Patrick Berhault, il ricordo a 20 anni dalla morte
Vedere Patrick Berhault arrampicare non poteva che accrescere la sensazione di unicità di cui il buon Dio aveva voluto dotarlo. L'eleganza del gesto e la facilità con la quale superava anche i passaggi più difficili, davano l'idea che danzasse sulla roccia.
Penso che nella vita nulla avvenga a caso: quando incontri una persona, ti rendi subito conto se c’è qualcosa che ti coinvolge, che ti dà l’idea di essere di fronte a qualcuno di familiare, di amichevole. Ma il più delle volte, tutto rimane nella formalità, nel banale.
Negli anni ’70 dalla Rivista della Montagna, con la quale collaboravo, mi arrivò la richiesta di fare un’intervista ad un arrampicatore francese, tal Patrick Berhault. Si diceva fosse molto bravo e che facesse cose fantastiche assieme ad un altro Patrick... Patrick Edlinger. Berhault in quel tempo abitava con la mamma a Nizza. Gli telefonai e presi un appuntamento.
Mi venne incontro un ragazzo mingherlino, in ciabatte, pantaloncini e canottiera, con un sorriso accattivante. Cappelli lunghi, lineamenti gentili. Per un po’ si parlò delle solite cose, allenamenti, gradi, le più belle e difficili salite, ma via, via il discorso scivolò sul personale, sugli aspetti della vita, sulla sua irrefrenabile passione per i monti, per l’arrampicata.
Con quel suo modo pacato e sorridente mi raccontò episodi della sua giovane esistenza che lo avevano provato. La fuga dal servizio militare, che non riusciva a sopportare e le conseguenze. I rapporti con la famiglia, la vicinanza della madre. Mi raccontò anche di una spaventosa caduta in un canalone (non ricordo il nome) per ben 600 metri.
Le conseguenze furono terribili, rottura del bacino, di una gamba, distacco di un polmone, ferite ovunque, denti rotti. Il compagno drammaticamente colpito non riusciva più a muoversi. Ma la forza di Patrick, la sua determinazione lo avevano fatto strisciare per ore sino al rifugio. Si era messo in salvo ed aveva salvato il compagno, che i soccorritori avevano trovato in ipotermia, quasi sepolto nel giaccio.
Ricordo che, quasi sorridendo, mi disse: "Sai i canaloni di ghiaccio è meglio attaccarli al mattino presto, non alle 11." Era velocissimo e così il suo compagno, ma il sole, quel giorno, era arrivato per primo sul cornicione di vetta. Dopo il tragico evento il compagno aveva smesso di andare in montagna, mentre Patrick, già dopo qualche mese, si stava nuovamente allenando.