Per Elisabetta al Monte Fop (Dolomiti) di Emanuele Andreozzi, Fabio Tamanini e Vaida Vaivadaite
Non sono mai andato a ricercare la bellezza nel gesto della scalata in sè o nella qualità del ghiaccio e della roccia, l’ho invece sempre cercata nella linea, nel suo essere logica, evidente, naturale. Difatti le vie che apro insieme ai miei compagni di cordata difficilmente potranno essere definite belle da arrampicare, ma sono logiche, anzi logicissime. Quest’ultima poi lo è talmente tanto che l’enorme spaccatura sulla quale si sviluppa, viene disegnata chiaramente sulla mappa in scala 1.25.000.
Quando si guarda una qualsiasi parete dove ho aperto una via, difficilmente questa passa inosservata. Magari si può pensare "wow che linea", scalarla però poi è tutta un’altra storia e Per Elisabetta ne è l’emblema: angusta, tetra, buia, roccia marcia, ghiaccio a tratti pessimo e neve profonda; solo la splendida vista sull’assolata parete sud della Marmolada mitiga questo cupo quadro.
In passato ho visto di molto peggio, ma da quando due anni fa ho avuto l’incedente, non avevo più vissuto un’avventura di questo genere, nella quale si affrontasse un’arrampicata abbastanza severa ed esposta; ovviamente, nulla a che vedere con alcune salite antecedenti all’incidente. La gamba per adesso non ne vuole sapere di guarire e per il momento non posso ancora permettermi determinate cose, però alcuni tratti di questa salita hanno avuto il sapore delle vecchie avventure nonostante mancasse essere su una grande parete di mille o più metri per poterla definire una salita davvero esposta.
Ricominciare dopo l’incidente è stato un processo doloroso e difficile, più di quanto mi aspettassi e che sta facendo ancora il suo corso. L’anno scorso ci avevo già provato ma fu un fallimento totale, il corpo diceva semplicemente di no; quest’anno, con più consapevolezza, sono tornato alla carica ad inizio inverno, ma ancora non stava funzionando come speravo.
La prima volta che effettivamente ho provato ad aprire questa via è stata lo scorso 17 dicembre, quando con Vaida Vaivadaite ci trovammo sotto la parete nord del Monte Fop e davanti a due scelte, o questa linea, o un’altra più a destra. Questa era il piano A, ma ai miei occhi appariva subito troppo ripida e difficile, quindi ci dirigemmo sotto la linea più a destra, apparentemente un po’ meno ardua. Ma alla base scoprimmo che la ripida goulotte iniziale era costituita da neve inconsistente. Non me la sentivo proprio di provarci, una volta sarei andato su senza indugiare, ad ingaggiarmi con quello che aveva da offrire la montagna e di sicuro non avrei mollato senza nemmeno provare a fare un passo verso l’alto.
L’amara verità è che se un tempo incontrare delle difficoltà mi motivava, in quel momento invece mi spaventava. Quel giorno per non tornare a mani vuote, non ci restò che ripiegare sul piano C, ovvero aprire una piccola cascata di due tiri posta tutta a destra della parete, che chiamammo poi "First Time".
Nelle settimane successive però, la testa ed il fisico qualche passo avanti iniziarono a farlo e il 4 febbraio tornai all’attacco con Stefano Giongo. Le condizioni erano migliori e riuscimmo ad aprire la via, che decidemmo di chiamare "Per un Angelo". All’attacco però, ancora una volta, più che un fuoco ardente di motivazione, prevaleva dentro di me una fastidiosa sensazione di incertezza che non avevo mai avuto prima dell’incidente. Per fortuna lentamente qualcosa si mosse e l’essere riuscito ad affrontare quella via accese una nuova consapevolezza in me che finalmente mi rese pronto a tentare la più difficile delle linee che avevo adocchiato sul Monte Fop.
Il 28 gennaio con Vaida Vaivadaite e Fabio Tamanini giungemmo all’attacco, questa volta ero motivato e pronto ad affrontare le difficoltà, quasi come ai vecchi tempi. La via presentava tre sezioni problematiche ben distinte: un primo salto verticale all’inizio, che però sembrava il più agevole in quanto vi era una cascata di ghiaccio, poi una strapiombante sezione centrale ed infine il grande rebus finale, dove la goulotte si ramificava in tre camini e, guardando la parete, non era per nulla chiaro quale sarebbe stato il più agevole.
Al secondo tiro, stavo affrontando quella che da lontano ci era apparsa come una bella cascata di ghiaccio, ma in realtà da vicino si stava rivelando un vero guaio: un labirinto verticale fatto di funghi di neve e croste di ghiaccio con sotto neve inconsistente. Al centro e a destra era inscalabile, provai allora a sinistra vicino alla roccia, quel giorno ero determinato a vendere cara la pelle. Mi misi a pulire, ma dopo una mezzora abbondante non stavo migliorando, sotto le varie croste trovavo un terreno ancora peggiore, allora via col pulire anche quello, fin quando dopo qualche metro in dry sulla roccia ripulita, non provai a spostarmi sul ghiaccio. Non vi era alcun modo di proteggersi e piantando le picche esplodeva tutto. "Merda, ci risiamo". Ero totalmente esposto. Per la disperazione mi misi a scalare con le mani sulle croste di ghiaccio sperando di risultare più delicato. Funzionò. Per superare l’ultimo instabile fungo di neve, mi tuffai di pancia dentro la nicchia, pregando che il fungo non crollasse sotto il mio peso. Lì dentro, finalmente potevo proteggermi con un friend viola. Discreto, non ottimo. Da quel punto il ghiaccio divenne buono e non mi restò altro che bucare la tenda e scalare fino alla fine della cascata. Quando Fabio e Vaida mi raggiunsero in sosta, dissi subito "Fabio vai avanti un po’ tu, che io ho il cervello fritto". Erano due anni che non provavo una sensazione del genere al termine di un tiro impegnativo in montagna.
Seguirono dei tiri più agevoli, a tratti c’era anche del bel ghiaccio, ma per la maggior parte era un procedere faticoso e per nulla piacevole. "L’arte di ravanare dentro un enorme e buio camino". Giunti sotto gli strapiombi della sezione centrale, mentre Fabio aveva l’aria preoccupata perché si vedeva già appeso sui friends a ingaggiare una lunga lotta in arrampicata artificiale, ci accorgemmo che filtrava della luce in basso nella parete. Era incredibile, c’era un piccolo tunnel che permetteva di passare sotto tutta quella porzione, un colpo di fortuna del genere quando si apre una nuova via è quasi come vincere alla lotteria. Dopo tanto ravanare e lottare ce lo meritavamo proprio! Ma era tutt’altro che finita, nella parte finale ci aspettava ancora il grande rebus dei tre camini, qualsiasi avessimo scelto, si prospettava un bell’ingaggio e a quel punto c’era l’alta probabilità di incontrare il tratto più impegnativo di tutta la salita.
Arrivati alla diramazione, mi feci avanti per tornare a salire da primo di cordata. Optammo all’unanimità per il camino centrale, ma non eravamo sicuri di aver scelto la soluzione più agevole, anche l’esserci così vicino non risolveva il dubbio. Ma non c’era tempo per perdersi in chiacchiere, dovevamo agire in fretta e, presa la decisione, toccò a me affrontarne le conseguenze.
Il primo tiro già mi impegnò al massimo, ma la roccia era relativamente solida e ben proteggibile; inoltre, dopo il tratto di misto, il ribaltamento per uscire dalla sezione verticale aveva dell’ottimo ghiaccio. Il tiro successivo invece si presentò subito più problematico: leggermente strapiombante su roccia marcia e senza ghiaccio per il ribaltamento finale. Fu una bella lotta. Per fortuna, nonostante la friabilità del terreno, le protezioni furono generalmente buone. Al termine di quel tiro eravamo alla fine della via, si percepiva la vicinanza della cresta e non sembravano più esserci difficoltà serie davanti a noi. L’ultima lunghezza all’inizio era solo canale di neve, poi in alto divenne uno stretto caminetto rivestito di verglas che scalai agevolmente, e al suo termine rimaneva solo l’uscita sulla cornice nevosa della cresta. Dopo 500 metri di arrampicata avevamo finito. Recuperati i miei compagni, la discesa si presentò come una pura formalità: seguimmo prima la cresta verso ovest, fin quando giungemmo in breve all’uscita della via aperta qualche settimana prima con Stefano Giongo, già attrezzata per la discesa. Con qualche doppia e tanta disarrampicata nei tratti più facili, in breve ci trovammo giù dalla parete e poi alla macchina.
Davanti ad una pizza calda, ripensando a quanta fortuna avevamo avuto nel trovare il buco, dissi a Vaida e Fabio "certo che se non avessimo trovato quel tunnel, non saremmo mai riusciti a terminare la via alla luce del giorno". Infine decidemmo di chiamare la via Per Elisabetta, che è una splendida dedica di mamma Vaida per sua figlia Elisabetta di sei anni, quasi sette visto che compie gli anni il 26 marzo.
di Emanuele Andreozzi
Si ringrazia Elbec e GrandeGrimpe per il supporto