Phantom Direct alle Grandes Jorasses per Emanuele Andreozzi e Francesco Nardelli

Il report di Emanuele Andreozzi che con Francesco Nardelli tra il 12 e 13 febbraio 2022 si è aggiudicato la sesta salita integrale di Phantom Directe sulla parete sud delle Grandes Jorasses nel massiccio del Monte Bianco. La linea è stata aperta da Giancarlo Grassi, Renzo Luzi e Mauro Rossi nel 1985 ed stata chiamata anche 'Via in memoria di Gianni Comino'. Oltre 2700 metri di dislivello totale, affrontati in salita con gli sci in spalla, per una 'indimenticabile giornata lunga 32 ore.'
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Francesco Nardelli sulla Phantom Direct, parete sud delle Grandes Jorasses, insieme a Emanuele Andreozzi (12-13/02/2022). 'È stata un’avventura totale su una parete enorme e selvaggia, senza la minima traccia, ne in salita e ne in discesa. La linea e la parete sono un qualcosa di incredibile, sembra di non essere nemmeno sulle Alpi.'
Emanuele Andreozzi

La prima ripetizione di questa via, aperta nel 1985 da Gian Carlo Grassi, Renzo Luzi e Mauro Rossi, è stata effettuata solamente nel 2020 dai francesi Yann Borgnet e Charles Dubouloz. Nel gennaio di quest’anno la via è invece stata ripetuta quattro volte, compresa la splendida prima femminile per mano di Line van den Berg e Fay Manners. Un "affollamento" più unico che raro considerando che in letteratura, dopo la prima salita della parete nel 1928, ne vengono riportate solamente altre cinque fino al 2014 (fonte Gognablog)!

Dopo un mese di alta pressione, ad inizio febbraio è arrivata un’abbondante nevicata che sembrava aver "rovinato" le buone condizioni; ma non mi ha fatto perdere la speranza, ero convinto fosse ancora possibile salire la via, a patto di portarsi gli sci. Sarebbe stato più duro, lungo e faticoso, ma ancora fattibile. Telefonai a Francesco Nardelli, esponendo la mia idea di salire in inverno la Phantom Directe alla Parete Sud delle Grandes Jorasses con gli sci in spalla ed una volta in cima, scendere con gli sci la via normale. Gli spiegai il mio piano: partire nel cuore della notte, scalare tutto il giorno e arrivare in cima verso mezzanotte, infine scendere con gli sci. "Dopo la recente nevicata, non c’è modo di stare dentro le 24 ore, andremo sicuramente oltre, sei pronto?" Franz rispose di sì!

Dai nostri predecessori, avevamo appreso che le difficoltà tecniche non erano elevate e che il passo chiave sarebbe stato il superamento dell’enorme terminale strapiombante al primo tiro della via. Dunque, portare gli sci in spalla sembrava una buona soluzione; inoltre, dopo la nevicata non erano più fattibili né l’avvicinamento, né tantomeno il rientro a piedi.

Siamo partiti venerdì 11 febbraio alle 20.30 da Trento. Una volta arrivati al parcheggio di Planpincieux verso l’una di notte, abbiamo messo nello zaino il minimo indispensabile per poter essere leggeri. Una serie di friends, nuts, 6 viti, qualche chiodo, una corda singola da 50 metri, un cordino in kevlar sempre da 50 metri per le doppie, piumino, fornelletto, gas, guanti, barrette, pala, sonda e ARTVA. Abbiamo deciso di non portare con noi materiale da bivacco, questo voleva dire che saremo stati costretti a muoverci sempre, senza mai fermarci, pena morire congelati nella gelida notte. Nudi ma in costante movimento!

Ci siamo incamminati alle 1.40 e nessuno di noi due aveva dormito durante il pomeriggio; dunque, il deficit era già di oltre diciotto ore senza sonno. All’alba abbiamo raggiunto il conoide, sci ai piedi. Incredibilmente è stato sufficiente fare un passo più lungo degli altri per superare la terminale. Eravamo increduli, il passaggio chiave era stato sommerso da una decina di metri di neve accumulatasi sul conoide alla base della via e non esisteva più!

Franz prese i ferri e iniziò a scalare, bombardato da spindrift. Procedevamo in conserva, arrivando sotto il tiro più ostico della giornata in pieno sole. Passai avanti e decisi di scalarlo direttamente nel diedro, la via passa sulle più appoggiate placche a destra per poi rientrare nel diedro in cima, ma non sembrava ragionevole scalare lì, la roccia era smaltata da parecchia neve; nel diedro almeno, sapevo che pulendolo, sarei riuscito a proteggermi nella fessura. Il tiro non era difficile, ma l’ho dovuto sudare fino in fondo a causa delle neve fresca e gli sci sullo zaino, che mi costringevano a stare sempre frontale in spaccata.

In cima al diedro una cascata di ghiaccio verticale mi fece riempire le braccia di acido lattico. Quando Franz mi raggiunse, gridò "che assurdo tiro folle hai scalato!" Gli risposi entusiasta "è così che immagino sarà l’arrampicata in Alaska!". Franz, poco dopo, scalò il secondo passaggio difficile, su ghiaccio reso critico dal calore del sole. Si guadagnò ogni centimetro di quel tiro. Gli detti nuovamente il cambio per l’ultima lunghezza prima del grande traverso, le difficoltà maggiori erano ormai alle nostre spalle.

Stavo per partire quando, ancora allongiato alla sosta, improvvisamente sono stato investito da una grossa valanga di neve umida. Una forza violenta tentava in tutti i modi di trascinarmi giù con sé, ma il solido ancoraggio allestito da Franz fortunatamente reggeva. Dopo alcuni istanti di terrore tornò la calma e mi ritrovai appeso alla sosta, capovolto a testa in giù, ma tutto intero. Franz invece non fu coinvolto. Sapevamo che la valanga proveniva dal grande camino sopra di noi e che solo una volta raggiunto il traverso saremo stati al sicuro. Scendere in doppia non era un’opzione, avrebbe voluto dire esporsi per molto più tempo allo stesso pericolo, dovevamo per forza salire e farlo in fretta. Impugnai le picche e scalai la cascata di ghiaccio più veloce che potevo, mettendo allo stesso tempo più protezioni possibili, polpacci e polmoni erano in fiamme, ma non potevo assolutamente fermarmi. Lo feci solo quando, uscendo dal canale, attrezzai una sosta e mi abbandonai esausto appeso ad essa. Eravamo salvi!

Da lì in poi ci muovemmo in conserva, salendo lunghissimi tiri anche da duecento metri ciascuno. Alle 16 facemmo mezz’ora di pausa, sciogliendo quattro litri d’acqua col fornelletto. Dinanzi a noi non avevamo più alcuna difficoltà tecnica, eppure fu proprio lì che iniziò la parte più dura di tutta la nostra avventura. Annegavamo inesorabilmente nella neve profonda e a tratti dovevamo aprirci una vera e propria trincea nella parete. Avanzare richiedeva uno sforzo titanico.

Quando le tenebre della notte ci avvolsero, indossammo anche i piumini. Il nostro movimento bastava a malapena a scaldarci, il far così tanta fatica paradossalmente ci stava garantendo di non congelare. Le ore passavano, faceva sempre più freddo e i nostri corpi erano sempre più stanchi e meno capaci di produrre calore.

Si susseguivano senza fine tiri in conserva da 150 /200 metri ciascuno sulla peggiore neve mai vista in vita mia. Cinquanta metri di corda separavano la nostra infinita progressione simultanea, eravamo soli, avvolti dal silenzio e immersi nei propri pensieri. La cima sembrava non arrivare mai. Ad inizio via pensavo che fossero stati esagerati a dichiarare 1.600 metri per lo sviluppo, di fronte a "soli" 1.100 metri di dislivello. Invece in quel momento mi resi conto come era davvero così, eravamo realmente sulla via di misto più lunga del massiccio del Monte Bianco.

La luna illuminava talmente bene che potevamo tranquillamente spegnere le nostre frontali. Mentre riprendevo fiato immerso nella neve profonda, guardai in giù verso le minuscole luci del fondovalle e rimasi sorpreso dal riuscire ancora a godere della bellezza del posto in cui ci trovavamo, nonostante la fatica estrema. Essere lì su, in quella parete enorme e selvaggia, quasi in cima al chiaro di luna, era semplicemente magico.

Ad un orario indefinito, stanchi e provati, sbucammo finalmente in cresta. Ancora non era finita, mentre procedevamo in corda corta verso la cima, cornici di neve dalla consistenza dello zucchero ci costringevano a lottare anche in quel tratto. Poi a mezzanotte e venti minuti finalmente riuscimmo ad abbandonarci, esausti, in vetta alla Punta Walker.

La luna splendeva e normalmente sarebbe stato un momento meraviglioso ed emozionante, invece per noi quella era solo una tappa, davanti avevamo la lunga discesa, ancora più preoccupante e piena di incognite rispetto alla salita. Recuperato il fiato, senza dire una parola ci avviammo verso il basso. Due dita di neve polverosa ricoprivano del ghiaccio liscio e durissimo, dovevamo stare attentissimi, era come camminare sul vetro e se fossimo scivolati sarebbe finita, non c’era modo di fermarsi. Quello fu in assoluto il momento peggiore di tutta la giornata, i nostri ramponi, dopo ore ed ore di scalata, erano smussati e non fornivano sufficiente presa su quel terreno. Avevamo paura, tanta paura.

Raggiunta una zona di neve profonda, tirammo un sospiro di sollievo e ci fermammo a fare il cambio di assetto e mettere gli sci. Quando percepimmo il rischio di congelarci i piedi, decidemmo di accantonare l’idea di fermarci a sciogliere neve col fornelletto e ci mettemmo subito a sciare. Arrivati al Rochers Whymper attrezzammo un paio di ancoraggi per le doppie, visto che quelli usati in estate, erano sommersi dalla neve. Terminate le calate, rimettemmo gli sci, ma decidemmo di legarci, il ghiacciaio aveva molti crepacci, fortunatamente ben coperti.

Qui le allucinazioni presero il sopravvento in entrambi. Chiesi a Franz cosa diavolo ci facevano due alberghi così ben illuminati al termine del ghiacciaio. Franz confuso, non aveva una risposta e poco dopo mi indicò invece una tenda giallo fluorescente sul ghiacciaio. La causa probabilmente doveva essere la deprivazione di sonno, sommata alla gran fatica e la quota.

Franz aprì la mappa e disse di aver individuato una valletta laterale a destra del Rifugio Boccalatte che ci avrebbe portati direttamente alla macchina. Era determinato ad andare lì e io lo seguì senza fare domande. Presto ci trovammo sopra una barriera di seracchi, seguita sotto da un labirinto di crepacci. Impossibile passare di lì, dovemmo mettere le pelli e tornare indietro fino a dove si incrociava la via normale estiva e dirigerci verso il rifugio. Sembrava un giro piuttosto lungo. Gridai al vento parole irripetibili. Ma il povero Franz era stato ingannato dalle allucinazioni. Guardando in su, scorsi un breve e ripido canale di neve che sembrava portare dritto al R. Boccalatte, facendoci risparmiare dislivello e sviluppo. Anche Franz era d'accordo, indicandomi il bel rifugio con ampia terrazza in legno di larice proprio al termine del canalino. Mi fiondai sul canale, ma al suo termine, il rifugio sparì e in compenso davanti a me diventò chiaro come il canale fosse lungo il doppio. Non sapevo se ridere o piangere. Ad ogni modo arrivati in cima al canale, nonostante non ci fosse alcun rifugio, almeno potemmo mettere gli sci e scendere dal lato opposto.

L’alba era magnifica e ci sedemmo sugli zaini a guardarla. Vidi un’enorme (e inesistente) vecchio impianto da sci, arrugginito e dismesso; anche le montagne e le pareti erano distorte, avevano delle improbabili cenge di neve ad X e dei ghiacciai pensili che in realtà non esistono. Più avanti, al sole apparve un dinosauro nella neve e un bonsai in un vaso. Un dolce suono di campane invece rimbombava costantemente nella mia testa, quantomeno era piacevole e tranquillizzante. Stranamente, nonostante le allucinazioni, riuscivo anche a godermi una bella sciata, grazie allo zaino praticamente vuoto e alla neve ottima.

Poco prima delle 10 del mattino arrivammo finalmente alla macchina. Erano passate oltre 32 ore da quando eravamo partiti da quello stesso punto e noi eravamo svegli da 50. Le allucinazioni, sommate alla stanchezza non ci fecero subito godere dell’essere riusciti a realizzare questa bellissima salita. La soddisfazione la percepiremo solo nei giorni a seguire, quando tutto sarà tornato alla normalità.

di Emanuele Andreozzi

Emanuele Andreozzi ringrazia: Elbec




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