Andando… Alla Pagina Seguente sull'Uja di Mondrone
Era venerdì notte e dopo il lavoro, di buon passo avevo raggiunto il bivacco dove Giancarlo ed Aldo mi avevano preceduto dal mattino. Di loro nessuna traccia, solo la caduta di qualche sasso dalla parete dell'Uia rompeva il silenzio nel buio della conca, dove sorgeva il bivacco punto dell'appuntamento. Nessuna luce, nessuna voce, la notte avvolgeva quell'universo minerale nascondendolo agli occhi ed acuendo i sensi per la paura che l’irreparabile si fosse compiuto. Gridavo, lanciavo fasci di luce verso la parete ma di ritorno avevo solo il silenzio della notte. Dove andare a cercarli se non sotto alla parete in un universo di blocchi accatastati alla rinfusa e proprio quando mi risolsi a farlo, una flebile lucina che durò pochi secondi mi dette il segno che aspettavo, erano li ed erano ancora altissimi in parete. I telefoni portatili non c’erano ancora e dal basso una volta capito che non avevano bisogno di essere soccorsi, immaginai che volessero bivaccare in parete e quindi mi risolsi ad andare a dormire.
Dopo un paio d’ore, Giancarlo, come un ciclone irruppe nel bivacco, strigliandomi a dovere perché invece di andare loro incontro ero andato a dormire. L’indomani capii cosa era successo, Dopo essersi calati dall'alto erano arrivati ormai al buio e con una sola frontale rivelatasi poi scarica, sull’orlo dell’immenso strapiombo che caratterizza il settore sinistro della parete. Anche le batterie del trapano erano finite e sull’unico spit che ancora erano riusciti a mettere sull'orlo del precipizio, dovevano calarsi. Giuntarono le due corde da 45 metri e uno alla volta senza sapere se avrebbero toccato terra scesero.
L'occhio di Giancarlo ma penso pure una bella dose di fortuna li depositò sulla grande cengia posta nel primo terzo della montagna e da questa, disarrampicando al buio su tratti di 4 e 5 grado riuscirono a raggiungermi. Ancora oggi mi chiedo come fecero.
Per punizione non avendo mai risalito una fissa mi toccò per primo risalire quello spaghetto appeso nel vuoto più totale ad un solo spit. Aprii gli occhi solo due volte, la prima quando raggiunsi il nodo di giunzione e la seconda quando arrivai allo spit di sosta che immediatamente e con sollievo raddoppiai.
Tornando ad oggi, solo io so quanto avrei voluto aggregarmi a questi ragazzi che hanno deciso di portare a nuova vita questo itinerario, ma dato che alcuni acciacchi quest'anno non me lo hanno permesso, ho dovuto rinunciare. Però se mi vorranno mi sono già prenotato per il prossimo che sarà quello del trentennale e chissà che la storia non continui ancora un po'.
di Elio Bonfanti
ANDANDO… ALLA PAGINA SEGUENTE di Luca e Matteo Enrico
L’Uja di Mondrone, lo dice il nome stesso, è un ago, una guglia acuminata, un elegante triangolo asimmetrico, quasi coricato sul suo lato destro, a formare una ripida parete: la parete nord est.
Addentrarsi nelle pendici dell’Uja è come entrare in un labirinto, in un caos di giganteschi blocchi di serpentino rugginoso, un mondo incredibile, quasi un po’ fantastico, dove poter sentire la eco della propria voce, riflessa da quegli specchi neri e lisci che solo il serpentino sa creare nelle sue parti più ripide. Un mondo fatto pietra e stambecchi. Eppure da questo mondo lontano, quasi marziano, la pianura sembra a portata di mano, le luci della città si stendono sull’orizzonte, migliaia di luci che sembrano confondersi con i milioni di stelle della Via Lattea, galleggianti sulla nera sagoma del monte. Basta spostare i propri occhi per passare dal mondo antropizzato a un mondo siderale lontano e irraggiungibile, come sembra la vetta dell’Uja dal bivacco Molino.
Eppure sulla sua "nord" sono state scritte pagine di autentico alpinismo, alcuni dei nomi più famosi dell’alpinismo piemontese hanno tracciato eleganti vie, su su fino alla madonnina e alla campana di vetta. E quando ormai le ombre della sera cominciano ad allungarsi, e il triangolo della grande guglia si stende, a mò di coperta, sulla tortuosa Val d’Ala, far risuonare nell’aere i rintocchi di quella piccola campana è sempre un’emozione unica, incommensurabile. E’ il segnale che un’altra grande giornata di montagna si sta concludendo e che per sempre ci porteremo dietro le emozioni dell’ennesimo arrivo in vetta.
Se uno poi staziona qualche giorno nella conca appartata dove sorge il confortevole ricovero allora quelle emozioni si moltiplicano e il tempo sembra solo più essere scandito dalle abitudini di vita delle decine di stambecchi, che stazionano intorno alla struttura. Ci si immerge in un non tempo in cui tutto diviene possibile, dove le idee e i desideri si concretizzano sino a diventare realtà.
16-17-18 agosto 1990. Tre uomini sono affaccendati sulla nord nell’intento di concretizzare un desiderio: l’apertura di una nuova via, rivoluzionaria per questa parete. Una via "moderna", a spit, che possa percorrere il grande pilastro di sinistra, dove nessuna classica avrebbe mai potuto passare. La via la chiameranno Alla pagina seguente, forse proprio un voltare pagina, un abbandonare i diedri tortuosi cercando invece la verticalità, l’eleganza di un percorso vertiginoso, fin sotto la vetta dell’Uja.
Il terzetto, composto dal solito Giancarlo Grassi insieme a Elio Bonfanti e Aldo Morittu, riuscì nell’impresa, in tre giorni di duro lavoro. Solo Elio può ancora narrarci quella piccola avventura a due passi dalla pianura ma rimangono scolpiti nella memoria i racconti un po’ iperbolici di Morittu: la spola per approvvigionarsi dei viveri, la corda fissa penzolante sull’abisso, gli zaini stracolmi di materiale. Racconti che quasi fanno scivolare quella salita in un’impresa epica. Un’avventura persa ormai nei meandri della memoria di pochi, una via un po’ misteriosa, così evidente eppure così camaleontica, mimetizzata tra le pieghe di quelle colate nerastre. Dormiente ma non defunta. In attesa di essere risvegliata per accompagnare ancora sulla punta dell’Uja arrampicatori vogliosi di stringere quelle rugose tacche di rosso serpentino.
15 agosto 2019: partiamo stracarichi di materiale, 100 fix e altrettante piastrine, materiale per due cordate, due tassellatori con nove batterie, martelli e chiodi, viveri in abbondanza per più giorni…..gli zaini sono così pesanti che i muscoli delle spalle e del collo sembrano quasi volersi staccare dalla testa. Una nebbia appiccicosa e fredda ci accompagna fino al bivacco. Il silenzio nella conca è assoluto, solo gli stambecchi curiosi vengono a farci visita. Ci sistemiamo nello spazioso bivacco, è tutto così bello quassù! Sembra di essere a casa, anzi ancor meglio, lontani dalle feste del fondovalle.
16 agosto 2019: l’attacco è nel canalino rossastro, sembra quasi una colata di ruggine. Saliamo slegati, più velocemente possibile, sullo zoccolo, nella sua parte più facile. Poi un bel tiro più verticale ci porta verso il canale della Ortelli-Bijno. Qui il percorso è obbligato e arriviamo sulla grande cengia triangolare, laggiù, a destra scorgiamo qualcosa: è la vecchia sosta del ’90! Con emozione la raggiungiamo riavvolgendo per un attimo il filo della memoria, cercando di immedesimarci in quei lontani attimi, quando venne piazzata. Un bel tiro su lame ci porta sotto un muro compatto e rossastro. Ci fermiamo a perlustrare con lo sguardo la parete, crediamo di vedere in alto una placchetta, ma è solo un abbaglio, la prova binocolo smentisce le nostre impressioni.
Dove saranno passati i primi salitori? A destra? Ci sembra strano, diedri nerastri e strapiombanti sembrano essere di aspetto tutt’altro che bonario.
Dritti? Senza fix pare impossibile. Forse a sinistra, oltre lo spigolo sulla cengetta?
Col senno di poi abbiamo capito che era proprio da lì ma la placca che ci sta ora di fronte è così attraente che chiede solo di essere salita... la nebbia ci avvolge. Tutto diventa scivoloso, le corde paiono bagnate, ci muoviamo con circospezione. L’unico modo per procedere è utilizzare il tassellatore. Finalmente sbuchiamo sul pulpito alla fine dell’ostico diedro finale. E’ tardi, decidiamo di scendere.
17 agosto 2019: risaliamo il percorso di ieri attrezzando le soste. Arriviamo questa volta abbastanza rapidamente al pulpito. Capiamo che non è possibile che i primi siano saliti lì, davanti ci sta quindi l’ignoto. Una placca, a destra un muro giallo e strapiombante, striato da nere colate. Si intuisce qualcosa. Forse il muro forma con la parete sottostante una lama. E’ così! Per due lunghezze la seguiamo con arrampicata filante fin sopra al grande antro strapiombante. Fino alla placca sospesa. Ritroviamo una sosta del ’90 e i vecchi tasselli. Iniziamo la lunga traversata, le tacche si susseguono, l’arrampicata è stupenda, la roccia è cangiante da gialla a nera e poi di nuovo gialla. Siamo sotto al grande pilastro finale. Sostituiti gli spit sul grande traverso sospeso dobbiamo scendere. Ecco la vertiginosa calata dei racconti di Morittu, galleggiamo nell’aria intrappolata dal gigantesco antro strapiombante. Alla base diventa notte ed è così bello riaprire la porta del nostro ricovero, ritrovare il nostro giaciglio e le nostre provviste. La Luna piena riflette la sua argentata luce proiettandola sulle nuvole adagiate sulla pianura, su quello sfondo si staglia nella notte la scura sagoma di un giovane stambecco, venuto a farci visita.
18 agosto 2019: dobbiamo scendere, non abbiamo più batterie cariche e siamo stanchi. Ma già pensiamo al ritorno, a quell’opera per ora incompiuta. Più in basso ci soffermiamo lungamente a discorrere con i pastori. E’ sempre così affascinante sentire narrare quella vita quasi arcaica, l’altra faccia della montagna che viviamo noi, poi scivoliamo lentamente verso il fondovalle con un pizzico di nostalgia.
25 agosto 2019: questa volta siamo in tre a faticare sul sentiero, anche oggi in alto troviamo nebbia. Immancabile. Ma arriviamo abbastanza presto al Molino. Per l’indomani abbiamo deciso di seguire le orme dei primi salitori calandoci dall’alto per attrezzare il pilastro finale. Binocoliamo lungamente, dobbiamo prendere dei riferimenti, capire.
Dove sarà la prima sosta? La troveremo facilmente?
Qualche indicazione ce l’abbiamo e poi sembra abbastanza logico dove abbiamo puntato le lenti del nostro binocolo. Le nuove vie e i riattrezzamenti sono così diversi dall’usuale alpinismo: sono un’esplorazione, un comprendere le pieghe della roccia, della montagna, immedesimandosi in essa fino a che ci farà dono della giusta tacca o della giusta fessura.
26 agosto 2019: ci alziamo che è ancora notte. Abbiamo deciso di salire per la cresta est. Per arrivare all’intaglio la scalata è molto facile ma la roccia è brutta, frammista ad erba. Saliamo slegati con estrema cautela, gli zaini pesantissimi sembrano risucchiarci verso il vuoto, poi finalmente arriviamo sulla cresta e la risaliamo sul camminabile versante di sinistra. La giornata è stupenda e nella fresca aria del mattino raggiungiamo il punto binocolato ieri, poco sotto la vetta.
La sosta! Eccola! La troviamo subito. Calandoci procediamo con il riattrezzamento. Che esposizione! Che via!
Questa volta, sull’Uja, facciamo un viaggio a ritroso, non arriveremo sulla sua vetta sul far della sera ma arriveremo alla sua base all’inizio della notte. Verso il basso, con alcune parti ancora da chiodare, ci prende la paura che le batterie possano non bastare. Ancora una, ne abbiamo solo più una carica ma è piuttosto vecchiotta... Farà ancora il suo dovere? Per fortuna sì e con la frontale piazziamo l’ultimo fix, un bel cordone lo renderà più visibile ai ripetitori.
Tornando al bivacco, nella notte, vediamo un lumicino. Ci impressioniamo a vicenda con paurosi racconti di fantasmi persi nella grande pietraia rugginosa. Ma al bivacco, con piacere, troveremo solo l’amico Pessiva, salito fin lassù con suo figlio per fare la classica Rosenkranz
27 agosto 2019: ecco, l’avventura ora è proprio finita. Rifacciamo i sacchi e ci avviamo verso il fondovalle. Dovremmo essere felici eppure forse, viceversa, siamo un po’ mesti, tutti questi giorni passati in questo microcosmo di serpentino ci hanno impresso emozioni profonde, indelebili, come i nuovi e scintillanti tasselli che finalmente hanno risvegliato Alla pagina seguente dal suo lungo dormire. Il Sole ci scalda, è tutto così bello: la via, la Mondrone, il caos di quelle pietraie, gli stambecchi venuti a salutarci e i suoni lontani del fondovalle, dove tra poco ci ritufferemo, lasciando questo luogo così fantastico. 98 fix. Ne avevamo 100, solo 2 sono rimasti.
Un grazie al Cai di Ala di Stura che ha creduto in quest’opera finanziandocela.
Luca e Matteo Enrico
C.A.A.I., Gruppo Valli di Lanzo in Verticale, Gruppo Rocciatori Val di Sea
SCHEDA: Alla Pagina Seguente sull’Uja di Mondrone, Valli di Lanzo