Al Monte Cuminello nelle Orobie Valtellinesi la Via Toboga alla Crema

Sulla nord del Monte Cuminello nelle Orobie Valtellinesi Marco Serafini e Davide Bonfanti hanno aperto Toboga alla Crema, una nuova via d’arrampicata che corre affianco a Cacciatori di Gemme.
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Via Toboga alla Crema al Monte Cuminello: quinto tiro tutto su placca lavorata
Marco Serafini

È la seconda volta che mi trovo alla base di questa parete con il naso all’insù, a spogliarla con lo sguardo. La prima volta fu meno di un anno fa, in una mattina di fine estate. Oggi come allora, il cielo è coperto e sembra sfidarci a salire i primi tiri per poterci meglio lavare. Le nuvole vanno e vengono, prima compattandosi minacciose poi squarciandosi a mostrare qualche timido raggio di sole. Ogni tanto cade qualche goccia, ma si sente appena e potrebbe essere il sudore che ci perla la fronte. Armati di previsioni che davano i temporali nel tardo pomeriggio, risaliamo il conoide di neve che invade l’attacco e ci aggrappiamo alla parete.

Scoprimmo la nord del Cuminello diversi anni fa, grazie a delle incursioni di mio padre in Valtellina, lato orobico. A fine estate dell’anno scorso finalmente mi trovai ai piedi di questa parete inesplorata, sopraffatto da tutte le possibilità di salita che offriva. Difficile per altro spiegarsi come potesse essere inviolata. La parete si presenta monolitica e ben pulita dalla vegetazione, nonostante la pendenza sia scarsa e mai verticale. La roccia è spettacolare; così compatta che sembra colata da un enorme crogiolo. L’arrampicata è molto particolare. Il grip sfuggevole dello Scisto di Edolo costringe a movimenti lenti e calcolati; una danza dove dirige la roccia e noi possiamo solo farci accompagnare.

Disegnando con la mente tutti i possibili itinerari di salita, lentamente due linee affiorarono dalla parete come un rilievo ripassato con il gessetto. Entrambe nascono al centro della parete per poi divaricarsi fino a perdersi di vista. Quel giorno scegliemmo la linea più facile. Ricordo che all’attacco dissi "I Calegari sarebbero saliti da qui", pensando alla loro propensione per la via più logica, anche a scapito della bellezza dell’itinerario. Fu così che nacque Cacciatori di Gemme, la prima via relazionata sulla nord del Cuminello. Usciti in vetta dopo sette tiri, la soddisfazione fu intaccata solo parzialmente dall’inquietudine nel dover abbandonare quella seconda linea che prometteva emozioni ancora più grandi. Avrei voluto tornare il weekend successivo e forse chiesi pure ai soci di attendere questa seconda apertura prima di pubblicare la relazione di Cacciatori di Gemme, preoccupato che un’altra cordata potesse soffiarci la linea più difficile. Era però fine settembre e il weekend successivo messe ben in chiaro che le scarpette sulle pareti nord fossero fuori stagione.

Passato un inverno ricco di soddisfazioni quanto avaro di precipitazioni, con i mesi primaverili il tarlo del Cuminello ricominciò a scavare. I primi di giugno lancio l’idea a mio padre Luca e Davide: due giorni al rifugio Dordona per aprire la linea abbandonata l’anno prima. Qualcuno mi fa notare che solitamente queste pareti si affrontano a metà luglio, ma non voglio aspettare che ci soffino la via e punto tutto sul fatto che, ahimè, si è vista davvero poca neve questo inverno e ancora meno questa primavera. Nonostante i dubbi, il primo sabato di giugno siamo alla base del Cuminello.

Come anticipato, è la seconda volta che mi trovo all’attacco di questa parete. Come la prima volta, il cielo è coperto e minaccioso. Diversamente dalla prima volta, davanti a me c’è un conoide di neve lungo venti metri e pieno di buchi. L’acqua delle piogge ha scavato sotto la neve separando la parte alta del nevaio dalla parete e creando delle piccole caverne, non abbastanza grandi da inghiottire lo sfortunato avventore, ma sufficienti per seppellirlo fino alle spalle. Visto che l’idea di salire una nord a 2500 metri di quota i primi di giugno è stata mia, mi sento in dovere di affrontare questa prima difficoltà. Il resto della cordata sembra concordare.

Risalgo spedito la prima parte di nevaio usando il martello come piccozza. Fortunatamente la neve è molle e non fatico a crearmi dei gradini per gli scarponi. Nonostante precipiti in un paio di buchi dove la neve incontra la roccia, riesco ad issarmi sulle prime placche fino a raggiungere un piccolo ballatoio dove poter indossare le scarpette. Cambiato assetto, sono rapidamente alla prima sosta dove recupero le corde e urlo il classico “venite” ai compagni di avventura. Questi mi guardano con espressione dubbiosa e iniziano lentamente a legarsi. Ho la netta impressione che sperassero che venissi inghiottito dal nevaio o che quantomeno il cielo si aprisse definitivamente in uno scroscio memorabile. Qualunque cosa insomma gli avesse potuto evitare questo faticoso primo tiro, con la prospettiva incombente di una ritirata bagnata.

Giunti anche Luca e Davide alla prima sosta, io sono carico come una molla. Ho passato mezz’ora a rimirare il tetto che chiude il lungo diedro sopra la nostra testa e sono convinto che si possa superare senza staffe e acrobazie artificiali. Anzi, sono convinto che sia un tiro bellissimo e non vedo l’ora di attaccarlo. Per qualche ragione non riesco a trasmettere questa eccitazione al resto della cordata che anzi mi fa notare come le nuvole siano più nere e che forse sia il caso di abbandonare. Controbatto che il tetto è l’incognita principale della via e che superarlo oggi sarebbe molto importante per il morale del giorno successivo, ma ormai sono già qualche metro sopra la sosta, il che rende questo dibattito assai sterile.

Il tiro è bello quanto immaginassi. Ogni metro di diedro mi porta sempre più sotto il grande tetto. L’incognita di come superarlo mi elettrizza. Lentamente mi avvicino, metto a fuoco nuovi dettagli e inizio ad immaginare i movimenti che mi permetteranno di vincerlo. Cerco di godermi ogni sensazione perché so che potrò aprirlo solo una volta, come un regalo che non si può rimpacchettare e scartare nuovamente.

Arrivato con la testa contro il tetto inizia a piovere. Di fatto non me ne rendo conto, saranno Luca e Davide a farmelo notare dalla sosta. Sono coperto dal tetto che mi protegge dai goccioloni e sono concentrato sull’uscita del tiro, come se guardassi in un mirino che nasconde tutto il contorno. La base del tetto è fessurata, il traverso non sembra impossibile e sull’orlo destro del tetto mi sembra di vedere una bella presa. Non posso abbandonare il tiro adesso. Metto un chiodo che terrebbe una piccola nave e mi lancio sul traverso.

Qualche metro sopra il tetto, con un sorriso che rischia di ghisarmi le guance, tiro fuori il trapano dallo zaino e attrezzo la seconda sosta. Qualunque tensione residua trattenesse l’umidità in cielo, si è ora disciolta come l’adrenalina che mi ha spinto fin quassù. Mi rendo conto che non voglio stare appeso qui, sotto questo cielo; sensazione rafforzata dal fatto che lo scivolo di roccia che darà il nome alla via sta convogliando una quantità imbarazzante di acqua nella mia manica sinistra, vicina alla roccia e alla mano con cui mi tengo mentre foro. Mi sforzo ad attrezzare la doppia lentamente, combattendo contro la volontà di scendere prima possibile e inizio a calarmi in quello che ormai assomiglia più ad un piccolo torrente. Sotto il tetto passo attraverso una cascata che sono abbastanza sicuro che non ci fosse pochi minuti prima e raggiungo i compagni in sosta. Un’altra calata e siamo alla base del conoide, dove lasciamo tutto il materiale coprendolo con un telo e ci prepariamo a rientrare al rifugio Dordona sotto una pioggia battente.

All’alba di domenica ci svegliamo con un cielo terso e asciutto. Ha piovuto tutto il giorno e la sera precedenti. Nell’aria c’è ancora odore di pioggia, l’erba è decorata da perle trasparenti e i miei scarponi sono completamente fradici. Non nutro molte speranze che la parete sia più asciutta, ma l’orizzonte privo di nuvole e orlato dal Disgrazia ci mette di buon umore e in due ore siamo nuovamente all’attacco. Il materiale, zuppo già prima di infilarlo sotto il telo, sembra aver assorbito ancor più umidità. Le mezze corde, da asciutte le più leggere che vengano prodotte, pesano ognuna come una singola e si arricciano come serpenti in amore. Come se non bastasse, mio padre ci abbandona per sopraggiunti crampi e i nostri zaini si riempiono fino all’orlo di chiodi, fix, martelli e trapano. Non ricordo di aver mai arrampicato con uno zaino tanto pesante.

Il primo tiro è umido, ma il diedro del secondo tiro, che resta in ombra, sembra glassato di acqua. Un fine velo trasparente ricopre tutto e sembra preferire l’adesione alla gravità. Il diedro spetterebbe nuovamente a me, ma, differentemente dal giorno prima, tutta l’adrenalina è evaporata. Ho faticato sul primo tiro e ora guardo demotivato il tetto sopra di noi, di cui conosco tutti i segreti. Cedo il passo a Davide che sembra più carico e che ha passato il giorno precedente principalmente in sosta a prendere acqua. Lo guardo salire con lentezza e decisione fin sotto il tetto, rinviare sul chiodo prima del traverso e lanciarsi oltre lo strapiombo. Mentre lo seguo, noto come la glassa acquosa riduca solo in parte l’attrito delle scarpette, dando invece più fastidio alle mani. Ciononostante, sono contento di sbucare alla seconda sosta sotto un caldissimo sole che ha già asciugato la parete soprastante e si appresta ad evaporare diversi grammi dalla nostra attrezzatura.

Il resto della via procede speditamente e senza sorprese. Davide apre un bellissimo tiro in placca usando pochi chiodi e molta delicatezza. Lo seguo arrampicando male e continuando a pulirmi le scarpette, come un tic che non riesco a levarmi dal primo tiro, passato per lo più con le suole sporche di terra umida. Raggiunto il culmine del toboga, l’ultima incognita della via tocca ancora a me. Un traverso di dieci metri su placche lisce come specchi. Mi dimentico di pulire le scarpette e finalmente trovo un po’ di concentrazione. Il primo passo sarà anche il più difficile. Appoggio un piede sullo specchio testandone il grip. Sposto il peso e sento la suola scivolare lentamente, senza però scappar via del tutto. Sorrido e scarto lentamente anche quest’ultimo regalo.

Se mi chiedessero quale sia la via più bella del Cuminello, Toboga alla Crema o Cacciatori di Gemme, sarei molto indeciso. Entrambe hanno in comune l’ambiente estremamente selvaggio, la roccia sorprendentemente sana e l’arrampicata divertente e mai troppo difficile. Purtroppo le vie, come i regali, si possono aprire solo una volta e come ladri di emozioni abbiamo rincorso anche questa seconda linea, rubandola ai posteri. Se mi chiedessero quale sia la via più bella del Cuminello, risponderei quella che resta da aprire; le altre le hanno già rubate.

di Marco Serafini

SCHEDA: Via Cacciatori di Gemme, Monte Cuminello, Orobie Valtellinesi


Link: www.nuoveviesulleorobie.it




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