I Condor di Lecco, la storia del gruppo alpinistico lecchese di Don Agostino
Lecco è circondata dalle montagne, con le pareti verticali che incombono sui rioni periferici. Pochi minuti in auto (ma anche bici o motorino) dal centro, rumoroso e trafficato come si conviene ad una operosa città lombarda, e ci si immerge in un mondo parallelo. Boschi intricati, stretti canali, pendii scoscesi che presto si infrangono contro le prime rocce.
Lecco è la città del ferro, con mille officine e qualche grande stabilimento (almeno, un tempo era così). Lecco è terra di rocciatori, prima che di alpinisti, a partire dalle prime generazioni di scalatori operai, con grinta inversamente proporzionale ai mezzi a disposizione. A loro bastava uscire di casa ed avviarsi su per la Val Calolden, la porta per i Piani dei Resinelli e la Grigna, oppure, con una manciata di minuti, raggiungere la grande parete della Medale, dove il tempo è scandito dai rintocchi delle campane o dalle sirene delle fabbriche. Giovani allenati dalle lunghissime giornate di lavoro, in grado di costruirsi da soli i chiodi per le scalate domenicali.
A Lecco, negli anni ’30 si formano cordate in grado di risolvere i maggiori problemi alpinistici dell’epoca, indifferentemente sul calcare delle Dolomiti o il granito del Màsino e del Bianco. Riccardo Cassin, Vittorio Ratti, Germano Gigi Vitali, Mario Dell’Oro (il Boga), Alfredo Colombo ed Ercole Esposito (il Ruchin) di Calolziocorte, Giovanni Gandini, e un bel po’ di altri fuoriclasse.
A Lecco i ragazzini hanno sempre scalato… La leggenda narra che le donne di Rancio (uno dei rioni collinari), vedendo passare un giovanissimo Casimiro Miro Ferrari o il Carlo Mauri Bigio verso la Medale, li apostrofassero non con un prevedibile “Dove andate? Lo sanno le vostre mamme?”, ma con un più pragmatico “ce l’avete corda e moschettoni ?” E il Dino Piazza, una delle colonne dei Ragni, diceva che siccome da quelle parti non ci sono spazi in piano per fare un campo da pallone, si andava a scalare…
Nel 1974, l’anno del Cerro Torre per il Miro, Ciapìn, Zenìn e Pino (Casimiro Ferrari, Daniele Chiappa, Mario Conti e Giuseppe Negri) della leggendaria spedizione dei Ragni, a Lecco succede qualcosa di nuovo: nasce un Gruppo di scalatori, con tanto di maglione come usava all’epoca. Rigorosamente rosso, con le bande grigie sulla manica sinistra e il distintivo; casualmente simile ad altri, più famosi maglioni. La cosa singolare è che l’età media è intorno ai 13 anni. A parte il capo, un sacerdote ed educatore alla Scuola Media del Collegio Arcivescovile Alessandro Volta di Lecco, temutissimo bomber nelle partite di calcio durante l’intervallo. Sono i Condor di Lecco, ispirati al rapace patagonico, simbolo di montagne e di libertà.
Strane alchimie si formato talvolta... Un prete con la passione per la scalata (tra l’altro: arrampicava davvero bene. Viene da dire che “scalava da Dio”), intuisce che l’arrampicata può essere un mezzo di crescita per i ragazzi. Amicizia, rispetto per l’altro, presa di coscienza della meraviglia della Natura, darsi una mano a vicenda. In sintesi: crescere insieme (anche) arrampicando. Molto semplice!
Infatti si arrampica, e tanto. Lo schema, all’inizio, era questo: partenza in quattro più il pilota sulla terribile Prinz NSU verde, la macchina saponetta; una via ai Magnaghi, al Sigaro, all’Angelina (Grignetta), con il Don in testa e due ragazzini di 12 o 13 anni. Gli altri aspettavano sotto. Poi, giù ai Resinelli, al Nibbio, per portare il resto della squadra sullo Spigolo o la “Via dei Ciuc”. La domenica mattina il Don diceva Messa, poi ci aspettava fuori dal Collegio, già con gli scarponi ai piedi. Non era una sorta di oratorio verticale, ma il Don era comunque un prete, e certe cose te le diceva lo stesso, a modo suo, con le parole e con i fatti. Semplicissimo! Poi ognuno ha scelto il suo percorso, senza condizionamenti.
Nel frattempo, il Don indirizza il suo gruppo (all’inizio una manciata di monelli) ad iscriversi al Corso di Alpinismo Attilo Piacco della sezione di Valmadrera del C.A.I. che ci accoglie con grande simpatia.
L’interesse per la faccenda cresce, ma le uscite in Grigna o in Medale (dove il Don portava a turno i ragazzi sulla Cassin, una signora via di 350 metri circa, con diversi tiri di IV+/V-) non sono semplici da gestire. E poi al Don piace fare esperimenti. Serve un terreno nuovo, possibilmente a portata di mano.
Febbraio 1975, c’è in giro un sacco di neve, quindi niente Grigna o Nibbio; inoltre le giornate sono troppo corte per la Medale. Qualcosa però bisogna fare. La Prinz, un po’ raffreddata, ci porta in Valsassina, dove il Don infila una stradina sterrata appena prima del ponte sul Pioverna, in una strettoia della Valle detta “La Chiusa della Valsassina”. Dopo poche decine di metri sbarchiamo e il Don ci indica la parete rocciosa, verticale e liscia, che si alza immediatamente sopra la strada. Sulla destra c’è una linea di chiodi a pressione. Dagli zaini spuntano corde e moschettoni, poi a turno facciamo quei 20 metri con le staffe, tanto per scaldarci… e per curiosare la parte superiore della parete più da vicino! ( “La storia dei CONDOR di Lecco”. Pietro Corti, Collegio Volta 2006).
Da quella prima visita al Sasso, così per gioco, il Don e i suoi ragazzi iniziano ad esplorare queste paretine a pochi minuti dalla strada, aprendo (sempre rigorosamente dal basso) decine di vie nuove con chiodi tradizionali sulla Placca Condor, il Sasso di Introbio, la Pala Condor e i Pilastrini, la Rocca di Baiedo. Si tratta si itinerari di due, tre tiri di corda (alla Rocca qualcosina in più), ma lo stile non stonerebbe in Dolomiti. Vere Avventure, anche se a misura di ragazzino.
L’effetto su di noi era fortissimo, nonostante l’ambiente rassicurante: piantare un chiodo nella roccia vergine, progredire cercandosi la via (talvolta si andava anche da primi, “ravanando” per conto proprio), o anche solo partecipare come secondi di cordata, faceva assaporare la sensazione di muoversi sul terreno ignoto. “Mai toccato da mano umana”, amava dire il Don. Che poi si calava sulle vie per pulirle dall’erba e dai sassi, all’occorrenza aggiungendo un chiodo. Chi sarebbe venuto a ripeterle, doveva godersele! I risultati non si fanno attendere. Poi è arrivato il Guerini a “liberare” le vie del Sasso, e poi ancora il Marco Ballerini, uno dei pionieri dell’arrampicata sportiva italiana, fortissimo alpinista e raffinato scalatore. Marco (1981 o giù di lì) si cala di fianco al primo tiro della Francesca al Sasso e chioda dall’alto, totalmente indifferente alle critiche dei classiconi, incapaci di staccare le suole da terra sui suoi tiri, Oltre il Tramonto, il primo itinerario di arrampicata sportiva nel lecchese. Col tempo queste vie, fin da subito frequentatissime, sono state richiodate a fix o resinati, e il Sasso si è trasformato in una falesia di arrampicata sportiva. Il Don osservava, e volava alto….
C’era anche lo Zucco dell’Angelone, sopra Barzio in Valsassina. Il Don, con un potente canocchiale da portaerei appoggiato sul tettuccio della Prinz, spiaggiata a lato della strada, individua una linea sulle gobbe rocciose nel bosco, puntando alla vetta (in omaggio alla tradizione…). Un giorno di novembre del 1978, Don Agostino e Fabio Secchi, seguiti a ruota da Pietro Corti e Stefano Bolis, aprono Condorpass, la prima via dell’Angelone. Un festival di buchi e lame, e qualche raccordo vegetale. In seguito i Condor restano giù in valle a trafficare, e all’Angelone arrivano i milanesi (Andrea Gigante Savonitto, Ivan Guerini & C.).
Qualche settimana dopo le prime visite al Sasso (e la prima via nuova) compare il giornalino dei Condor "PRIMO PIU’ - PERIODICO DEI CONDOR E AMICI - Esce quando vuole e quando puo’ (Numero 1: 1975)". Già dal titolo incominciamo col dichiarare che i Condor si muovono oltre i sentieri, dal “Primo grado” in su. Poi si vedrà! Il giornalino sarà per tanti anni un puntuale diario di bordo, che registra la vita del Gruppo (c’è perfino una rubrica che commenta le vicende scolastiche, spesso disastrose, e quelle amorose, altrettanto burrascose, dei giovani Condor). Compaiono anche le relazioni delle numerosissime ripetizioni sulle Grigne, in Medale e via via in Dolomiti, Masino eccetera, con tanto di schizzo e descrizione. In assenza di Internet, e con pochissime guide cartacee sul territorio, queste pagine ciclostilate diventano molto ricercate. Ma, soprattutto, il Primo Più è un testimone di quella fase di transito dall’alpinismo tradizionale, in un momento di radicale rinnovamento iniziato nei primi anni ’70.
Anche a Lecco, dove compaiono i primi cacciatori di pareti senza vetta, Ivan Guerini, Raffaele Lele Dinoia, Daniele Chiappa. Un periodo che i Condor interpretano a modo loro sulle strutture rocciose intorno alla Chiusa della Valsassina, percorrendo nel frattempo anche altre strade: le grandi vie delle Alpi (da segnalare la salita nel 1976, interamente da primo di cordata, da parte del Don con due diciannovenni, della via Cassin alla Cima Ovest di Lavaredo, e il periodo di fuoco di Antonio Peccati Briciola e Marco Ballerini Bàllera), il Free Climbing in Val di Mello, l’arrampicata sportiva… Per anni ci siamo nutriti di bellezza, abbiamo assaporato il movimento sulla roccia, talvolta sperimentando la forza di gravità, abbiamo vissuto la nostra ricerca a prezzo di errori e dubbi. Allargando i nostri orizzonti.
“Mi è stato chiesto più volte se esiste ancora il Gruppo Condor. Io rispondo più o meno così: noi siamo sì un gruppo …. ma siamo soprattutto un’idea…. (Don Agostino; dal docufilm CONDOR di Elia Balloni)
di Pietro Corti
Condor, Don Agostino e i suoi ragazzi di Elia Balloni
Il documentario sul gruppo Condor di Lecco nasce dalla combinazione di due bisogni: il mio di trovare una storia per la scuola di cinema che stavo frequentando in quel periodo e quello di Marco Corti di trasmettere un pezzo della sua vita, la storia dei Condor. Un giorno, in una palestra di arrampicata di Lecco, gli chiesi se conoscesse qualche storia di alpinismo lecchese che avrei potuto raccontare in un documentario. Marco non ci pensò nemmeno un secondo e mi disse: "Ci penso io". Così iniziò un anno di incontri, riflessioni, discussioni per cercare di rendere giustizia a una storia piccola e delicata, una perla lecchese che si coglie pienamente solo lasciandosi andare alla nostalgia dell'epoca dei sogni: la gioventù.
Per poter raccontare i Condor, dovevo innanzitutto conoscerli. Come prima cosa, quindi, mi sono informato e avvicinato alla loro storia leggendo il libro di Pietro Corti, in seguito ho conosciuto Don Agostino, fondatore del gruppo, e alcuni ex ragazzi che ne hanno fatto parte. Il libro, come dicevo, è stato il principio; illuminante per capire il loro stile. Raccoglie una serie di racconti ripresi dai numeri del giornalino “Primo più”, ideato e redatto nel collegio A. Volta da Don Agostino. Tutti accompagnati da splendide diapositive, narrano le avventure, con la A maiuscola, che il Don affrontava con i suoi ragazzi.
La bellezza e il carattere narrativo di quelle foto mi hanno spinto a farne un uso massiccio nel mio filmato, selezionandole tra le centinaia nascoste negli armadi del collegio. La storia dei Condor andava trasmessa soprattutto con fermi immagine, che dessero la sensazione di cari ricordi a cui ripensare. La nostalgia fa parte di questo racconto, la si intravede persino negli occhi di Don Agostino quando rivive il passato. Questo sentimento che unisce gioia e tristezza è dovuto al fatto che la storia dei Condor è una perla unica, non replicabile. Dopo aver raccolto le testimonianze fondamentali del gruppo e aver fatto delle riprese di introduzione e della ripetizione della via più significativa, “La Solitudine”, aperta dai Condor alla Rocca di Baiedo, si è posto davanti a me un grande quesito: come utilizzare tutto il materiale narrativo raccolto? In pratica, come montare il filmato?
Avevo a disposizione delle riprese dal vero/vivo, i racconti dei protagonisti e tantissime diapositive da scansionare e selezionare, qualche volta da restaurare un poco. Ho montato il filmato in una stanza, piccola e un po' isolata dal resto della casa e dal mondo. Perfetta: finestra sul bosco, suono leggero di un ruscello, l'isolamento. In quel luogo guardavo il materiale più volte e scrivevo, riassumevo e catalogavo i discorsi per tematiche, sia in digitale che su un quadernino. Dopo un po' mi sono reso conto che lavoravo meglio su carta. Spostavo i discorsi con frecce e asterischi, li mescolavo tra loro, combinavo le frasi unendo parole e ricordi di persone diverse. Giocavo con le registrazioni per creare un discorso che fosse mio, un punto di vista personale sulla storia. Mentre cercavo di dipanare la matassa, tentavo anche di capire come poter accompagnare musicalmente il racconto. Non volevo qualcosa di già pronto. Desideravo che qualcuno si prendesse cura del filmato da questo punto di vista, che ci mettesse il cuore, proprio come me.
Ancora una volta mi viene in aiuto Marco, che mi fa conoscere Flavio, un ragazzo di origini umbre, trasferitosi al nord come il sottoscritto. Insieme a Flavio abbiamo trascorso intere serate alla ricerca di una musicalità che ci sembrasse adatta: io cercavo di capire cosa volessi musicalmente e lui mi guidava in questo mondo articolato e difficile che è la musica. Le note dovevano raccontare, come le immagini, l'unicità della storia, il ricordo, la gioia dei giorni trascorsi insieme, l'avventura. Io chiedevo questo e Flavio traduceva in melodia. Quando ormai il racconto aveva un corpo e una musica iniziai a farlo vedere a professori e amici. Venne fuori che mancava qualcosa, una contestualizzazione(storica?) del racconto.
Mantenendo lo stesso stile del filmato, pensai di inserire all’inizio del documentario una sequenza di foto e immagini che aiutassero a delineare e raccontare il periodo storico dal punto di vista alpinistico. L'introduzione non solo sottolinea quanto l'alpinismo avesse una grande importanza sociale all'epoca, soprattutto per Lecco, città culla per alpinisti di fama internazionale, ma anche quanto fosse visto come un’attività per uomini temerari, eroi che sfidavano la morte nelle imprese più sensazionali; non certo per bambini.
Don Agostino e i suoi ragazzi sono stati figli e artefici del cambiamento del modo di vedere e intendere la montagna e l'alpinismo da parte dei giovani, influenze americane, dai sassisti della Valle dell'Orco, dalla vicina val di Mello. I Condor hanno partecipato, nel loro piccolo, al cambiamento dell'alpinismo italiano. Una storia come la loro non c’era mai stata e forse non ci sarà più. Sono felice di averla conosciuta, sono onorato di averla raccontata.