Coffee Break Interview: Simon Gietl / Patxi Usobiaga
SIMON GIETL
Daniela Zangrando: Il passo chiave*.
Simon Gietl: Per me superare un passo chiave vuol dire cercare un obiettivo e fronteggiare un impegno. La soddisfazione che sento dopo, normalmente mi lascia dormire bene.
Sfruttare il tempo e affrontare le giornate con l’intenzione di arrivare in fondo contento e soddisfatto sono due cose fondamentali. Alla fine mi sembra che siano queste a esprimere il passo chiave o il senso della vita.
D.Z.: Cosa vuol dire spostare il limite?
S.G.: La cosa essenziale è quella di sapere quali siano i propri limiti. Sono veramente i miei limiti che contano e che mi interessano. Per me non è importante essere il più veloce e il più forte. Non è il confronto con gli altri che conta. Sapere, imparare e conoscere le proprie capacità sono i miei obiettivi. L'esperienza, la forza mentale e anche la capacità di prendere la decisione giusta al momento giusto definiscono il mio limite. Per me è vitale sapere cosa sono in grado di fare e cosa no.
Provo sempre a me stesso che le mie capacità aumentano e migliorano. Ma se ci si muove veramente sul limite, penso che questo sia collegato sempre con rischio. E il discorso si apre ancora.
D.Z.: I tuoi limiti, ora.
S.G.: I miei due figli mi mostrano i miei limiti quasi ogni giorno. Se ognuno corre in una direzione diversa, sento subito i miei limiti. Non riesco più a prenderli.
D.Z.: Se non dovessi più fare il climber, cosa faresti? Hai un piano altro, parallelo?
S.G.: Ho seguito il percorso di formazione per lavorare con il legno. Sono falegname e ho imparato cosa vuol dire fare veramente un lavoro artigianale. Mi piaceva molto.
Ma adesso parliamo del fatto che è già il nono anno che sono alpinista professionista. Al momento ho anche il vantaggio e la fortuna di avere dei partner che mi supportano. Se rimango sano e il mio fisico si mantiene abbastanza in forma, avrei la voglia e l'intenzione di muovermi per un lungo tempo in montagna – sia privatamente che per lavoro.
D.Z.: Cosa ti piacerebbe cambiare del mondo dell'arrampicata? Di questo che a tutti gli effetti penso sia il tuo lavoro?
S.G.: Penso sia importante che tutti possano ancora trovare un posto in cui divertirsi. Questo significa che dovrebbe rimanere spazio per ogni forma dell'arrampicata. Quella sportiva, quella alpinistica e quella di piacere.
La scalata dovrebbe essere sempre collegata allo spirito dello stile libero. Lo sport e la filosofia dell'arrampicata sono come le forme d'arte. Ognuno ha la libertà di realizzare i suoi progetti. Nessuno ha il diritto di essere un arbitro. Per quanto mi riguarda, posso dire che voglio realizzare le mie prossime salite sulla pietra dolomitica con i mezzi tradizionali e senza spit.
D.Z.: Descrivimi il luogo. Quel posto che senti tuo. Dove puoi rifugiarti, pensare, distruggere, gridare.
S.G.: Facile. Le Dolomiti. Sono impressionato dalla loro unicità. Lì mi sento a casa. Vorrei farne piena conoscenza e imparare ogni loro sfaccettatura. In quel mondo pieno di pietra gialla, grigia e nera mi sento come in un soggiorno. Come in uno studio dove posso realizzare i miei sogni.
D.Z.: E per ultima cosa un sogno. Che meriti di essere chiamato tale.
S.G.: Nella mia famiglia si dice che non si parla mai di un sogno prima di averlo realizzato. Mi dispiace non dirteli. Ma i sogni creano il fuoco nell'anima. Ci danno tanta energia e ci mettono in azione. Meglio non rivelarli.
PATXI USOBIAGA
Daniela Zangrando: Il passo chiave.
Patxi Usobiaga: (È una domanda?) Se si riferisce alla cosa più difficile in arrampicata, sono costretto a dirti che puoi far di meglio.
D.Z.: Cosa vuol dire spostare il limite?
P.U.: Combattere contro le proprie paure per essere in grado di evolvere.
D.Z.: I tuoi limiti, ora.
P.U.: La forza, nonostante quello che molti potrebbero pensare quando vedono le mie immagini durante gli allenamenti. Questo è il motivo per cui alleno la forza: devi sempre allenare la tua debolezza.
Non ha mai smesso di essere un mio fattore di limite (in qualche modo, anche la mia pelle è qualcosa di limitante, e forse è anche peggio di una mancanza di forza, visto che non c’è modo per allenarla davvero).
D.Z.: Se non dovessi più fare il climber, cosa faresti? Hai un piano altro, parallelo?
P.U.: Questo in realtà è già accaduto in passato. Per un paio d’anni, dopo che mi sono fatto male in un incidente stradale, non sono stato un climber.
Ho deciso di tralasciare per un po’, permettendo al corpo di guarire e al desiderio di arrampicare di tornare a farsi sentire. In quel momento non ero sicuro se avrei mai più arrampicato, ma poi la voglia è riapparsa.
Adesso non so cosa farei, onestamente. In un certo senso scalare è il mio lavoro, perché sono un allenatore e ho dei contratti con alcuni marchi, ma il centro per me non è il lavoro, è uno stile di vita… un progetto di passione. Prendo qualche settimana di riposo un paio di volte l’anno e sono sempre un po’ giù di morale quando non arrampico tanto, ma anche questa è una parte necessaria del processo. Non si può pretendere di essere sempre al top.
Suppongo che la verità sia che se non fossi un climber mi adeguerei al momento e proverei ad accettare la realtà. Questa è l’unica opzione salutare.
Per quanto riguarda altri progetti, ho sempre qualcosa in mente, ma non ci si può concentrare su troppe cose alla volta altrimenti non si riesce ad eccellere in nessuna.
D.Z.: Cosa ti piacerebbe cambiare del mondo dell'arrampicata? Di questo che a tutti gli effetti penso sia il tuo lavoro?
P.U.: Questa è facile: la mancanza di rispetto verso l’ambiente e gli altri. Odio andare in falesia e scoprire che le persone non sanno come imballare la spazzatura o come scavare una buca se hanno bisogno di fare una cagata. Dovrebbero anche portarsi via la loro carta igienica, i prodotti per l’igiene personale, gli involucri per il cibo, etc. e non lasciarli lì pronti per essere calpestati dallo scalatore dopo o mangiati dal cane di passaggio. Questa mancanza di rispetto per la falesia (e per quelli che lavorano duramente per pulire e spittare) è la causa dell’interdizione di grandi aree.
D.Z.: Descrivimi il luogo. Quel posto che senti tuo. Dove puoi rifugiarti, pensare, distruggere, gridare.
P.U.: Posso pensare ad un paio di posti. Uno potrebbe essere il mio “tempio”, ovvero la palestra che ho in casa. Ci passo un sacco di ore. Mi rifugio dalla pioggia e dal caldo per allenarmi, posso urlare per l’eccitazione e per lo sforzo, e tante idee nascono proprio lì. Un altro posto potrebbe essere il mio furgone. Quando ci sono dentro, automaticamente passo ad una modalità meno intensa.
D.Z.: E per ultima cosa un sogno. Che meriti di essere chiamato tale.
P.U.: (Questa è la domanda più difficile. Mi sento come se tanti dei miei sogni si fossero avverati… Sono stato fortunato. Non vorrei dirti una via o cose così, perché in un certo senso mi sembra troppo “materialistico”.) Onestamente voglio solo essere felice, stare in salute, dormire bene, ed essere in grado di continuare a fare le cose che mi soddisfano.
(Scusa, non posso essere più specifico)
Daniela Zangrando
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* Il termine “crux” in inglese identifica sia “il passo chiave” in senso alpinistico che “la chiave” vista come punto cruciale, soluzione, elemento nodale della vita quotidiana.
Gli intervistati sono stati lasciati liberi di intendere o fraintendere il termine a loro piacimento.
Un ringraziamento a Kathryne Crain.