Sul soccorso al Nanga Parbat
Eppure succede ancora. C'è ancora chi non esita a soccorrere chi è in difficoltà. Succede tutti i giorni sulle nostre montagne. E a volte succede anche ad altissima quota. Cioè in condizioni che per definizione sono impossibili. Non solo in estate, nell'aria che non c'è degli Ottomila. Ma anche - e qui è un'assoluta novità - nell'impossibile inverno Himalayano di una montagna difficilissima come il Nanga Parbat. Un soccorso a quelle quote per di più in inverno è assolutamente un azzardo e insieme una missione impossibile. Eppure è successo. Perché - ci piace pensare - c'è ancora chi corre in aiuto dell'altro, chiunque esso sia, dovunque si trovi.
Stiamo ovviamente parlando del recentissimo salvataggio della francese Elisabeth Revol da parte di Denis Urubko, Adam Bielecki, Jarek Botor e Piotr Tomala. E stiamo parlando, naturalmente, anche del polacco Tomek Mackiewicz che è rimasto sulla montagna. Dunque un successo con una vita salvata ed un lutto, pesantissimo, per una vita che si è persa. Anche questo d'altra parte succede ai soccorittori. Perché, più di quanto si possa pensare, in questi casi spesso la gioia può mescolarsi alla perdita e al dolore. I soccorritori questo lo sanno. Eppure partono lo stesso... e il motivo è uno solo: c'è qualcuno da salvare.
Di certo lo sapeva Denis Urubko che già aveva partecipato ad un altro tentativo di salvataggio incredibile. Quello che nel 2008 lo vide, insieme a Don Bowie, dare manforte a Ueli Steck e Simon Anthamatten sulla Sud dell'Annapurna nel tentativo di portare in salvo lo spagnolo Iñaki Ochoa de Olza. Quella volta Urubko saltò da un elicottero impossibilitato ad atterrare per il maltempo, per poi raggiungere il Campo base e da qui proseguire in parete per raggiugere Ueli e Simon. Alla fine non riuscirono a portare in salvo Iñaki colpito dal mal di montagna. Ma sicuramente diedero una fondamentale mano per salvare Horia Colibasanu, il compagno di scalata dello spagnolo che fino all'ultimo aveva cercato di aiutarlo in quella tenda a 7400m.
Ora, sul Nanga Parbat, Urubko l'ha rifatto insieme ad Adam Bielecki, Jarek Botor e Piotr Tomala con cui era impegnato nel tentativo di prima invernale al vicino K2. L'ha rifatto insieme al pilota di elicottero che li ha portati quasi a quota 5000 metri e poi, a salvataggio concluso, li ha evacuati dalla montagna. E l'ha rifatto con tutto il team polacco impegnato sul K2 e anche con tutti quelli che hanno aiutato nell'operazione di salvataggio. Salire 1200 metri di dislivello, in inverno, a quelle quote, sul Nanga Parbat, il tutto nello spazio di una notte, è impresa che non si può definire. Come anche i rischi che Urubko e Bielecki si sono assunti per farlo. E a nulla serve dire che Urubko è una leggenda dell'Himalaya e che Bielecki (autore, tra le altre, della prima invernale al Gasherbrum I) è uno tra i più forti alpinisti d'alta quota in circolazione. Se si sono lanciati coscientemente in questa corsa è per altro. E questo “altro” è ciò che fa grande tutti i soccorsi e tutti i soccorritori.