Arrampicata, arte fotografica e sperimentazione?
Da qualche tempo sto riflettendo sulla qualità creativa dell’immagine, nello specifico della foto legata al gesto dell’arrampicata, all’azione, allo scatto del climber che vive in quel momento la sua personale sfida, ma anche al contesto naturale. La domanda primaria ha fatto scaturire un pensiero provocatorio che voglio condividere con voi. Il pensiero è amletico: è possibile fotografare con un rinnovato coraggio l’azione dell’arrampicata in maniera artistica? Voglio dire, con un ottica diversa dal voyeuristico occhio fotografico classico che immortala il dettaglio alla ricerca della sola performances, dove il grado sembra essere la sola via data in pasto alla massa dei social.
Personalmente la maggioranza delle foto che osservo non mi emozionano, le sfoglio con un clic e non vedo la storia, non sento i profumi, non percepisco la frustrazione, la gioia la sconfitta. Sento che manca lo “scatto personale” che identifica uno stile. Esiste una omologazione sconcertante che appiattisce tutto il panorama della fotografia d’arrampicata. Certamente parto da una provocazione, perché, mi perdonino i fotografi più o meno professionisti che mi leggeranno, capisco benissimo quali siano le loro esigenze dettate da meccanismi commerciali, figuriamoci. La mia riflessione è indirizzata verso nuove coraggiose possibilità aprendo al pubblico visioni d’arte concettuale, tralasciando per un attimo l’estetica della foto perfetta dove il particolare ci fa esclamare… che bravooooo (riferendoci all’arrampicatore).
Non voglio che mi si legga come snob, come chi sta al di sopra delle parti, anzi tutt’altro, rispetto il lavoro di tutti, soprattutto quando è lavoro dettato da dinamiche pubblicitarie e di informazione giornalistica. Ma insisto, perché un fotografo non può staccarsi un attimo, dico solo un attimo dall’imposizione commerciale, e regalare scatti davvero sperimentali sull’arrampicata ma solo e sempre immagini "normali"?
Mi illudo di svegliarmi la mattina, accendere il mio computer o collegandomi con i social trovarmi davanti a qualche licenza “poetica” dove l’obiettivo si slega dalle catene industriali donandoci arte pura. Certamente si prenderanno meno like questo è sicuro.
Qualche cosa intravedo arrivare dall’estero, non molto per la verità. Nessun problema sia chiaro. D’altra parte la domanda richiede sempre di più il dettaglio. Ho pensato molto se era il caso di risvegliare lo stimolo primordiale di chi ha iniziato a fotografare per se stesso, mi son detto: mi tirerò dietro le ire di chi non capirà ed è un peccato.
E’ certamente più difficile e scomodo raccontare storie come fossero veri reportage sociali, dove la natura sia davvero protagonista. Per la verità esiste un “non fotografo” che riesce sempre a sorprendermi, dico “non fotografo” perché il suo mestiere è scalare, un fortissimo boulderista che riesce spesso addirittura ad auto-fotografarsi in maniera eccellente, al massimo dando indicazioni ben precise sull’impaginazione della foto che ha in mente. Ecco nelle sue foto la natura prende il sopravvento; parlo di Niccolò Ceria che gira il mondo arrampicando sui sassi: in quelle sue foto ho la netta sensazione che quell’arte esca, neanche troppo timidamente.
E’ una via, una possibilità. Qualche mese fa andai a fotografare il mare di Nervi, ero rimasto ammaliato da uno scoglio che si ergeva da una piccola baia a ridosso della città di Genova. Per chi mi conosce fotograficamente, sa quanto sia attratto dall’acqua e da come ne cerchi le forme attraverso sperimentazioni ardite. Quel giorno mi accorsi che quella foto artistica poteva accrescere il suo potenziale inserendo un arrampicatore alle prese con quelle rocce nere.
Tornai con due carissimi amici che capirono l’importanza di quel piccolo progetto così lontano dalla performance e dal grado, il risultato fu sorprendente, fuori dagli schemi, tempi lunghissimi, filtro ND, complice anche il mare in burrasca e il temerario tentativo di Fill e di Franz di posare su una prua battuta dal vento e dalle onde impetuose. Riguardando quegli scatti ho capito che forse era possibile una nuova strada.
Già in passato avevo cercato l’emozione attraverso gli occhi "terrificanti" di Rudi Colli sull’affilato spigolo tagliente della “Chimera” in Val Masino, in quella foto, che amo tantissimo, avevo trovato una parte umana così poco controllabile. Lo stesso avvenne qualche anno fa quando Cristian Brenna, da me fotografato in bianco e nero in quella sua prima su “Unità di Produzione” lasciò un ricordo forte stampato nel corpo statuario e iperteso dell’atleta uscito dallo strapiombo. Il più era fatto c’era solo un ristabilimento che per molti sarebbe stato ininfluente, forse altri si sarebbero concentrati là sotto dove Cristian lottava con le micro tacche. Scelte differenti dallo scatto classico. La foto stampata su una tela e poi spatolata con il denso acrilico fu una altra sperimentazione. Sono esempi di come sia possibile vedere l’arrampicata con un occhio diverso, dove spesso la natura diventa protagonista a discapito dell’azione. Uno stimolo per tutti, per non fossilizzarsi sugli amati clic che ci vengono troppo facilmente.
di Massimo Malpezzi