Il cielo toccherò alla falesia di Gaver

Il racconto di Gianluca Forti di una nuova via alla falesia di Gaver in Val Sabbia, provincia di Brescia. Una storia non fatta da numeri o prestazioni, ma una storia fatta di passione e sentimenti dove l’arrampicata 'si pone come mezzo per unire, per condividere, per vivere esperienze che nel tempo rimarranno.'
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Gianluca Forti sul passo chiave del tiro 'Il cielo toccherò' a Gaver
Nicholas Ferrari

L'anno scorso, come tutte le estati da quattro o cinque anni a questa parte, insieme ai miei compagni di cordata sono andato a scalare alla falesia del Gaver, in provincia di Brescia, più precisamente al settore Belvedere. Era il periodo estivo e mi sentivo in forma: avevo appena chiuso il mio primo 8a e avevo deciso di approcciarmi ai due tiri più difficili della falesia. Uno dei motivi per i quali queste vie mi avevano affascinato era che non avevo mai visto nessuno scalarle: non era presente, infatti, nessun segno di passaggio.

Probabilmente una delle cause di questo fatto poteva essere il materiale ormai datato in parete e, sicuramente, la distanza tra le protezioni, circostanze che su muri lisci di granito non invogliano certo le persone a tentare la salita. Dopo aver chiuso rapidamente i tiri, ho pensato che sarebbe stato un bel gesto richiodarli e provare a dare a queste lunghezze una nuova vita, magari incentivando così i ripetitori a metterci le mani. Oltre a risistemare i tiri, ho posizionato una trentina di targhette metalliche con inciso il nome di ogni via e il relativo grado, in modo da rendere più comprensibile e leggibile la falesia. Non è la prima volta che richiodo, anzi. In Maddalena, palestra di roccia nel cuore di Brescia, insieme ad alcuni amici ho risistemato varie falesie "satellite", rimettendole in ordine per provare a dare loro il valore che meritano.

Come ho sempre fatto in ogni circostanza, quindi, ho deciso di chiamare il chiodatore dei tiri per chiedere il permesso di iniziare i lavori. In questo caso ho contattato Matteo Rivadossi, scalatore (tra le innumerevoli attività praticate) che nel bresciano non ha bisogno di presentazioni. Dopo aver concordato il tutto, Matteo mi ha posto solamente un vincolo: richiodare i tiri mantenendo la stessa distanza tra le protezioni, per non alterare lo status dei suddetti. Sembrava felice che qualcuno fosse interessato a eseguire un lavoro del genere.

Insieme a Walter Baronio siamo partiti quindi alla volta del Gaver: oltre a richiodare quei due tiri, ho sistemato anche un'altra lunghezza che sembrava abbandonata, ma che sicuramente merita attenzione, nonostante le difficoltà meno elevate. Tengo molto a precisare una cosa su Walter. Si tratta di una persona di un'umiltà incredibile: lui si definisce addirittura "alpinista della domenica". Chi lo conosce, ovviamente, sa che questa definizione è assolutamente limitante. Per me, che ho avuto la fortuna di scoprirlo soprattutto come uomo, Walter è ben altro: non lo ringrazierò mai abbastanza per il fatto di essere, da tre anni a questa parte, per me una figura paterna. Detto questo, credo sia importante dire che tutto il materiale usato, tranne le soste, mi è stato regalato da Paolo Amadio, altro alpinista bresciano, probabilmente uno dei più grandi conoscitori della zona dell'Adamello dei nostri tempi, anche lui persona sempre leale e onesta.

Tornando al Gaver di un anno fa, mentre stavo richiodando il tiro Paolo 1, mi sono reso conto che tra questo e la lunghezza più a sinistra (Draculo, 6c+) sembrava esserci un corridoio libero. Le prese, piccole e distanti, c’erano, ma quel giorno, tra un lavoro di manutenzione e un altro, non ho avuto il tempo di valutare se fosse realmente arrampicabile. Tornato a terra, ne ho parlato con Walter e lui mi ha rassicurato sul fatto che l'anno successivo avremmo valutato bene questa visione e che, nel caso, l'avremmo chiodata.

L'autunno e l'inverno sono arrivati e ogni tanto, tra una sessione al trave, una al pannello o una scalata in falesia, ho ripensato a quel progetto. Nella mia esperienza da chiodatore, anche se di sicuro da perfezionare, mi è già capitato di chiodare tiri nuovi o vie a più tiri, ma devo ammettere che non sono mai stato così attratto da una linea come in questo caso. Sarà che questo stile di scalata, cioè l'arrampicata su granito a funghi (knobs), mi piace molto. Credo però che questa attrazione sia più legata al luogo dove questa falesia è situata: la piana del Gaver, il Blumone, il Lago della Vacca... tutti questi sono luoghi dove ho iniziato a conoscere e ad amare la montagna.

Nel periodo dell'adolescenza, la montagna prima e l'arrampicata poi sono state delle compagne silenziose capaci di colmare momenti di tristezza e solitudine. La scalata, in particolare, è stata fondamentale per me due anni fa, nell'estate del 2021, quando a causa di un incidente stradale in scooter, in cui sono stato investito da un'auto mentre ero fermo in coda, ho avuto non pochi problemi a livello fisico. In quel periodo mi sono aggrappato con tutto me stesso a questa immensa passione, per tornare a scalare e soprattutto per tornare a vivere normalmente. Nei momenti in cui ero steso nel letto una delle poche cose che mi dava la forza di non crollare era il pensiero di rimettermi l'imbrago e tornare quanto prima a scalare. Sono da sempre una persona passionale e curiosa e in quei frangenti ho capito quanto fosse indispensabile avere quella passione, quel fuoco, quella motivazione per continuare a crederci e a non desistere.

Tornando al tiro protagonista di questo racconto, finalmente è arrivata l'estate 2023: di nuovo in Gaver. Insieme a Walter ho iniziato a provare il tiro con la corda dall'alto, sfruttando la sosta della via accanto. Dopo qualche tentativo, abbiamo capito che sarebbe stato fattibile scalarla. A metà via c'era un passo duro e soprattutto morfologico, ma io ero davvero convinto e ho deciso: l'avremmo fatto. Purtroppo in quel momento non avevo con me il mio trapano, così ho deciso di tornare il giorno successivo con mia moglie Laura e le mie due figlie, Giorgia e Camilla.

Il giorno dopo, in un'ora ho chiodato e pulito tutto il tiro, ma il caldo atroce e la mia disidratazione, causata dal sole torrido non mi hanno permesso di provarlo. A dire il vero il motivo reale che non mi ha reso possibile tentarlo è che avevo promesso alle bambine che il lavoro sarebbe stato rapido e che poi saremmo andati a fare il bagno in piscina dalla nonna. Mentre stavo avvitando le viti della targhetta metallica dove avrei scritto il nome della via, mia figlia Giorgia, la più grande delle due, mi ha chiesto: "Cosa fai, papà?". Io ho risposto: "Metto la targhetta per scrivere il nome della via". Incuriosita, ha continuato: "E come hai deciso di chiamarla?". Io ci ho pensato un attimo e le ho detto: "Vorrei chiamarla È da un anno che ti pensavo". Con la teatralità che la contraddistingue, Giorgia ha risposto: "Bello, bellissimo... Però avrei voluto sceglierlo io, il nome della via!". A questo punto, ridendo, le ho risposto: "Come la chiameresti tu, invece?". Giorgia non ci ha pensato un attimo: "Il cielo toccherò, come la canzone del cartone animato Ribelle". La mia risposta definitiva è stata: "Andata, la chiameremo così". Giorgia, quindi, tutta fiera, ha preso il pennarello indelebile e ha scritto il nome sulla targhetta, disegnando anche il sole e delle nuvole: la sua piccola opera d'arte.

Ho apprezzato subito questo nome, soprattutto perché mi piace Merida, la protagonista del cartone: una principessa che non si piega al volere di nessuno e che segue costantemente il suo spirito selvaggio. Dopo la scelta del nome, ho sistemato tutto il materiale nello zaino e abbiamo iniziato la discesa. Suonerei bugiardo se dicessi che non sarei voluto rimanere lì, in realtà. Non avevo voglia di tornare nel caos della pianura. Sarei stato lì, davanti a quel muro stupendo di granito, sotto quei due larici che lo sorvegliano e ne ombreggiano la base. Avrei voluto godermi il silenzio del bosco, il tramonto meraviglioso, aspettando che il fresco tornasse e che le condizioni permettessero di provare il tiro. Per le mie figlie, però, il bagno in piscina promesso era troppo importante. Per me, fondamentale invece mantenere la parola data.

Nei giorni successivi, al lavoro ero presente solo fisicamente: mente e cuore erano da tutt'altra parte. Quattro giorni più tardi, le temperature sono calate: io e Sandro De Toni, storico alpinista bresciano nonché amico di vecchia data, abbiamo deciso di tornare e di provare a liberare il tiro.

Partenza all'alba e solito copione: Lago d'Idro, Bagolino, Val Dorizzo e infine Gaver. I viaggi con Sandro sono sempre stati densi di contenuto e questo non ha fatto eccezione. Siamo dunque giunti al parcheggio e la temperatura si aggirava sui dieci gradi. Dopo i soliti venti minuti di avvicinamento, siamo approdati in falesia: mi sentivo veramente carico. Appena il tempo di scaldarsi sui tiri facili ma mai banali, soprattutto psicologici, che il momento era già arrivato.

Fino a metà la via era super scalabile, senza passi duri, ma con passi estetici ed eleganti che ricordavano la ben più famosa "danza verticale". Arrivato a metà, è iniziato il duro. Al primo tentativo, ho provato a passare statico, ma quelle microprese con i piedi così alti mi sfuggivano. Al secondo tentativo mi sono improvvisato boulderista e ho provato a lanciare, ma anche così non sono riuscito. Ero amareggiato, pensavo di essere al momento del game-over. Rimpiangevo di non avere un’apertura alare un po’ più ampia: sarebbe stato tutto più semplice.

Prima di partire per il terzo tentativo, parlando con il socio alla base della parete, ho avuto un'intuizione. Le prese per le mani erano veramente piccole, ma se avessi provato a tenerle con le gambe più distese, sacrificando due appoggi buonissimi per due appoggi molto più piccoli, avrei potuto farcela. Ed è così che, poco dopo, sono riuscito a liberare il tiro.

La linea è tecnica, elegante e mai banale. In una scalata come questa, super obbligata in alcuni casi, la morfologia di chi scala incide molto sulla difficoltà. Sul passo chiave de Il cielo toccherò, per esempio, una persona più alta è più avvantaggiata rispetto ad una più bassa e anche se si scala sullo stesso tiro, se ne affrontano due completamente differenti.

Ero veramente al settimo cielo: una volta sceso, è scattato l' abbraccio di rito con Sandro e poi, da solo, mi sono seduto e ho guardato il panorama di fronte a me. Ero sereno, felice, appagato. Mi sono goduto ogni singolo secondo, ogni istante. Solitamente non sono bravo a farlo, ma sto imparando.

Quando sono tornato a casa, ho scritto agli amici stretti, scalatori e non, che il tiro era fatto, era lì da provare. A parte due o tre, nessuno mi ha chiesto cosa abbia provato. La domanda di rito è stata una soltanto: "Grado?". Dico questo perché anche a me, come del resto a tutti gli scalatori, i gradi interessano. Allo stesso tempo però, sono convinto che non siano tutto. In un percorso come quello appena narrato, poi, il grado è stato in assoluto l’ultimo dei miei pensieri dall’inizio alla fine.

Uno dei principi fondamentali che mi sono imposto negli ultimi anni è stato quello di non farmi risucchiare in quel vortice moderno dove il "cosa" supera il "come", quando l’aspetto meramente tecnico annienta la bellezza dell’esperienza. Sono sempre stato un sovversivo e, per un momento, ho anche provato ad omologarmi agli standard social(i), dove devi essere sempre perfetto, sempre felice, sempre performante. Nel momento in cui mi sono reso conto che non era il gioco a cui volevo giocare, me ne sono tirato fuori, pensando che la mia serenità fosse di gran lunga più appagante del dover(si) mostrare o, forse peggio, dimostrare. Questo scritto non è la mia storia, ma è il racconto di un viaggio dove ancora una volta l’arrampicata si pone come mezzo per unire, per condividere, per vivere esperienze che nel tempo rimarranno.

Dopo qualche giorno, insieme a Nicholas e Sandro, siamo tornati per fare qualche foto sul nuovo tiro. Nicholas è uno dei miei migliori amici, nonché colui che è sempre stato presente in ogni lavoro svolto nelle varie falesie e fotografo per passione. Nonostante lui abbia mollato l'arrampicata, ha continuato a contribuire economicamente alle richiodature da me fatte e questo la dice lunga sulla persona che è e racconta ancora di più, invece, sulla comunità arrampicatoria, fatta talvolta da gente che non ha mai aiutato i chiodatori ma che magari si è divertita a giudicare, a sentenziare, a commentare senza nemmeno avere la decenza di ringraziare o quantomeno di fare silenzio.

Le fotografie di Nico sono bellissime, Sandro è riuscito a fare una bella ricognizione della falesia in vista della futura guida delle valli bresciane che sta ultimando e io ho avuto l'opportunità di scalare nuovamente sul mio tiro: un'altra bella giornata in compagnia, insomma.

Mio papà, che è venuto a mancare dieci anni fa, amava la musica e mi diceva sempre che invidiava i cantanti famosi perché erano riusciti, durante la loro carriera, a lasciare qualcosa per la gente. Io non sono un cantante famoso e nemmeno uno scalatore famoso, ma mi piace pensare di aver lasciato un ricordo a qualcuno con questa richiodatura e soprattutto con questa nuova linea. Mi sono chiesto se quella folata di vento improvvisa che mi ha accolto quando sono sceso dal tiro non fosse un segnale, che mi accarezzava e mi ricordava l'unico motivo del perché fossi lì.

Era da un anno che ti pensavo.

di Gianluca Forti




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