Everest 2019. Una riflessione. Di Manuel Lugli
Come possiamo leggere, o meglio, riflettere sui fatti avvenuti nelle scorse settimane all’Everest, senza usare i soliti luoghi comuni o, peggio le banalizzazioni della stampa generalista che, come sempre in presenza di disastri, si è occupata assai del tema? Non è per niente facile. Una discussione approfondita sull’argomento coinvolge campi quali l’etologia, la sociologia, la psicologia, l’economia, la medicina, l’ecologia, la spiritualità. Insomma molti ambiti tra loro diversi ma spesso strettamente interconnessi.
Senza alcuna pretesa di trovare risposte definitive, mi piacerebbe provare più semplicemente ad allargare la riflessione confrontando tre montagne che condividono senza ombra di dubbio lo stesso enorme potere simbolico: Everest, Mount Vinson e Monte Bianco. Esse non solo costituiscono dei simboli, ma, soprattutto negli ultimi anni, si sono – o meglio sono state - “caricate” delle stesse problematiche.
Perché queste montagne sono simboli? Un simbolo è un elemento, animato o inanimato, a cui si attribuisce la possibilità di evocare o significare un valore ulteriore, più ampio e astratto rispetto a quello che normalmente rappresenta. L’Everest già di per sé simboleggia, per nepalesi e tibetani, una divinità: Sagarmatha e Chomolongma, la dea madre della Terra. Per noi occidentali, molto meno sensibili a certa spiritualità, diventa semplicemente la montagna più alta della terra, un luogo elevato da raggiungere per sublimare le proprie aspirazioni e velleità alpinistiche, sportive o di vita. Salire l’Everest diventa una sfida alle leggi della fisiologia umana e una sfida psicologica alle proprie paure e debolezze. Accettare questa sfida non credo sia sbagliato di per sé, anzi: senza la curiosità, il desiderio di vedere oltre l’orizzonte, il coraggio di affrontare l’avventura - ad ventura, le cose che (av)verranno – l’uomo non si sarebbe evoluto.
Quel che diventa invece profondamente sbagliato, è la distorsione che si crea del concetto di sfida e di avventura: l’Everest è una montagna altissima, difficile e pericolosa, checché se ne dica e legga nelle cronache generaliste o sia “passato” presso il grande pubblico. E’, e rimane, una montagna per alpinisti esperti e preparati, con l’aggravante dell’altissima quota. Questa distorsione non è cosa recente, non è nata quest’anno e nemmeno dieci anni fa, ma si potrebbe far risalire alla fine degli anni ottanta o agli inizi dei novanta, quando le prime agenzie internazionali (per lo più anglosassoni) cominciano a offrire la salita della montagna più alta del mondo con pacchetti tutto-compreso, fatti di permessi, guida, sherpa d’alta quota, ossigeno, attrezzatura varia. Pacchetti carissimi, alla portata di pochi facoltosi. Nascono così le famose – poi famigerate - spedizioni commerciali; in apparenza nulla di male, non fosse che i costi organizzativi altissimi e le esigenze di far quadrare i conti, oltre a una buona dose di occidentalissimo senso di onnipotenza, costringono gli organizzatori a non andare troppo per il sottile nella selezione dei clienti, che diventano sempre meno alpinisti e sempre più wannabee: giornalisti, ricchi uomini d’affari, modelle, tycoons e così via. I meno abbienti si giocano i risparmi di una vita per tentare la salita della vita.
Tutti sono comunque accomunati da una dose generosa di hýbris, quell’accecamento mentale che, come sostenevano i filosofi greci, impedisce all'uomo di riconoscere i propri limiti e di commisurare le proprie forze: chi ha ambizioni troppo elevate e osa oltrepassare il confine posto dagli dei pecca di hýbris e incorre in quella che è il fthònos theòn, l’invidia degli dei. E infatti nel 1996 gli dei si vendicano, provocando uno dei peggiori disastri alpinistici nella storia dell’Everest. Improvvisamente il mondo si accorge che esiste un problema di affollamento e gestione quantomeno azzardata di tempi e modi della salita da parte di tanti alpinisti e di alcune guide. Si vengono a conoscere i primi “cammini sui morti” – gli indiani abbandonati al loro destino sul versante nord della montagna. Stampa e mondo alpinistico gridano allo scandalo, ma alla fine nulla cambia.
Nel 2003, anno del cinquantenario della prima salita, nonostante l’enorme affollamento, miracolosamente non si verificano disastri. Sicuramente merito anche del netto miglioramento nell’affidabilità delle previsioni meteo. Ma già nel 2014 e nel 2015, tra valanghe e terremoto, i morti tornano a essere in numeri a due cifre.
Con gli anni le agenzie di guide himalayane occidentali aumentano progressivamente di numero e così i loro clienti. Ma è negli ultimi otto-dieci anni che un ulteriore cambiamento comincia a far sentire il suo peso: nascono e si moltiplicano le agenzie nepalesi che si pongono in diretta concorrenza con quelle occidentali, offrendo servizi a prezzi molto più bassi, quando non dimezzati. Se da una parte l’aumento del numero di agenzie nepalesi rappresenta un legittimo e inevitabile fenomeno che allarga non poco il benessere locale, dall’altro mette in gioco operatori a volte improvvisati e non abbastanza esperti – essere sherpa non significa automaticamente essere efficienti organizzatori o brave guide – quando non decisamente scadenti. Il tutto con esiti drammatici per l’efficienza e la sicurezza dei clienti: attrezzature vecchie, bombole d’ossigeno e maschere inefficienti, assistenza approssimativa. A volte lo stesso atteggiamento degli sherpa assume i peggiori caratteri occidentali, si pensi all’incidente che ha visto coinvolti Moro e Steck nella primavera 2013. Alcune agenzie occidentali per contro s’inventano l’Everest “flash expedition”, programma buono per chi non ha troppo tempo da perdere – businessmen, managers, capitani d’industria: un mese, contro i cinquanta/sessanta giorni normalmente necessari, con acclimatamento in tende ipossiche prima della partenza, in alcuni casi camere ipobariche in bassa quota, ossigeno erogato fino a 8 litri al minuto dal campo 2, giorno e notte e 1,5 (sic!) sherpa per ogni “alpinista”. Un esempio dei costi? 96.000 € per 28 giorni di spedizione Kathmandu-Kathmandu, 3.200 € al giorno, 133 € all’ora.
Di qui a questa primavera 2019, con le file infinite e le attese di ore sotto l’Hillary Step – con buona pace delle spedizioni flash - il passo è breve. Le previsioni meteo, ormai molto accurate e affidabili, giocano addirittura un ruolo negativo; tutti ormai le ricevono e le sfruttano pienamente. Se le (massimo due) finestre di bel tempo durano quei tre-quattro giorni, si può essere certi che tutti, ma veramente tutti saliranno in quel lasso di tempo, con tutte le conseguenze che abbiamo visto le scorse settimane: attese infinite e alpinisti sfiniti.
Ma quale altro luogo può rappresentare la sfida umana alla natura più selvaggia se non l’Antartide? Il Mount Vinson è la vetta più alta del continente antartico, l’unico vero territorio intatto e selvaggio di tutta la Terra. Secondo le informazioni avute da un medico che collabora con l’agenzia ALE (Antarctic Logistics & Expeditions), che ha l’esclusiva della logistica per l’Antartide, nella scorsa estate antartica (dicembre-febbraio) alla base del Vinson sono arrivati oltre cento alpinisti in attesa di tentarne la salita, bloccati peraltro a lungo da un meteo particolarmente inclemente e nevoso. Oltre cinquecento persone sono affluite al campo “di smistamento” dell’agenzia a Union Glacier, per essere distribuite secondo i vari programmi: volo con pernottamento al Polo Sud (64.100 dollari per una settimana di programma totale), sciata di 100 km - l’ultimo grado, 89°-90° - fino al Polo Sud (64.500 dollari per dodici giorni di programma totale) e altre “avventure” simili.
Di nuovo affollamento, di nuovo conformismo dell’estremo, come dice Enrico Camanni, di nuovo l’illusione – supportata dalla virtualizzazione generale delle vite attraverso internet, i canali social e le piattaforme – di un’avventura addomesticata e che tutto sia alla portata di tutti, indipendentemente da esperienza, tecnica e preparazione. Il Vinson come nuovo Everest? Forse non esattamente, anche perché i costi qui sono persino più elevati. Ma certamente per questa montagna, per quest’ambiente, una volta davvero sogno proibito riservato a pochi eletti, questi numeri cominciano a essere significativi. L’Antartide è immensa, le possibilità letteralmente infinite. Ho passato un mese, in gennaio, nella penisola Antartica – o meglio in una minima porzione di essa – navigando in barca a vela, facendo le salite sci-alpinistiche più incredibili della mia vita, in ambiente completamente isolato, solo con i miei pochi compagni di avventura e file di pinguini incuriositi a poche decine di metri. Eppure la “maggioranza” sceglie la molto più costosa omologazione del Vinson, lo smistamento in un campo in cui milionari attrezzati di tutto punto per una notte al Polo Sud da quasi 70.000 dollari, s’incrociano con chi si lancia col paracadute sopra le Ellsworth Mountains (questo è economico: solo 28.775 dollari per una settimana...), in un affastellarsi di momenti adrenalinici fine a se stessi e in una concentrazione temporale assurda di viaggi che spesso non durano più di una settimana. Sono vera avventura queste esperienze fast and furious? O sono solo un suo ennesimo, sfavillante simulacro? Domanda retorica.
Anche il Monte Bianco è un simbolo potente, rappresentando la montagna più alta delle Alpi - e idealmente d’Europa, con buona pace dell’Elbrus. Anch’esso è un luogo in cui mettersi alla prova e realizzare i propri sogni alpinistico-sportivi. E come per l’Everest, la sua salita lungo la via normale francese viene considerata relativamente facile. E’ sempre stata una montagna ambita, ma le cronache estive degli ultimi anni riportano sempre più alpinisti impegnati sui suoi pendii, e purtroppo anche tanti “escursionisti”, poco o mal equipaggiati e ancor meno preparati. Ma il gigante alpino è montagna molto impegnativa, la più himalayana delle Alpi, con un meteo che può diventare selvaggio in breve tempo e crepacci sempre più insidiosi per il riscaldamento globale. Anche per il Monte Bianco quindi aumentano i numeri e crescono gli incidenti. Tanto da venire invocata, come per l’Everest, una regolamentazione severa degli accessi con numero chiuso (per il versante francese è già operativo il sistema di prenotazione obbligatorio dei rifugi) o l’obbligo della guida, con tutte le implicazioni del caso per entrambi i provvedimenti.
Riassumendo. Il conformismo dell’estremo, cito di nuovo l’azzeccata definizione di Camanni, sembra essere la sublimazione di una serie di caratteristiche naturali dell’uomo: aggregazione e omologazione, hybris e super-ego, superficialità e frenesia. Il tutto intensificato da una serie di aggravanti moderne: la banalizzazione globale indotta dai bombardamenti mediatici – pensiamo alle migliaia di video adrenalinici che circolano su internet – provoca una percezione alterata della realtà, rendendola sempre più finta. La perdita di reale contatto umano a favore dell’interazione virtuale, altera anche la valutazione delle proprie capacità personali: l’ego senza un contraltare concreto, “umano”, prevale sulla realtà del fatto che salire l’Everest è molto probabilmente al di là delle proprie capacità, nonostante sherpa, ossigeno e corde fisse.
Come scritto nella premessa, queste brevi riflessioni non cercano risposte definitive o soluzioni, estremamente difficili da trovare, date anche le implicazioni economiche molto importanti.
Non credo ai divieti in generale, men che meno a quelli di salire le montagne, luoghi di libertà per eccellenza. Credo però che un’ “educazione alla montagna” andrebbe portata avanti con ostinazione. Credo che un invito a riflettere più profondamente sul senso dell’avventura e sul come viverla in montagna, debba farsi, per andare più in profondità, per coglierne gli aspetti più veri e non la spettacolarizzazione, il record o addirittura il bizzarro – il sassofono e la mazza da golf in vetta all’Everest, il paracadutismo in Antartide o lo spogliarello in cima al Monte Bianco. Anche per rimarcare il fatto che deve esistere un elitarismo “virtuoso”: non tutto può essere alla portata di tutti, vi sono ambienti ed esperienze che devono rimanere riservati a chi ha le capacità fisiche, psicologiche, tecniche e d’esperienza per affrontarle. Punto.
I media possono avere un ruolo molto importante in questo senso, anche se il contraltare dei canali social, campo aperto e anonimo per i peggiori imbecilli di scrivere di qualsiasi cosa senza minimamente averne competenza, è un duro avversario.
Poi, se siamo qui a scrivere ancora di tutto questo ventitré anni dopo Aria Sottile, non è un bel segno.
Manuel Lugli