Il gusto agro dell’incertezza. Via dei Ragni in Medale

Il racconto di Paolo Grisa della ripetizione della Via dei Ragni, aperta sulla Corna di Medale sopra Lecco da Guerino Cariboni e Casimiro Ferrari nel 1968. Una ripetizione alla ricerca della incertezza su una delle vie più lunghe e meno conosciute della Medale.
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Via dei Ragni in Medale: la traversata che dà accesso al diedro friabile e alla placca a gocce
archivio Paolo Grisa

Nella tela del Miro. Premessa: questo racconto non narra di grandi avventure all’altro capo del mondo o di limiti superati su gradi extraterrestri. O ancora, di pochi movimenti di top climber che rappresentano innumerevoli movimenti in avanti per l’umanità arrampicatoria. È invece la storia di una salita normale su una parete normale di tre arrampicatori della domenica. Che, per una volta, cosa che tutti e tre ormai fanno raramente, hanno scelto l’incertezza anziché la banalità, il dubbio anziché la sicurezza, la solitudine contro l’omologazione. È la storia di un cerchio che si chiude dentro i riquadri di una ragnatela in cui, due di loro, con compagni diversi, sono rimasti intrappolati già qualche anno fa. Uno di loro perfino due volte c’è cascato. È la storia di una parete che "tanto rimane sempre lì, a pochi chilometri da casa, non c’è fretta… quando non è tempo della grandi pareti di alta montagna lei è li che ti aspetta". In una stagione senza neve e con poco ghiaccio. Quando l’erba ruta non ha ancora sbocciato e non ti lascia i suoi baci velenosi. Insomma, un cerchio che si chiude senza bolle (sulle braccia) o che… forse non si è ancora chiuso. Perché la croce dell’altura che domina Lecco non l’abbiamo toccata questo giorno, come invece tante altre volte. Troppa era la fretta di chiudere, per la nostra insolita cordata, il cerchio di un tavolo carico di birre e stuzzichini e brindare al… gusto agro dell’incertezza. Dopotutto, anche per questo, siamo alpinisti della domenica.

Il cerchio chiuso, non chiuso…forse è solo una spirale

"Perché?" La domanda che ti rimpallano tutti in risposta alla tua proposta è quella…

"Con tutte le belle vie di roccia che ci sono su quella parete." "Roccia solida, chiodatura obbligata ma a spit sicuri, soste a prova di bomba." "Perché vuoi cacciarti proprio lì? In quella che probabilmente è la sezione di parete più marcia, solcata da tetti e strapiombi, ed erba verticale, rovi, sfasciumi e volumi precari al tempo stesso." "Oltre che la più alta per giunta. Dove il dislivello dalla base alla vetta, anzi, alla croce (esce proprio sulla croce…), è massimo!" "Non solo, si sono pure presi il lusso di buttare dentro qualche traverso… per forza, se no come li superavano i tetti senza neppure forare nel ’68, il Miro e Cariboni?"

"E poi… adesso, a distanza di 7 anni dalla prima volta che ci sei stato e a 5 dalla seconda dove ti sei persino ritirato prima ancora di raggiungere il punto massimo della precedente… ancora hai voglia di tornare? Non ti sono bastate due ritirate, vuoi tornare con le pive nel sacco una terza volta?"

Ero tranquillo il sabato pomeriggio, con il nostro obiettivo fissato per la domenica, due compagni di fiducia per realizzarlo con me, e tutto il tempo di preparare l’attrezzatura con calma andando, magari, anche a letto presto e arrivare bello riposato alla levataccia dell’indomani. In più, la comodità di non doverci almeno sparare le tre ore di auto come d’abitudine.

Ero tranquillo e felice al tempo stesso. Non scalavo con Raffo ormai da un paio di annetti e non facevo con lui "avventure di questo genere", leggi alla voce "ravanate su terreno misto", da almeno cinque. "Misto" assume in questo caso tre significati: arrampicata libera-artificiale, roccia-erba-rovi, tiri compatti-tiri su volumi/pilastri precari. Di Jessica mi preoccupava solo che potesse leggere la relazione e, con una qualsiasi scusa, cambiare idea prima di farsi trovare al parcheggio alle 6:15 del mattino. Ma dopo essere uscita "provata ma soddisfatta" dal Pilastro Zoppo al Precipizio del Circeo, probabilmente il seme del gusto per le ravanate alpinistiche doveva aver attecchito in lei.

L’orario è quello da "scialpinistica da 2000 metri di dislivello in Svizzera", invece stiamo andando a soli 30 km da casa, su una parete che richiederà, sì e no, non più di 30 - 40 minuti di avvicinamento. Dobbiamo essere a casa per pranzo? Tutt’altro, piuttosto temiamo di non arrivarci per cena…

Che la mia idea sia un po’ una scommessa ne sono ben conscio anch’io, con 500 metri di via con tratti di artif e soste perlomeno da rinforzare in una giornata di metà gennaio (dove non è che le ore di luce proprio abbondino…) di certezze ne ho ben poche. So benissimo che basta un piccolo contrattempo che ti fa ritardare e rischi di concludere la via alla luce della frontale, sperando che basti quella per trovare i chiodi che tanto, probabilmente, nei tiri di uscita non ci saranno.

Lo so bene anche senza le paternali che mi rovesciano addosso i miei due compagni nei trenta chilometri di strada e che, sicuramente, hanno concordato durante i miei soliti 10 minuti di ritardo sull’orario di ritrovo. "Hanno fatto combutta in poco tempo" penso intanto che li ascolto spazientito e guido "pensare che quando si sono trovati al parcheggio non si conoscevano neppure!" Ma io sono irremovibile: elenco loro tutta una serie di motivi (alcuni palesemente inventati e privi di fondamento a cui io stesso in primis non credo) per i quali saremo "veloci & efficienti". La prima bugia è quella che possiamo contare sul fatto che io conosca già i primi tiri e, soprattutto, che li ricordi. Ma Raffo, che mi conosce da un po’, sa benissimo che sono in grado di arrivare al termine di un itinerario senza essere ancora sicuro se l’abbia già fatto o meno. Quindi c’è poco da contare sulla mia memoria, e glielo ricorderò già al momento di trovare l’attacco corretto.

Ma i dubbi più forti, tali da togliermi il sonno, mi si erano già presentati la sera prima, quando lui aveva iniziato a mandare messaggi del tipo "ma siamo proprio sicuri-sicuri?", "è troppo lunga, più della Formica" (ndr altra perla per amanti del "mixte ravanage" che qualche anno fa avevamo salito su quella parete) e "le giornate troppo corte" fino al "e se invece facessimo questa?", subito gelato da un mio "già fatta, mi spiace!"

A quel punto anch’io, fiducioso di Jessica (almeno una volta riuscito a trascinarla con l’inganno alla base della via) ma soprattutto certo delle capacità indiscusse di Raffo e, in ultima analisi, "abbastanza fiducioso di me", inizio a dubitare in primis del sottoscritto, fino ad arrivare poi all’intera (balzana) idea.

Ma poi, contro ogni mia più fosca previsione, decidiamo di rimanere sul progetto iniziale. Forse sono le mie bugie, a cui finisco io stesso per credere, forse perché in auto Raffo inizia a sospettare che in realtà Jessica sia la più forte del gruppo e che sarà lei a trascinarci in vetta, forse perché Jessica si fida un minimo di me e certamente cinque minuti di conoscenza le sono bastati per decidere che Raffo è certamente la persona più affidabile del team. Insomma, alla fine forse perché ognuno di noi fa affidamento su qualcun altro e grazie anche allo sbatti che ci è voluto per preparare il materiale la sera prima e per alzarsi presto (sarebbe un grosso spreco ripiegare su una via plaisir) alla fine ci ritroviamo al parcheggio che ognuno sta preparando il materiale per la Ragni. Anziché i soli 12 rinvii necessari per andare a seguire lucenti spit.

C’ è stato un periodo che per me e altri soci, tra cui Raffo, il Medale era davvero la parete in cui ci sentivamo a casa. Tanto che il viaggio si è riempito, per Jessica (che non ci ha mai scalato), dei nostri racconti degli aneddoti più divertenti che qui abbiamo vissuto. Quando Raffo era sul tiro duro della Milano ’68 e io risposi al telefono alla chiamata della mia ragazza di allora e, poco dopo, il telefono cadde per oltre 300 metri nei boschetti sottostanti. O, sempre sulla Milano, di quando ruppi il porta materiale volando nel passare dall’artificiale alla libera a causa del cordino della staffa cui era collegato. O dell’uscita alla luce della frontale lungo l’ultimo tiro della Bianchi dopo "aver visto i sorci verdi" sulla Formica dove a Raffo erano rimasti in mano moncherini arruginiti di vecchi chiodi artigianali, rottisi sotto i suoi 55 chili scarsi, peso della staffa compreso (sic!).

Fa impressione pensare che su una parete così vicina alla civiltà di una grande città lombarda si possa vivere un ingaggio che, a quel tempo, quello in cui se lui non aveva la macchina dei suoi ci andavamo in scooter, ci sembrava abbastanza notevole! Ricordo bene come sulla ripidissima strada cementata sopra Rancio dovevo prendere la traiettoria perfetta del tornante per evitare che il povero cinquantino si impiantasse: su quella pendenza e con gli zaini stracarichi, saremmo certamente finiti a terra tutti e tre: io, lui e e zaini e scooter a schiacciarci…

La via

Con le frontali iniziamo l’avvicinamento e arriviamo nei pressi dell’attacco all’orario preventivato, poco dopo l’alba. Qui perdiamo un po’ di tempo, la mia memoria come mi aspettavo vacilla. Ma anche Raffo, che aveva già fatto un tentativo in passato e si era calato sulle soste di un vecchio progetto, brancola alla base senza sapere bene dove attaccare. Si è deciso infatti che lui farà la parte bassa, in modo che i due tiri incognita in alto rimangano a me. Del resto li ho trascinati io qui e sono io che ho il conto in sospeso. Lui è attratto da un pilastrino appoggiato compatto, ma poi io indovino la scaglia del terzo tiro, il primo da fare con un po’ di artif, più a sinistra. Quindi lo costringo a risalire per un pendio di ripida ghiaia e rovi e qualche pilastrino mobile in quella direzione. Lui dopo trenta metri si gira e mi dice sbuffano qualcosa come "Paolo, che post de merda…" ("in cui mi hai portato" avrà proseguito nella sua testa), io posso solo aggiungere di rimando "vai sciallo che poi migliora" ("a tratti" penso tra me e me). Infine raggiunge una sosta, dove ci recupera e a cui io e Jessi arriviamo senza mettere le scarpette per evitare di riempircele di ghiaia. Poi con un altro tiro erboso dove almeno si arrampica arriva alla base del primo tiro un po’ impegnativo, che ben ricordo: traversino verso sx in A0, fessurino che muore, traverso a friends sotto una scaglia (che sembra instabile ma regge) e uscita a un terrazzino di sosta. Teleguidato dalle mie dritte su dove si trovano i chiodi nascosti dai ciuffi d’erba in breve esce. Da lì riesce a unire i due tiri successivi: il traverso su zolle, il diedro difeso da un cespuglio pungente di Rosa Canina (in cui Jessi, stoica, si tuffa in pieno) e la bellissima placca a gocce successiva (a tratti qualche pezzo di roccia esaltante c’è…visto?). A quel punto mi chiede se voglio dargli il cambio, ma io, che è da quando sono partito che penso al tiro successivo, a cui io e Alessandro rinunciammo durante il nostro tentativo, declino dicendogli "il prossimo, tanto questo è facile, V+ sostenuto". Dimenticandomi che è il tiro dove, dietro di noi, Stefanino (ndr Valsecchi, gestore del rifugio Azzoni) assicurato da Francesco volò con in mano un comodino, un tiro davvero non banale, su grossi massi e pilastrini che senti oscillare sotto i piedi. Ma che questa volta sono stati sù. Grazie Stefanino per il lavoro di disgaggio! Eccoci alla famosa sosta in comune con la Boga, di qui le vie sono due: Ragni a dx e "fuga da conigli" sulla Boga a sx (fa ridere parlare di una via ravanosa e alpinistica come la Boga come se fosse una via di uscita plaisir, ma rispetto alla Ragni è proprio così).

Guardo il famoso passaggio: la scaglia su cui ci si alza in piedi, le canne di roccia porosa e "sbriciolevole" (termine appena inventato per definire certe zone del Medale) e, in alto, i chiodi. Tra le canne un friend o due forse ci stanno ma bisogna verificare. Sopra la scaglia trovo un chiodo che non ricordavo, lo passo consapevole che appena mi sarò alzato non basterà a evitare di prendere la scaglia in c—o in caso di caduta. Ma per fortuna i friend che ho con me nelle canne ci stanno perfettamente, e stavolta queste sono anche asciutte. Con un passo in strapiombo raggiungo i due chiodi uniti da cordini, qui la tensione si rilascia e li tiro. A quel punto capisco cosa intendeva la relazione: un chiodo in alto permette di passare la corda e alla mia destra ma più in basso parte un diedro chiodato, al di là di uno spigolo. Una traversata a corda in discesa in pratica, dove all’ultimo passaggio rischi di farti abbastanza metri di pendolo per finire ancora sulla scaglia sopracitata. Rapidamente valuto come gestire le due corde: traverserò in tensione su quella di Jessica, passando poi nei moschettoni bassi e nel diedro solo quella di Raffo, sganciando poi i primi per evitare attriti. In questo modo con un pendolo indolore Jessica dovrebbe trovarsi già a un quarto di diedro, evitando di dover scalare in discesa. Ottima strategia, ci vuole solo un po’ di pelo sullo stomaco nel salire agganciando i vecchio chiodi e sganciando man mano quelli sotto.
È difficile dire da quanto penso a questo passaggio. Si certo, nel mezzo, ci sono stati tanti altri progetti, tante altre attività oltre alla roccia. Però quella mia foto di Stefanino a dx sulla nostra via, e io che fuggo sulla Boga a sx, ce l’ho sempre avuta in mente, insieme alla certezza che, dopotutto, con un po’ di decisione si passava! Stefanino, giovane impavido da quella sosta, benché il passo fosse un po’ bagnato e il cordino non raggiungibile in quanto era stato spinto in alto dal vento, strinse la chiappe e passò. Io, timoroso di quella scaglia sotto la schiena, lo annusai e dissi ad Ale "vuoi provarlo tu?". Lui pure declinò ed eccomi qui, sette anni dopo. Era tardi anche quella volta, benché le ore di luce fossero molte di più (tant’è che a casa, dopo alcuni giorni, trovammo le bolle dei fiori di marzo dell’erba malefica). Stavolta conoscendo la via, conoscendo quali tiri unire e quali no, siamo stati anche in tre molto più rapidi. Ma il tiro non finisce lì, a un tratto i chiodi finiscono e non è chiaro dove uscire. Entro in un canalino marcio che poi diventa caminetto e mi conduce a un ballatoio, due chiodi lontani da collegare che io rinforzo a friend faranno da sosta. Ci ho messo un’infinità, se anche il prossimo è così l’uscita con la frontale è cosa certa. Viene dato, da relazione, di 60 metri con difficoltà in artif e per giunta in traverso, salgo senza proteggere un diedro marcio, arrivo al chiodo in alto e lì inizio una traversata sullo spigolo di un tettino con staffa e fifi. Sono "nella bolla" ormai, rinvio, fifi, staffa rinvio, fifi… come un’ autonoma sono entrato nel mood di salire caricando i chiodi il meno possibile e cercando al contempo la massima pulizia ed efficienza del gesto artificioso. Finite le difficoltà risalgo un diedro erboso marcio e continuo a traversare verso destra su toppe d’erba strapiombanti (sì, possono esistere, ve lo assicuro!) con la corda che fatica a venire. Nel panico per la sosta che non vedo trovo una clessidra in cui ci metto mezz’ora a passare un cordino, aiutandomi con il becco del martello, poi, mi abbasso cercando a caso e poi individuando la sosta a spit di Falce&Martello, la nostra via di fuga verso il basso. Mi distruggo le braccia a recuperare la corda causa attrito e, piano piano, arrivano i compagni. Guardiamo su. Vediamo un canale di uscita molto lontano a sx ingombro di rovi, ma sappiamo che il nostro dovrebbe essere ancora più a sx. Almeno ancora tre tiri da cinquanta in mezzo ai rovi e ai volumi precari.

Ne vale la pena?

Chi può dirlo. Siamo stati veloci ma le giornate sono davvero corte. Sotto di noi le soste (speriamo ben attrezzate) della via moderna ci attraggono. Chi lo sa quanto ci si può mettere a fare tre tiri strisciando e aprendosi la strada tra i rovi, con ancora un passo di V+? Il morale del team è buono ma ne abbiamo anche le palle piene di lottare con la vegetazione e smuovere volumi precari, le difficoltà sono finite, da qui in poi si tratterà di non uscire escoriati dalle spine o di non fare voli a cavallo di frigoriferi.

Ci caliamo. Cinque doppie belle filanti in cui sostituiamo ad ogni sosta il cordino che collega i due spit. Per me dopotutto questa via era questo tiro, anzi quel passaggio. Poi iniziato l’artif, in un modo o nell’altro si passa sempre. Un po’ mi spiace, sarebbe stato bello chiudere in cima, ma i miei compagni già hanno fatto tanto non mandandomi a cagare stamattina o ieri sera e accettando la sfida. Se poi non potrò dire di aver fatto la Ragni fino in vetta, amen, potrò dire di essermi divertito come un bambino, con due amici, su un terreno per nulla divertente..

Quanto a quegli ultimi maledetti tre tiri… Beh, chi vuole venire a fare una combinazione insolita, che non fa mai nessuno, in Medale?

La "BOGAGNI".
Normale Dotazione Alpinistica: pantaloni già stracciati, guanti da giardiniere, falcetto, seghetto e capacità di camminare sulle uova senza fare la frittata. Dopo la fine di febbraio anche crema al cortisone contro le bolle della ruta. Piano piano, uno alla volta… ahahaah

Nota finale:
La via dei Ragni è la via più lunga del Medale, è stata aperta in due giorni con bivacco (sopra l’enorme tetto della Panzeri) da Guerino Cariboni e Casimiro Ferrari il 31 marzo-1 aprile ’68. Impiegarono 21 ore. La prima solitaria della Ragni completa è di Fabio Valsesichini e non, come riportato erroneamente in alcune guide, ad Antonio Taglialegne neI ’92 che salì solo la prima parte (fonte Ivo Ferrari). La terza ripetizione, non è chiaro in che anni, è di Paolo Vitali e G. Galeazzi, con alcune varianti. I numeri, come spesso accade in questi casi, trasmettono poco; V+ e A2 oppure 6b e A2… (oppure, chissenefrega, aggiungo io). In apertura vennero usati 130 chiodi, di cui 30 lasciati. I chiodi in posto oggi sono sufficienti, così come la gran parte delle soste. Nel complesso è una via che consiglierei, ma solo ai nemici.

Scherzi a parte, se cercate una bella avventura fuori casa e vi piace portarvi appresso martello e chiodi, la via non è così drammatica e tutto sommato, meno continua della via Formica come difficoltà ed esposizione. Ma più della Boga. Richiede la capacità di essere delicati su terreno precario e di saper gestire le corde in maniera accorta. La discesa da Falce è una buona opzione, non dimentichiamoci però che siamo in una zona di parete soggetta a caduta sassi, mentre eravamo all’attacco qualche confetto è caduto lungo la Boga e in via un paio di blocchi li abbiamo involontariamente disgaggiati. Le soste di Falce sono comunque quasi tutte posizionate in posti abbastanza riparati.

In conclusione
Qual è il senso di questo racconto di una domenica di alpinisti della domenica e pure un po’ prolisso? Senza dubbio nessuno. Tuttavia… ripeto sempre ai miei compagni che io amo di più "ritirarmi dalle vie piuttosto che concluderle" e loro mi deridono per questa cosa. È il mio modo per dire che non ho mai amato troppo programmare nel dettaglio una salita in modo scientifico, preferisco scoprir le informazioni sul campo invece che raccoglierne troppe prima, a casa. Dell’alpinismo mi piace l’incertezza che genera la necessità e sviluppa la capacità di prendere decisioni in situazioni di carenza di informazioni complete. E la giusta dose di incertezza è quella che dà sapore ai miei weekend. La ragione d’essere di un obiettivo alpinistico è, credo, una domanda che soggiace a un bisogno. Il bisogno di tornare a quella parte istintuale della natura del nostro essere e di riappropriarci di un contatto più diretto e carnale, privo di tanti filtri, con l’ambiente che abitiamo. E il partire è la volontà di dare una riposta a quella domanda, a quel bisogno. Amo "apprendere" dalla parete, e trovo che si apprende sempre molto di più da una ritirata che ha dato delle risposte a delle Incognite, piuttosto che da una via conclusa su cui, già all’attacco, si avevano solo certezze. Certezze che sarebbe stata "in condizioni", certezze che era "alla nostra portata", certezze su "dove passare", etc…etc.

Viviamo una quotidianità in cui cerchiamo ogni giorno di distruggere l’incertezza a favore di un’utopica sicurezza totale irraggiungibile. Almeno nel weekend lasciamoci tentare, mentre ci abbeveriamo al calice della libertà, dal gusto agro dell’incertezza. Per sentirci realmente vivi e padroni delle nostre scelte.

di Paolo Grisa




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