Vietato sporgersi alla Granta Parei in Val di Rhêmes. Di Mario Ogliengo

Mario Ogliengo ricorda le prime esplorazioni della immensa e selvaggia Granta Parey in Val di Rhêmes, Valle d'Aosta. Una parete di stampo dolomitico, conosciuta amichevolmente anche come il 'Wenden dei poveri'.
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L'enorme parete del Granta Parey in Val di Rhêmes
Mario Ogliengo

Questa è la storia di un’avventura vissuta 30 anni fa. È passato poco tempo dal momento in cui ‘Radio Nuove Vie’ annunciava l’apertura di un nuovo itinerario alla Granta Parei da parte di Michele Amadio & Andrea Benato. Duro, duro, con 10 tironi di corda con difficoltà obbligatorie sul 7a. Vorrei abbracciarli, quei due, così in gamba.

Sento Michele e ci vediamo per birra e relative news. Mi racconta della via e mi chiede della storia di questa montagna, di quell’itinerario che ha 30 anni, ormai antico, che lui è tra i pochi ad aver ripetuto e ad averne subìto il fascino, tanto da farlo ritornare su quella parete. Sono saliti lungo muri striati di nero, verticali e strapiombanti, hanno trovato una linea moderna ed esigente e soprattutto hanno riportato l’attenzione su di una montagna dalla pessima fama rocciosa. Grandioso!

Questa notizia mi riporta indietro nel tempo, agli inizi degli anni novanta, quando i muscoli erano tonici e l’occhio vispo e un po’ coraggioso. Sì, perché dai primi anni ‘80 il sottoscritto e la sua amabile compagna gestivano il Rifugio Benevolo, "casualmente" sovrastato da questa montagna.

All’epoca la Granta Parei mi assillava, mi sbirciava e mi sfidava. Tutti i giorni mi svegliavo e la vedevo sopra la mia testa, riempiva l’orizzonte con la sua massa, si imponeva con le sue linee verticali impressionanti. Un muraglione che sorgeva in mezzo ai ghiacciai (che in quegli anni esistevano ancora) dolci e allungati.

Questa struttura è unica nel suo genere in Valle d’Aosta, una scheggia di Dolomiti che per qualche ragione geologica si è stabilita in Valle di Rhêmes. Come si poteva ignorare che su quei 400 metri verticali, larghi almeno un chilometro, nessuno fosse mai salito? Diventò una questione di principio scovare una linea intelligente che sgattaiolasse tra le zone marce (che in effetti non mancavano) con difficoltà ragionevoli per le mie possibilità.

Il tempo passava e tutte le ipotesi che individuavo si rivelavano o troppo dure o troppo stupide. Poi, in primavera, sciando alla base con un buon contrasto di luci tra neve e roccia, trovai una bella placca grigia alta una settantina di metri che mi diceva: "Parti da qui!". Avevo trovato la porta d’ingresso ma, sopra la placca, la roccia diventava gialla, stratificata e ultra-piccante. Chissà…

L’estate del ’92 arrivò e nei brevi momenti liberi dalle polente e dai clienti da accompagnare, partii all’assalto di quella che ormai chiamavo il "Wenden dei Poveri". In effetti la placca era piuttosto bella e, accompagnato da chiunque fosse disponibile e sufficientemente agguerrito, iniziai a salire un primo "bitiro", carino assai, fino alla cengia posta alla base dei gialli. Lì mi spaventai e quindi scendemmo a digerire la visione satanica.

In quel momento non ero tanto sicuro su come proseguire, quando ripartire, ma soprattutto con chi salire. Così tornai un paio di volte con compagni diversi che, appena raggiunta la base, mi dissero chiaramente che ero da ricoverare. Tanto per non perdere la giornata mi ritrovai a chiodare altre due linee sulla stessa placca ad una cinquantina di metri (o giù’ di lì) dal tiro già provato. Fui anche fortunato poiché uno dei miei complici accettò che io salissi un po’ più in alto, così mi infilai su per un diedro verso il nulla.

L’estate finì ma trovai qualche ora per costringere uno dei vecchi amici a visitare quella che al tempo era solo una falesia di alta quota. Un bel giorno di fine settembre Serge Lambert partì deciso sul tiro che ad onor del vero era protetto in modo estremamente arioso, dopo 15 metri e 2 protezioni, una scaglietta si ruppe sotto al suo piede e lo vidi scendere alla velocità della luce. La scarpata ai piedi della parete era ripida e istintivamente corsi verso il basso… o meglio mi buttai giù. Serge si fermò ad un paio di metri da terra. Non ci fu bisogno di aggiungere altro; immediatamente mi dissi "sei proprio un cretino!"

Arrivò l’inverno e, dopo di lui, la primavera. Mi ritrovai a sciare di nuovo sotto questi bastioni, volevo salirci, volevo scovare una linea furba, che non fosse troppo marcia per arrivare sull’altopiano del Ghiacciaio. Ma quando provavo a cercare qualcuno che mi accompagnasse, ricevevo solo sguardi eloquenti del genere "Fatti curare il cervello". Avrei dovuto trovare qualcuno ancora più matto di me.

Per tenermi allenato ed in forma avevo iniziato ad attrezzare un muro di roccia, ça va sans dire marciotto, vicino al Rifugio. Lì avevo tracciato una ventina di vie e un mega pendolone che permetteva di circumnavigare la Valle strizzando le chiappe. Per questa insana operazione avevo trovato il supporto di tre local: Christian Fiou, Livio Carli e Salvatore Galliano. Gran belle ore alla ricerca del "Sacro Graal", ovvero di uno strato di roccia sufficientemente solido da essere scalato. Alla fine il risultato non fu malaccio e qualche pazzerello iniziava a visitare "La Salina". Un giorno i 3 compari mi annunciano che l’indomani il loro mito ci avrebbe onorato di una visita. Erano un po’ nervosi, i ragazzi: a breve sarebbe arrivato Ezio! E io: "Ezio chi?" Ezio, che di cognome faceva e fa Marlier, era sicuramente il giovane più promettente e audace nelle valli Valdostane di quei tempi. Forza, passione e un po’ di pazzia ne facevano una miscela esplosiva, come facevo a non conoscerlo?

I tre dell’Ave Maria lo avevano già avvertito che stavo facendo un "Casting" per la "Gloria" e che non avevo trovato molti pretendenti all’altezza della missione (in pratica, nessuno)! Ma lui era Ezio e non poteva dire di no, anzi era entusiasta. Finalmente si ripartiva. A questo punto il gioco si fece duro e qualche dettaglio supplementare si impose. In quegli anni pochi aprivano vie dal basso con trapano e ammennicoli vari e quei pochi erano il "Top". Qualche seguace come il sottoscritto cercava di emularli ma era dura raggiungere i loro livelli di visione, capacità tecniche e creatività. Loro erano gli artisti e noi gli artigiani. Immaginate di salire su terreni verticali con un trapano di 4 chili e tutta la mercanzia accessoria appesi all’imbrago! Non conoscevamo trucchi e trucchetti per alleggerire il carico e la fifa, così avanzavamo per tentativi e - da non credere - si progrediva.

Certo è che l’entusiasmo di Ezio contribuì non poco a far avanzare il cantiere. Un primo tentativo ci permise di proseguire di un paio di lunghezze di corda e raggiungemmo un grande punto interrogativo: cosa fare e dove proseguire da lì? C’erano pance gialle ovunque. Ci ritirammo un po’ cotti. Lasciammo passare qualche giorno per digerire le incertezze e ci riorganizzammo. La volta successiva, mentre raggiungevamo le pietraie alla base, avevamo tra noi anche Rudy Buccella che voleva vedere con i suoi occhi i casini in cui ci stavamo ficcando. Risalendo le fisse sotto i gialli, vidi Ezio carico come una molla. Per star tranquillo, decisi di rinforzare la sosta piazzando un rapido spit supplementare. Ezio partì per un viaggio orizzontale di qualche metro con grandi allunghi e sgasate di piedi. Mi aspettavo di vederlo passare di sotto da un momento all’altro. Poi sparì dietro lo spigolo e finalmente sentii un trapano sibilare. Da quel punto in poi la corda si mosse lentissima. Il suono di sassi che cadevano si alternava ai silenzi in quel tempo rallentato. Non ricordo quante ore abbiamo passato appesi su quella sosta sul vuoto ma non furono poche. Il tiro era corto, intenso e ci regalò il passaggio per proseguire. Ezio ripartì in testa per la lunghezza successiva, motivatissimo, deciso e addirittura veloce, nonostante quella roccia che richiedeva precauzioni. A raggiungere il successivo punto di sosta fu un vero e proprio artista.

I due tiri che aveva trovato erano sostenuti, esposti e abbastanza marciotti. In sosta leggevo sul suo viso la stanchezza e potevo pesare le energie spese. Mi disse: "Sono cotto" e potevo capirlo perfettamente. Il sole era ancora alto e mi offrii di proseguire ancora per un po’. Aprii altri 2 tiri: il secondo molto complicato e, a detta dei pochi ripetitori, duro. Risalii una fessura non più facile della porzione sottostante proteggendomi per bene. Raggiunsi una cengetta alla base del torrione sommitale e, avendo finito sia le scorte elettriche che la ferraglia, iniziammo a scendere. Durante la discesa ci ripromettemmo di tornare a salire quest’ultima torre: l’ultima cinquantina di metri. Sono passati 30 anni e non siamo più ritornati sul luogo del delitto.

Questa via tuttavia esiste e l’ho battezzata "L’autunno del Patriarca". Per chi conosce i libri di Garcia Marquez o la mia capigliatura (già allora tendente al grigio/bianco) il riferimento è ovvio. Ebbe poche ripetizioni, forse 4, con non poche polemiche sull’ingaggio, sulla modesta qualità della roccia e sui rischi collegati. Prese di posizioni legittime e, con il senno di poi, assolutamente ragionevoli. L’unica giustificazione che mi sento di dare in mia difesa è che a quei tempi navigavamo in una terra di mezzo tra l’alpinismo e quella che sarebbe diventata l’arrampicata sportiva.

Quando racconto a Michele Amadio ed a altri amici della mia delusione per non aver terminato la via sul torrione finale si accendono dicendomi: "Andiamo e finirla e a risistemarla!". "Ma certo…" dico io, "per me era già stradura 30 anni fa! Oggi potrei seguirvi probabilmente solo sui Jumars!" Chissà se la prossima estate qualcuno spiaggiato al Lago della Tsanteleina non vedrà risalire sulle corde un tizio che ormai non ha più neanche i capelli bianchi… Questo è il resoconto "verosimile" di questa piccola avventura, forse ho dimenticato dei dettagli oppure forse ho inconsciamente voluto ometterli ma ho provato a incollare porzioni di bei ricordi di tempi passati.

Un po’ di storia alpinistico-scalatoria su di queste Bastionate

Negli ultimi anni mi ero assuefatto al ricordo che L’autunno del Patriarca fosse la prima via sul grande Pilastro della ‘Granta’, ma sono stato un fesso perché nel settembre dell’86 amici di tante battaglie si piazzarono in rifugio verso la fine di settembre con l’intento di aprire la prima via sulla parete su mio consiglio e con il mio contributo.

Quella stessa estate aveva già effettuato un tentativo con "Il Cardinale" e "Petrus" (ndr. Enrico Pessiva e Pietro Crivellaro). Quel giorno il lavoro mi impedì di parteciparvi, così Ugo Manera, Franco Ribetti & Enrico Pessiva aprirono Chez Olly. Era il 21 settembre 1986. Questa salita e la storia ad essa collegata erano scomparse dalla mia memoria. Me ne scuso con gli amici, seduto sul lettino dello psicanalista.

Ancora nel ‘93 il sempre scatenato Ezio Marlier, assistito da Salvatore Galliano e con una piccola incursione del vostro umile servitore aprirono Omar Ribelle a destra dell’Autunno del Patriarca. Stessa minestra, ma un po’ meno sostenuta. Anche questa via è stata poco ripetuta e molto discussa.

Precedentemente avevo esplorato il pilastro situato al limite ovest della bastionata che fiancheggia il canale che termina alla base della cresta sud della Granta Parei. Ne era venuto fuori un itinerario con difficoltà classiche che consiglierei solo ai nemici…

In tempi recenti sono state aperte altre 2 vie. Nel 2010 Tranquillo Balasso, Sergio Antoniazzi e Erminio Xodo aprono Eugenia danza con me nella porzione iniziale della parete su placche leggermente appoggiate. Propone difficoltà fino al V+ ed è abbastanza ripetuta. Nel 2011 invece aprono la Via dei Vicentini. A mio avviso questo itinerario ricalca in buona parte Chez Olly, che i “secondi apritori” non se ne abbiano a male! Su questa linea Ugo & Co. non lasciarono nessun chiodo ed è solo menzionata su ‘Rock Paradise’ di Maurizio Oviglia.

Infine, per chiudere questo breve antologia, ecco che nel 2023 arriva ‘Gioia Nera ad opera di Michele Amadio e Andrea Benato. Come direbbe l’amico Ugo Manera "la pù bela e la pù dura’" che tra l’altro ha subito visto la bellissima ripetizione in solitaria da parte di Federica Mingolla, chapeau. La ragazza si è pappata questo viaggio con una feroce e sorridente determinazione. Una piccola storia dell’evoluzione di questa pratica sportiva che trova ancora oggi mille ragioni per reinventarsi ed avventurarsi oltre.

Che fine hanno fatto i protagonisti di questa storia? Ugo Manera detto ‘Ughetto’ ha passato gli 80 e continua a scalare, scrivere, stupire e raccontare. Franco Ribetti, ovvero Franchino, coetaneo di Ughetto risente degli acciacchi di tante avventure, non corre più per i monti ma si illumina con i ricordi della sua vita verticale. Enrico Pessiva, ovvero il "Cardinale", ben stagionato e solido come una roccia continua a galoppare su tutte le creste delle Alpi dimostrando che l’età non fa grado. Pietro Crivellaro ovvero "Petrus" naviga tra le pagine di romanzi Alpini e storia dell’Alpinismo dall’alto dei suoi intensi studi. Ezio "Chi" Marlier è passato indenne tra mille avventure, oggi è un affermato Presidente delle Guide Alpine della Valle d’Aosta.

L’umile scrivano, in quei tempi detto "Ollyboss", schiva gli acciacchi di molti combattimenti alpini e continua ad esercitarsi con un trapano un po’ più leggero alla ricerca della linea perfetta che mai troverà. The end.

di Mario Ogliengo




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