostanze in cui il rischio è totale. In questo preciso caso la media del mio battito era 176 al minuto. In cima, a quasi 4000 metri, sono arrivato a 180 battiti. Una volta arrivato in vetta, prima di riprendere il respiro ed alzarmi in piedi per un minuto sono rimasto sdraiato sulla roccia, abbracciando il punto più alto. Si tratta di andare proprio al limite.
Cos’è stata la cosa più difficile?
La performance stessa è un’impresa estrema, ma è il mio pane, sono totalmente immerso nel mio elemento. Invece il lato organizzativo della cosa, i soldi per la realizzazione del progetto, lo staff per le riprese e l’aiuto logistico ecc sono aspetti a cui devo pensare e che disturbano questa sintonia e la mia totale concentrazione. Quindi diciamo che il presentare questi “eventi” al mondo paradossalmente è l’aspetto più difficoltoso per me.
Crediamo che sarebbe troppo facile ridurre le tue salite a numeri soltanto. In fondo, cosa stai cercando Filip? Dove ti sta portando tutto ciò, e quale sarà per te il momento in cui dici "basta, sono sodisfatto"?
Sono un atleta nato, le mie performances costituiscono l’essenza della mia esistenza. Pratico tante discipline molto diverse tra di loro ma ciò che le accomuna è che le sento dentro, le sento dentro il mio cuore. Non sto seguendo le mode. Non sto nemmeno cercando di fare la cosa più remunerativa dal punto di vista di visibilità, di sponsor o di approvazione. Sto semplicemente percorrendo, in modo consapevole, la mia strada.
Le salite in velocità, tra tutte le mie attività, hanno comunque un’importanza speciale per me. In esse ritrovo me stesso, ritrovo l’unicità con la montagna, la percezione quasi mistica di essere tutt’uno con l’ambiente circostante. Tutto è compresso: io, il tempo, lo spazio. È sperimentare una dimensione a parte, una cosa unica, senza la quale non potrei più vivere. Ho ancora tanti progetti da compiere in questo campo, anche più importanti che mi fanno sognare ogni giorno.
Poi devo dire che i miei exploit seguono una continua progressione, ci sono dei balzi in avanti per quanto riguarda l’ingaggio delle mie sfide. Le performance compiute sono il motore, i tasselli di crescita per realizzare i progetti seguenti. Si tratta di una vita ai limiti, di un continuo mettersi alla prova, di una costante ricerca di spostare i confini del possibile.
Babicz ringrazia Karpos