Storie d'arrampicata: Finale per me di Giovanni Massari - prima parte
Il mio incontro con la Pietra di Finale coincide quasi esattamente con la nascita di quel percorso prima passionale e poi di amore profondo che, attraverso una strada spesso tormentata da eventi positivi ma anche negativi, mi ha portato ad esplorare a fondo me stesso, chi sono e dove posso e dove voglio andare. Questo percorso, l’arrampicata, passa attraverso un’attività dalle pieghe molteplici che ciascuno può oggi interpretare come meglio crede al di là delle mode e delle tendenze e così poterne apprezzare le reali possibilità sia fisiche che introspettive che essa può offrire.
La mia generazione usciva dai tormentati anni settanta e mentre cercava di sbollire la rabbia dovuta al crollo di molti miti attraverso un generico cattocomunismo velato di “che guevarismo” dopo aver strizzato l’occhio a chi diceva che con la P38 si sarebbe annientato lo stato corrotto si ritrovava come persa e in cerca di nuovi inizi.
Quale migliore attrattiva poteva rappresentare per me, liceale ispirato dalle indecisioni di Giuliano Sorel o dai tormenti interiori di Cesare Pavese piuttosto che da Marcuse o dal libretto rosso di Mao, il cimentarmi con l’arrampicata, allora non ancora sportiva ma semplicemente alpinismo di bassa quota in funzione di ben più ardui cimenti.
Capii subito che arrampicare su strutture di fondovalle facilmente frequentabili quasi giornalmente dava la possibilità di intravedere nuovi orizzonti sportivi ma anche di provare a scrutarsi dentro con estrema lucidità e di racimolare in quella forza per salire i problemi offerti dalle pareti la stessa forza per vivere con un entusiasmo tutto nuovo la vita di tutti i giorni; da lì a trovarmi a vivere con intensità quel nuovo movimento che ci ha portato alla nascita dell’arrampicata sportiva il passo fu relativamente breve e fu favorito dal fatto di poter agire, proprio a Finale, su un terreno quasi inesplorato che si era fermato, nel 1980 dal punto di vista sportivo, all’apertura e alla ripetizione delle vie di matrice classica.
Il mio incontro con Finale è datato nei primissimi mesi del 1981 quando con l’amico Federico Bausone iniziammo i nostri pellegrinaggi settimanali, in treno ed autostop, verso le già conosciute falesie liguri.
Nella ristretta cerchia del CAI monregalese, con cui avevamo sporadici contatti, si parlava già della pietra di Finale in toni entusiastici e rispettosi delle difficoltà che presentavano le pareti calcaree di magnifica roccia cosparsa di buchi e gocce d’acqua; finalmente potevamo toccare con mano ciò che avevamo solo immaginato.
Fede (Bausone n.d.a.) ed io arrampicavamo da pochi mesi e come tutti all’epoca iniziammo, non senza difficoltà, a cimentarci sulle vie classiche; Gufo, Corpus Domini, Torre, Pulce, Diedro Rosso furono le nostre vie di iniziazione, guidati ad ogni passo dalla guida di Alessandro Grillo e dai primi articoli della Rivista della Montagna.
Lo spirito era ancora quello di allenarsi in vista di salite classiche al Bianco, in Dolomiti o sulle nostre Marittime anche se faceva già capolino la necessità di avere un rapporto leale con noi stessi e con la roccia alla ricerca di una progressione il più possibile in libera.
Premetto che a differenza dell’oggi in cui ogni informazione è facilmente reperibile sul web allora le notizie filtravano con estrema difficoltà attraverso brevi articoli su riviste specializzate difficilmente reperibili o tra una ristretta cerchia di addetti ai lavori ma noi che eravamo autonomi e slegati da ogni ambiente, le recepivamo con notevole ritardo.
Ci fu, durante le nostre scorribande finalesi, un primo incontro che ci fece intravedere la possibilità di perseguire quelle nostre crepuscolari idee di arrampicata libera e fu quello, proprio in treno, con Martino Lang, eccentrico (per allora…) personaggio dai lunghi capelli e orecchini e con il suo compagno “Bacco” alias Enrico Baccanti, ora affermata guida alpina in val Badia. Martino aveva già avuto contatti con l’elite dell’ambiente torinese e nella fattispecie con la guida alpina GianCarlo Grassi che all’epoca era uno degli alpinisti italiani più rappresentativi con un ricchissimo curriculum classico ma attento, a 360 gradi, alle nuove istanze dei vari stili di arrampicata e quindi veicolo di nuove tendenze.
Passammo parecchie domeniche con Martino che ci istruì su alcune nuove vie del panorama Finalese, ci insegnò la tecnica della “moulinette” sui brevi risalti del canyon di Monte Cucco, rigidamente in top rope dato che ancora non esistevano monotiri a spit come li conosciamo ora e ci educò sull’importanza dell’uso della magnesite.
Passammo l’estate seguente, quella della mia maturità, prevalentemente in montagna tra Cozie, Marittime e Monte Bianco ma anche a Foresto e Machaby, facendo già molte serie di trazioni giornaliere alla sbarra e parecchio bouldering e buildering, e ci ritrovammo a Finale nell’autunno con un livello trasformato rispetto alle precedenti visite; nel frattempo erano comparsi i primi chiodi ad espansione o spit.
Con Fede salimmo d’impeto i magnifici tiri della “Via di lì” a Monte Cucco e subito dopo, come colto da un sacro fuoco e in una bolla di concentrazione mai provata prima salii “La via di là” (entrambe A. Grillo 1981), forse la mia prima via a spit. Quello che avevamo sognato stava accadendo, riuscivamo a salire come avevamo immaginato: mani e piedi sulla roccia con i chiodi come sola protezione.
In breve iniziammo a ripetere gli itinerari più difficili di allora lanciandoci spesso in prime ripetizioni e relativi tentativi di prima salita in libera delle nuove vie che iniziavano a nascere come funghi e di cui potevamo trovare le relazioni su un quaderno (una sorta di social cartaceo dove ci si scambiava impressioni e valutazioni) presso la locanda del Rio a Feglino e, come in un film già scritto, l’ulteriore incontro con Andrea Parodi e Luca Biondi in un pomeriggio di bouldering al canyon di Monte Cucco ci aprì le porte ai più reconditi segreti del finalese.
Ma la mia ricerca personale non poteva fermarsi soltanto nel salire vie sempre più difficili alla ricerca del mio limite fisico con il pur logico compromesso di corda e chiodi e il tentativo di dare un senso e delle risposte al mio vivere nella ricerca di “qualcos’altro” attraverso l’arrampicata non poteva ridursi a quelle, seppur magnifiche, giornate in buona compagnia di belle realizzazioni su roccia.
Volevo di più, volevo mettermi a nudo di fronte a me stesso, volevo spingere le mie emozioni con prove sempre più difficili, volevo che la mente controllasse un corpo allenato senza compromessi, cercando una sorta di astrazione che mi portasse in un’altra dimensione, e questo mi fu possibile sviluppando, parallelamente alla ricerca delle difficoltà in quel meraviglioso parco giochi a contatto con la natura che era ed è Finale, la pratica costante del free solo.
L’arrampicata in breve era diventata una faccenda quotidiana sia che fossi a casa a Mondovì, all’università a Torino o nel finalese. Ricordo di quel periodo, una giornata di tardo autunno, in cui trovai e compresi pienamente quello che cercavo: un’unione di corpo e spirito con la natura circostante e la sensazione avvolgente, come smaterializzato e trasformato in sola energia, di far parte, la miliardesima parte, di quel cosmo infinito che ci avvolge, e fu durante la salita in free solo dell’Arco dei Guaitechi a Monte Sordo; non una salita particolarmente difficile ma che in una giornata dalle congiunzioni particolari divenne importante.
Al termine delle mie tante giornate di arrampicata a Finale ero solito abbandonare gli amici e salire qualche via da solo. Proprio in uno di quei giorni come tanti pensai di scalare l’Arco e in quella magica e rosata luce dei tramonti invernali che caratterizza le rocce finalesi, salii leggero senza sforzo, mentre l’ombra saliva sotto i miei piedi ed i sole accompagnava però ancora i miei passi, quasi volesse ancora, come un morbido e leggerissimo scialle di cachemire, darmi la sua gentile carezza; stringevo tra le dita, quasi accarezzandole, le gocce ruvide e proprio alla fine dell’Arco, quando esso compie il suo ultimo disegno verso destra, mi girai verso quella luce tiepida quasi a farle percepire che sentivo la sua presenza e avevo capito le sue benevole intenzioni.
Poi, pochi minuti dopo, in una falesia ormai deserta, raggiunsi la vetta e in quella perfetta simbiosi di corpo mente e natura mi sedetti rivolto nuovamente verso gli ultimi raggi avvolto da un senso di pace con me stesso con la mente svuotata dai pensieri ma con la certezza di avere sfiorato il mio io più profondo e di aver percepito quelle tracce di “infinito” che ci sospingono avanti generando quella preziosa consapevolezza che ci sa fare affrontare i nostri limiti umani con più leggerezza. Raggiunto ormai dall’ombra, ritornai lentamente sui miei passi ed alla realtà verso la compagnia che mi aveva seguito con lo sguardo e mi attendeva al sottostante piazzale.
Per tanti anni ho ripetuto questo rito solitario, nel finalese e non solo, che esso è diventato in me quasi un rito, una forma di preghiera che porta con sé la consapevolezza che, come ognuno di noi, esisto nell’universo come una piccolissima vite di un infinito meccanismo e che sa placare dentro di me ogni sorta di energia negativa.