L'uomo, la natura, il panico e l'agire collettivo

Una riflessione di Manuel Lugli sul rapporto tra uomo, natura e l’impegno collettivo per un cambiamento che diventa sempre più imprescindibile.
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Alberi distrutti dalla furia della tempesta Vaia, ottobre 2018
Nicholas Hobley

Domenica di relax. Niente scialpinismo oggi. La neve è sempre più lontana e più brutta: ghiacciata o gessosa, a duemila metri pioviggina. Qui in pianura ci sono 15 gradi centigradi e siamo al 23 febbraio. E allora? Allora leggiamo. Mi capita sotto gli occhi un articolo di Repubblica, scritto da Massimo Recalcati, un pezzo che parla del panico, ovviamente in relazione alla situazione del coronavirus o Covid-19. Così lo chiamano con sempre maggior dimestichezza scientifico-lessicale i giornalisti, come se togliere la parola "virus" potesse contribuire a diminuire la paura. Ma si sa, le parole sono importanti.

Il pezzo è interessante: spiega come il panico collettivo stia, sulla bilancia socio-emotiva dei nostri comportamenti, sul piatto opposto a quello su cui sta l’euforia collettiva. In entrambi i casi, panico ed euforia collettivi erodono, fino ad annullarlo, il pensiero critico, portando in un caso alla perdita di controllo e a comportamenti completamente irrazionali e nell’altro, l’euforia, a un illusorio senso di onnipotenza altrettanto pericoloso, perché quasi sempre - più o meno lungamente - temporaneo.

Ma se i comportamenti d’euforia collettiva, dice l’articolo, vengono dall’estensione della propria individualità all’interno di un corpo sociale che ci rafforza e consolida, il panico sgretola questo corpo sociale, esponendo l’individuo a tutta la propria personale fragilità e anzi rendendo i propri simili vere e proprie fonti di minaccia, pericolo da cui fuggire in un caos fuori controllo.

La possibile soluzione al caos panico, scrive Recalcati, non è la negazione del problema, ovviamente, ma la trasformazione - cito - "della massa agitata e smarrita del panico in un insieme collettivo civile, capace di reazione razionale alla minaccia che incombe"(...) E’ necessario "rispondere alla minaccia con senso di responsabilità non considerando solo l’orizzonte della propria vita individuale, ma avvertendo di partecipare consapevolmente ad un’azione civile collettiva che investe l’intera vita della nostra comunità".

Belle parole, condivisibili e sagge. Ma temo ci sia un problema di fondo, che poi sottende a questo appello alla saggezza. Proverò, molto modestamente, a legare questo problema ad alcune riflessioni sul mondo che amiamo: quello della montagna e della natura selvaggia.

Parto proprio dall’ultima considerazione, secondo cui è necessaria la consapevolezza di agire non seguendo le pulsioni della propria vita individuale, ma con un’idea superiore di collettività. Il primo problema, forse il principale, ritengo stia proprio qui e costituisca un paradosso. La capacità di un pensiero collettivo, che "operi" e funzioni anche per gli altri, nasce solamente se la propria individualità è solida, se il nostro agire individuale è dettato in primis da una consapevolezza primaria, profonda di cosa siamo in rapporto agli altri e all’ambiente che ci circonda.

Da tempo abbiamo allentato fino a rendercelo estraneo il rapporto con la natura. Abbiamo inserito - così come abbiamo fatto nelle relazioni umane - filtri sempre più numerosi e spessi, lenti, schermi, membrane che ci danno l’illusione di vivere l’ambiente naturale senza - o quasi - sopportarne le incertezze, le insidie, i rischi. Che esistono. Andare in montagna, in una foresta, in mare, che sia per scalare, camminare o veleggiare, espone ai rischi di un territorio al quale siamo sempre meno abituati. Un territorio che proprio per questo cerchiamo, spesso riuscendoci nel peggior modo possibile, di addomesticare e rendere neutrale. Molte volte non ci riusciamo per niente, come in certi disastri che avvengono in montagna, per i quali poi è necessario trovare sempre una responsabilità esterna, che ci assolva dai nostri propri comportamenti inadeguati o, talvolta, addirittura scriteriati.

E’ la nostra incapacità - non volontà - individuale di comprendere la nostra posizione nei contesti naturali, la totale mancanza di consapevolezza su quale sia la nostra importanza - o non-importanza - nel quadro generale di un ambiente delicato e sempre più alterato che ci impedisce alla fine di razionalizzare i nostri comportamenti individuali, soprattutto in condizioni di emergenza. Figuriamoci orientare i comportamenti collettivi!

Da decenni stiamo alterando ambiente e clima, con un’azione scriteriata e auto-distruttiva di sviluppo e crescita ad ogni costo, di sfruttamento, deforestazione, inquinamento, urbanizzazione e sovrappopolazione di aree del pianeta, che è semplicemente insostenibile. Dimenticando che la natura continua ad avere al suo interno capacità e mezzi di "selezione", per usare un eufemismo, di potenza immisurabile. I virus, per restare in tema, ne sono un esempio illuminante, come lo sono le tempeste perfette o i terremoti devastanti. E’ solo la hybris umana che fa ritenere che ogni aspetto possa rimanere sotto controllo, quando in realtà siamo proprio noi a elevare alla n la potenza e la possibile diffusione di certi fenomeni. Siamo noi i soli responsabili di ciò che avviene.

Forse sono pessimista - età, indole, quel che volete - ma auspicare comportamenti razionali e collettivi partendo da individui socialmente, umanamente sempre più "disadattati" da un lato e arrogantemente ancorati al proprio antropocentrismo dall’altro, mi sembra esercizio tanto nobile quanto inutile.

Un ripensamento completo dei modelli di vita e sviluppo individuali e collettivi, in rapporto all’ambiente in cui viviamo, questo sì sarebbe rivoluzionario. E non si tratta affatto dell’auspicio di qualche pensatore ecologista e snob, come tanti vogliono far credere: è una questione di sopravvivenza.

di Manuel Lugli




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