Storia dell'Everest, la montagna più alta: il Chomolungma, la Dea madre del mondo
La storia della montagna infinita, il Sagarmatha in Nepalese, Chomolungma in tibetano, l'Everest per tutti gli altri. A 60 anni dalla storica prima salita di Edmund Hillary e Tenzing Norgay del 1953, con i suoi 8848m la montagna più alta della terra continua ad affascinare sempre di più.
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Everest visto dal nord, con il Second Step a circa meta' cresta.
Francesco Tremolada
29 maggio 1953, ore 11,30: a 32 anni dalla prima spedizione inglese del 1921 due uomini, Edmund Hillary e Tenzing Norgay, mettono piede sulla vetta più alta della terra. Finalmente la cima dell'Everest è raggiunta. In quell'istante finisce l'epoca dei pionieri, la montagna è ormai salita e quello che alla fine del 1800 sembrava un assurdo sogno di qualche pazzo alpinista è diventato realtà. Dopo di loro, per chi affronterà il colosso himalayano, nulla potrà essere più come prima. Ma la storia si sa non si ferma, come non si può fermare la voglia di coloro che, per i più svariati motivi, hanno sete di conoscere, esplorare, arrivare. E' un destino scritto, se così si può dire, nel DNA del punto più alto della terra e soprattutto nella testa degli uomini: il suo è, e sarà, un mito eterno. Negli anni successivi all'impresa di Hillary e Tenzing Norgay, quella cima a 8.848 metri d'altezza sarà ininterrottamente meta dei tentativi, dei sogni e delle mire più disparate, fino ad essere, ai nostri giorni, oggetto di un vero 'assalto' e di un sempre crescente interesse. Ma procediamo con ordine, facciamo un passo indietro e torniamo agli inizi.
La 'scoperta' della più alta montagna del mondo.
L'immenso arco montuoso dell'Himalaya esiste da milioni d'anni. E' un'area di circa 2.500 chilometri di lunghezza per 200 chilometri di larghezza occupata da altissime montagne, le più alte che ci siano. Di loro, però, il mondo occidentale fino agli anni a cavallo del metà del XIX secolo sapeva ben poco. Fu solo nel 1830, infatti, che i cartografi inglesi del Survey of India (Ufficio trigonometrico e geodetico dell'India) - che all'inizio del 1800 avevano intrapreso una lunga e difficoltosa campagna, d'esplorazioni e misurazioni, per conoscere e riportare sulle carte geografiche l'intero Sub Continente Indiano - raggiunsero le frontiere del Nepal. Erano arrivati ai bordi di uno degli scrigni del 'tesoro' himalayano. Allora, però, erano molte le difficoltà per accedere a quei territori. I nepalesi, preoccupati di mantenere la propria indipendenza, non ammettevano intrusioni occidentali, soprattutto da parte dei 'colonialisti' inglesi.
Così, operando e continuando le rilevazioni dai territori dell'India, si osservò, a confine tra il Nepal e il Tibet, una montagna altissima che fu indicata nelle mappe con la lettera "b". Successivamente, si era già nel 1854, tutti i rilievi vennero studiati e comparati, e la cima "b" fu rinominata con il toponimo di Peak XV. Dopo due anni di laboriosi calcoli proprio quella montagna risultò la più alta di tutte. Le misurazioni le assegnavano 8.839 metri d'altezza, 258 in più del bellissimo K2 che con 8581 risultava secondo nella speciale classifica 'delle 14 più alte', quelle oltre gli 8000 metri. I topografi inglesi 'ci presero' e furono di una precisione stupefacente. Le misurazioni fatte circa un secolo dopo si sono discostate, infatti, di poco fissando l'altezza a 8848 metri.
Un battesimo sconcertante
I funzionari del Survey of India, per altre montagne mantennero il nome locale, ma questa era una vetta speciale. Così, nonostante fosse chiamata dai tibetani con il bellissimo nome di Chomolungma (Dea Madre del Mondo), il Peak XV si ritrovò ribattezzato con il nome di Everest in onore di Sir George Everest, direttore dal 1830 al 1843 proprio del Survey of India. Per la verità, lo stesso George Everest era stato un convinto assertore della necessità di mantenere e utilizzare i toponimi indigeni. Ma tant'è pur opponendosi non ottenne nulla, e il suo nome, paradossalmente, é universalmente conosciuto proprio come il nome della montagna più alta del mondo. In seguito il tempo ha fatto giustizia ed ora anche Chomolungma, il nome originale, viene sempre più spesso citato ed usato anche dagli occidentali. Ora che la montagna più alta era stata individuata ed aveva un nome, mancava solo chi la salisse. Un'impresa ardua e per l'epoca al limite dell'immaginazione, ma l'alpinismo, allora nel suo periodo d'oro, quello dei pionieri, è nato anche per questo.
I pionieri
Tra la fine del 1800 e gli inizi del 1900, l'alpinismo himalayano muoveva i primi passi. Fino al 1909 l'altezza massima raggiunta dall'uomo erano i 7498 metri, toccati dalla spedizione del Duca degli Abruzzi sul Bride Peak (oggi Chogolisa, 7665 metri) nel Karakorum, per questo l'idea di scalare l'Everest poteva sembrare solo una pazzia. Ma dal momento che una cosa ai più per definizione sembra irraggiungibile per altri, invece, diventa un’attrazione irrinunciabile. Così l'impresa comincia a frullare nella testa di alcuni alpinisti ed esploratori, soprattutto inglesi. Tra i più attivi: il giovane capitano dell'esercito Charles Granville Bruce, forse il primo nel 1893 a parlare esplicitamente dell'ascensione, Cecil Rawling, John Baptist, Lucius Noel e Francis Younghusband. I primi tre erano letteralmente affascinati dall'idea di tentare la scalata alla cima della terra, dopo averla vista nel corso delle esplorazioni dell'Himalaya.
Fino al 1919, però, non se ne fece niente, o quasi. Le difficoltà politiche per ottenere l'accesso al territorio dell'Everest prima, poi lo scoppio della prima guerra mondiale resero impossibile ogni progetto. Nel 1919, appunto, la Royal Geographical Society cominciò ad interessarsi nuovamente del problema e nel 1920 il suo Presidente, quello stesso Sir Francis Younghusband che era stato uno dei primi ad interessarsi all'impresa, con l'Alpine Club, cominciò ad organizzare il tutto.
Prendeva il via l'epopea dell'Everest. La Gran Bretagna si era ufficialmente impegnata e la salita all'Everest era diventata un 'affare' nazionale. Gli inglesi dopo aver 'perso' la corsa al Polo Sud e al Polo Nord volevano arrivare per primi in vetta al Terzo Polo, quello della massima altezza terrestre.
Va detto subito, per inquadrare compiutamente la situazione e la portata del progetto, che queste prime spedizioni dovevano affrontare problemi tecnici e logistici immensi e pieni d'incognite. Si pensi, ad esempio, che i primi esploratori affrontavano quelle quote - definite poi come 'zona della morte' - con giacche di tweed, cardigan, calzettoni di lana, strati di maglioni e normali scarponi. Tanto che George Bernard Shaw, dopo aver visto alcune fotografie di quelle spedizioni, ebbe efficacemente a dire che la scena gli ricordava “Un picnic interrotto da una bufera di neve”.
Altro tema importantissimo era quello dell'uso o meno dell'ossigeno supplementare in alta quota. Già da allora s'iniziò a discutere sulla sua necessità e soprattutto sugli aspetti etici che tale uso comportava. Questo sarà uno degli argomenti di discussione che accompagneranno, fino i nostri giorni, tutte le spedizioni.
Le prime spedizioni britanniche
1921. Finalmente partiva la prima spedizione, composta da geografi ed alpinisti, con l'obiettivo di effettuare una ricognizione nella zona dell'Everest e trovare la strada migliore per la vetta. Allora l'accesso alla montagna, con il permesso del Dalai Lama, era limitato, solo al versante nord, quello tibetano, poiché il Nepal ancora negava l'accesso da sud.
Tra gli altri faceva parte della spedizione, al comando del tenente colonnello C.K. Howard-Bury, l'alpinista George Mallory che come vedremo resterà legato in modo indissolubile alla montagna. Proprio Mallory e Bullock individuarono, in questa prima esplorazione, la strada del Colle Nord dal Ghiacciaio Orientale di Rongbuk, che sarà poi quella più seguita dalle spedizioni per il versante Nord.
1922. Trovata la strada, l'anno dopo, è la volta di una nuova spedizione diretta dal generale C.G. Bruce. La squadra alpinistica è molto forte e annovera tra le sue file figure di primissimo piano tra le quali si distinguono i nomi di G. Ingle Finch, E. F. Norton, T.H. Somervell ed, ancora, di George Mallory. Finch e Geoffrey Bruce, nipote del capo spedizione, raggiungono, percorrendo la cresta Nord-Est l'altezza record di 8300 metri. I due alpinisti usarono, per la prima volta, ossigeno supplementare per trascorrere la notte all'ultimo campo, installato a 7800 metri. In precedenza Morshead, Mallory, Norton e Sommervell (senza ossigeno!) avevano già toccato quota 8.225. La spedizione si chiude con la vetta ancora lontana e una tragedia: sette portatori sherpa muoiono travolti da una valanga mentre risalgono verso il Colle Nord.
1924. La terza spedizione vede ancora Norton arrivare (senza ossigeno), alla nuova quota record di 8580 metri. Ma questa spedizione sarà ricordata per un episodio destinato a rimanere nella storia dell'alpinismo e dell'Everest. Il 6 giugno del 1924 Mallory e il giovane Irvine affrontano la via della vetta, il loro compagno Oddel dall'ultimo campo, il n. 6, li intravede in un punto molto alto sulla cresta e da lì continuare speditamente. Poi, di loro non si seppe più nulla. Arrivarono in cima? La domanda appassiona ancora oggi gli storici dell'alpinismo, né il ritrovamento del 1999 del corpo di Mallory è servito a dare una risposta certa all'enigma.
1933. Dopo il periodo 'Mallory' bisogna aspettare altri nove anni perché il Dalai Lama permetta nuovamente l'accesso all'Everest. Nel corso di questa quarta spedizione P.W. Harris, L. Wager, F.S. Smythe (quest'ultimo in solitaria) raggiungono quota 8580, la stessa di Norton nel 1924. Sempre nel 1933 l'Everest è sorvolato e fotografato da piccoli aeromobili.
Successivamente, fino alla seconda guerra mondiale, si susseguono altri tentativi, alcuni addirittura difficilmente classificabili come quello solitario dell'ex ufficiale britannico Maurice Wilson, ed altri, come quello della quinta e sesta spedizione britannica, che si conclusero quasi con un nulla di fatto.
Gli anni '50, la Cima, le grandi spedizioni nazionali
Ormai è cambiato tutto nel modo di affrontare le montagne. Nel secondo dopo guerra fanno la loro comparsa i capi in piumino, le corde di nylon, le bombole e respiratori d'ossigeno più leggeri e soprattutto entrano in lizza con rinnovata energia le grandi spedizioni nazionali; tutti gli Stati vogliono accaparrarsi la prima salita di uno dei 14 colossi himalayani.
Il 1950, è caratterizzato dal successo francese sull'Annapurna (8091 m.), prima montagna oltre gli ottomila metri ad essere salita dall'uomo e, per quanto riguarda l'Everest, dall'apertura delle frontiere nepalesi. Per la prima volta è possibile affrontare la montagna da sud. Si ricomincia, proprio nel 1950, con l'americano Huston e l'inglese Tilmann che guidano una ricognizione anglo-americana, questa volta dal versante nepalese, fino all'Icefall, l'immensa cascata di torri, muri di ghiaccio e crepacci che sbarra l'accesso al versante meridionale dell'Everest.
Nel 1951, guidati da E.E. Shipton, ancora i britannici risalgono il Khumbu Icefall. Fa parte della spedizione anche il neozelandese Edmund Hillary. Nel 1952 ben due spedizioni, questa volta svizzere, affrontano in primavera e in autunno l'Everest sempre da sud. Nella prima fu percorso, fino al Colle Sud, lo 'Sperone dei Ginevrini', e Raymond Lambert con lo sherpa Tenzing Norgay raggiunsero, per la cresta Sud-Est, quota 8600, la massima fino ad allora raggiunta dall'uomo. In autunno, invece, il secondo tentativo svizzero si arrestò per il maltempo al Colle Sud. Ormai, però, anche la via dal versante nepalese era indicata.
L'anno dopo ritorna una spedizione britannica, guidata da John Hunt. Il 29 maggio 1953 alle ore 11,30, la lunga corsa è finita: il neozelandese Edmund Hillary e lo sherpa Tenzing Norgay lasciano la loro traccia sulle vergini nevi del punto più alto del globo. Gli 8.848 dell'Everest sono stati saliti (con l'aiuto dell'ossigeno supplementare) per la prima volta. E' stata una grande impresa, che nel suo epilogo offre anche un aspetto, se si vuole, di 'giustizia': uno dei primi salitori appartiene a quel popolo sherpa che fin dall'inizio è stato indispensabile e tanto ha dato, anche in termini di vite umane, a chiunque volesse avvicinarsi alle massime quote.
Resta da dire che il versante nord, quello tentato dai primi esploratori, è stato salito per la prima volta da una spedizione cinese solo nel 1960, proprio per il percorso individuato da Mallory.
Il 'dopo' Hillary e Tenzing
Nei 60 anni che sono trascorsi dalla prima ascensione moltissimo è cambiato. L'Everest però non ha mai smesso di essere un simbolico punto di riferimento e di desiderio. Le spedizioni e gli alpinisti di tutte le nazionalità si sono incessantemente avvicendati sulle sue pareti e molti nuovi itinerari, anche difficilissimi, sono stati tentati e percorsi su tutti, o quasi, i versanti della montagna.
Si è passati dalle grandi spedizioni nazionali, come quella italiana guidata da Monzino nel 1973 (otto uomini in vetta) che fece uso di elicotteri per trasportare i carichi sopra l'Icefall, a quelle 'leggere' composte di pochi alpinisti, alle ascensioni solitarie, alle salite velocissime, alle discese con gli sci o con il parapendio.
L'Everest ha richiamato tutti i possibili record immaginabili. Tra le tante, però, due sono le imprese assolutamente da ricordare, entrambe ad opera di Reinhold Messner, il primo a salire tutti i 14 ottomila e uno dei primi ad agire sui giganti dell'Himalaya con un'etica completamente nuova e rivoluzionaria. Nel 1978, insieme a Peter Habeler, raggiunse la cima, dal versante Sud, senza ossigeno; erano i primi a farlo. Due anni dopo, nel 1980, dal versante Nord ritornò sulla vetta: da solo, per una via nuova e senza ossigeno.
L'elite dell'alpinismo, da allora, si confronta con questo modo di salire 'leggero', senza ossigeno supplementare e in velocità. E' la filosofia del 'by fair means', dell'affrontare la montagna con mezzi leali, senza dispiego di mezzi, uomini e attrezzature, e per alcuni, aldilà degli exploits alpinistici, anche del rispetto per la natura e gli uomini. Ma a questo modo di intendere l'alpinismo si contrappone un affollamento delle valli e delle montagne himalayane, ed in particolare dell'Everest, sempre più grande. Da un lato alpinisti della statura di Hans Kammerlander, autore nel 1996 della salita più veloce (da solo e in meno di 17 ore) e della prima discesa con gli sci dal versante Nord; dall'altro le moltissime spedizioni che ogni anno e in misura maggiore rendono il Campo Base dell'Everest simile ad una megatendopoli, e affollano i vari campi, lungo il classico percorso della prima salita, con conseguenti problemi ambientali per il formarsi di vere e proprie discariche di rifiuti. Questo nonostante ogni spedizione sia obbligata, non solo ad ottenere e pagare il permesso per scalare la montagna, ma anche a riportare i propri rifiuti a valle. La situazione è così delicata, che molti descrivono l'Everest come la più alta discarica del Mondo.
Un altro aspetto di questo problema generale è quello delle spedizioni cosiddette 'commerciali', i cui organizzatori offrono ai 'clienti-partecipanti' la possibilità di arrivare sulle cime più famose del mondo. Sull'Everestnel 1996 nove partecipanti a due di queste spedizioni persero la vita scendendo dalla vetta. Lo scrittore americano Jon Krakauer che partecipava ad una di quelle spedizioni nel libro Into Thin Air, (Aria sottile nell'edizione italiana della Corbaccio), diventato subito un bestseller mondiale, ha raccontato tutta la tragica vicenda sollevando il problema dell'utilizzo e della messa in 'vendita' della montagna e delle aspirazioni di chi vuole raggiungerne la cima. Ma tutti, indistintamente, dobbiamo comprendere che la salvaguardia dell'Everest e del suo mito è una questione importantissima e ancora aperta. Una questione che, travalicando gli aspetti particolari dell'alpinismo, rende il Chomolungma, la Dea madre del mondo, un simbolo del più vasto discorso non solo della difesa della natura ma anche delle stesse sorti, presenti e future, del genere umano.
Vinicio Stefanello
29/05/2013 - Everest, 60 anni tra mito e business
La 'scoperta' della più alta montagna del mondo.
L'immenso arco montuoso dell'Himalaya esiste da milioni d'anni. E' un'area di circa 2.500 chilometri di lunghezza per 200 chilometri di larghezza occupata da altissime montagne, le più alte che ci siano. Di loro, però, il mondo occidentale fino agli anni a cavallo del metà del XIX secolo sapeva ben poco. Fu solo nel 1830, infatti, che i cartografi inglesi del Survey of India (Ufficio trigonometrico e geodetico dell'India) - che all'inizio del 1800 avevano intrapreso una lunga e difficoltosa campagna, d'esplorazioni e misurazioni, per conoscere e riportare sulle carte geografiche l'intero Sub Continente Indiano - raggiunsero le frontiere del Nepal. Erano arrivati ai bordi di uno degli scrigni del 'tesoro' himalayano. Allora, però, erano molte le difficoltà per accedere a quei territori. I nepalesi, preoccupati di mantenere la propria indipendenza, non ammettevano intrusioni occidentali, soprattutto da parte dei 'colonialisti' inglesi.
Così, operando e continuando le rilevazioni dai territori dell'India, si osservò, a confine tra il Nepal e il Tibet, una montagna altissima che fu indicata nelle mappe con la lettera "b". Successivamente, si era già nel 1854, tutti i rilievi vennero studiati e comparati, e la cima "b" fu rinominata con il toponimo di Peak XV. Dopo due anni di laboriosi calcoli proprio quella montagna risultò la più alta di tutte. Le misurazioni le assegnavano 8.839 metri d'altezza, 258 in più del bellissimo K2 che con 8581 risultava secondo nella speciale classifica 'delle 14 più alte', quelle oltre gli 8000 metri. I topografi inglesi 'ci presero' e furono di una precisione stupefacente. Le misurazioni fatte circa un secolo dopo si sono discostate, infatti, di poco fissando l'altezza a 8848 metri.
Un battesimo sconcertante
I funzionari del Survey of India, per altre montagne mantennero il nome locale, ma questa era una vetta speciale. Così, nonostante fosse chiamata dai tibetani con il bellissimo nome di Chomolungma (Dea Madre del Mondo), il Peak XV si ritrovò ribattezzato con il nome di Everest in onore di Sir George Everest, direttore dal 1830 al 1843 proprio del Survey of India. Per la verità, lo stesso George Everest era stato un convinto assertore della necessità di mantenere e utilizzare i toponimi indigeni. Ma tant'è pur opponendosi non ottenne nulla, e il suo nome, paradossalmente, é universalmente conosciuto proprio come il nome della montagna più alta del mondo. In seguito il tempo ha fatto giustizia ed ora anche Chomolungma, il nome originale, viene sempre più spesso citato ed usato anche dagli occidentali. Ora che la montagna più alta era stata individuata ed aveva un nome, mancava solo chi la salisse. Un'impresa ardua e per l'epoca al limite dell'immaginazione, ma l'alpinismo, allora nel suo periodo d'oro, quello dei pionieri, è nato anche per questo.
I pionieri
Tra la fine del 1800 e gli inizi del 1900, l'alpinismo himalayano muoveva i primi passi. Fino al 1909 l'altezza massima raggiunta dall'uomo erano i 7498 metri, toccati dalla spedizione del Duca degli Abruzzi sul Bride Peak (oggi Chogolisa, 7665 metri) nel Karakorum, per questo l'idea di scalare l'Everest poteva sembrare solo una pazzia. Ma dal momento che una cosa ai più per definizione sembra irraggiungibile per altri, invece, diventa un’attrazione irrinunciabile. Così l'impresa comincia a frullare nella testa di alcuni alpinisti ed esploratori, soprattutto inglesi. Tra i più attivi: il giovane capitano dell'esercito Charles Granville Bruce, forse il primo nel 1893 a parlare esplicitamente dell'ascensione, Cecil Rawling, John Baptist, Lucius Noel e Francis Younghusband. I primi tre erano letteralmente affascinati dall'idea di tentare la scalata alla cima della terra, dopo averla vista nel corso delle esplorazioni dell'Himalaya.
Fino al 1919, però, non se ne fece niente, o quasi. Le difficoltà politiche per ottenere l'accesso al territorio dell'Everest prima, poi lo scoppio della prima guerra mondiale resero impossibile ogni progetto. Nel 1919, appunto, la Royal Geographical Society cominciò ad interessarsi nuovamente del problema e nel 1920 il suo Presidente, quello stesso Sir Francis Younghusband che era stato uno dei primi ad interessarsi all'impresa, con l'Alpine Club, cominciò ad organizzare il tutto.
Prendeva il via l'epopea dell'Everest. La Gran Bretagna si era ufficialmente impegnata e la salita all'Everest era diventata un 'affare' nazionale. Gli inglesi dopo aver 'perso' la corsa al Polo Sud e al Polo Nord volevano arrivare per primi in vetta al Terzo Polo, quello della massima altezza terrestre.
Va detto subito, per inquadrare compiutamente la situazione e la portata del progetto, che queste prime spedizioni dovevano affrontare problemi tecnici e logistici immensi e pieni d'incognite. Si pensi, ad esempio, che i primi esploratori affrontavano quelle quote - definite poi come 'zona della morte' - con giacche di tweed, cardigan, calzettoni di lana, strati di maglioni e normali scarponi. Tanto che George Bernard Shaw, dopo aver visto alcune fotografie di quelle spedizioni, ebbe efficacemente a dire che la scena gli ricordava “Un picnic interrotto da una bufera di neve”.
Altro tema importantissimo era quello dell'uso o meno dell'ossigeno supplementare in alta quota. Già da allora s'iniziò a discutere sulla sua necessità e soprattutto sugli aspetti etici che tale uso comportava. Questo sarà uno degli argomenti di discussione che accompagneranno, fino i nostri giorni, tutte le spedizioni.
Le prime spedizioni britanniche
1921. Finalmente partiva la prima spedizione, composta da geografi ed alpinisti, con l'obiettivo di effettuare una ricognizione nella zona dell'Everest e trovare la strada migliore per la vetta. Allora l'accesso alla montagna, con il permesso del Dalai Lama, era limitato, solo al versante nord, quello tibetano, poiché il Nepal ancora negava l'accesso da sud.
Tra gli altri faceva parte della spedizione, al comando del tenente colonnello C.K. Howard-Bury, l'alpinista George Mallory che come vedremo resterà legato in modo indissolubile alla montagna. Proprio Mallory e Bullock individuarono, in questa prima esplorazione, la strada del Colle Nord dal Ghiacciaio Orientale di Rongbuk, che sarà poi quella più seguita dalle spedizioni per il versante Nord.
1922. Trovata la strada, l'anno dopo, è la volta di una nuova spedizione diretta dal generale C.G. Bruce. La squadra alpinistica è molto forte e annovera tra le sue file figure di primissimo piano tra le quali si distinguono i nomi di G. Ingle Finch, E. F. Norton, T.H. Somervell ed, ancora, di George Mallory. Finch e Geoffrey Bruce, nipote del capo spedizione, raggiungono, percorrendo la cresta Nord-Est l'altezza record di 8300 metri. I due alpinisti usarono, per la prima volta, ossigeno supplementare per trascorrere la notte all'ultimo campo, installato a 7800 metri. In precedenza Morshead, Mallory, Norton e Sommervell (senza ossigeno!) avevano già toccato quota 8.225. La spedizione si chiude con la vetta ancora lontana e una tragedia: sette portatori sherpa muoiono travolti da una valanga mentre risalgono verso il Colle Nord.
1924. La terza spedizione vede ancora Norton arrivare (senza ossigeno), alla nuova quota record di 8580 metri. Ma questa spedizione sarà ricordata per un episodio destinato a rimanere nella storia dell'alpinismo e dell'Everest. Il 6 giugno del 1924 Mallory e il giovane Irvine affrontano la via della vetta, il loro compagno Oddel dall'ultimo campo, il n. 6, li intravede in un punto molto alto sulla cresta e da lì continuare speditamente. Poi, di loro non si seppe più nulla. Arrivarono in cima? La domanda appassiona ancora oggi gli storici dell'alpinismo, né il ritrovamento del 1999 del corpo di Mallory è servito a dare una risposta certa all'enigma.
1933. Dopo il periodo 'Mallory' bisogna aspettare altri nove anni perché il Dalai Lama permetta nuovamente l'accesso all'Everest. Nel corso di questa quarta spedizione P.W. Harris, L. Wager, F.S. Smythe (quest'ultimo in solitaria) raggiungono quota 8580, la stessa di Norton nel 1924. Sempre nel 1933 l'Everest è sorvolato e fotografato da piccoli aeromobili.
Successivamente, fino alla seconda guerra mondiale, si susseguono altri tentativi, alcuni addirittura difficilmente classificabili come quello solitario dell'ex ufficiale britannico Maurice Wilson, ed altri, come quello della quinta e sesta spedizione britannica, che si conclusero quasi con un nulla di fatto.
Gli anni '50, la Cima, le grandi spedizioni nazionali
Ormai è cambiato tutto nel modo di affrontare le montagne. Nel secondo dopo guerra fanno la loro comparsa i capi in piumino, le corde di nylon, le bombole e respiratori d'ossigeno più leggeri e soprattutto entrano in lizza con rinnovata energia le grandi spedizioni nazionali; tutti gli Stati vogliono accaparrarsi la prima salita di uno dei 14 colossi himalayani.
Il 1950, è caratterizzato dal successo francese sull'Annapurna (8091 m.), prima montagna oltre gli ottomila metri ad essere salita dall'uomo e, per quanto riguarda l'Everest, dall'apertura delle frontiere nepalesi. Per la prima volta è possibile affrontare la montagna da sud. Si ricomincia, proprio nel 1950, con l'americano Huston e l'inglese Tilmann che guidano una ricognizione anglo-americana, questa volta dal versante nepalese, fino all'Icefall, l'immensa cascata di torri, muri di ghiaccio e crepacci che sbarra l'accesso al versante meridionale dell'Everest.
Nel 1951, guidati da E.E. Shipton, ancora i britannici risalgono il Khumbu Icefall. Fa parte della spedizione anche il neozelandese Edmund Hillary. Nel 1952 ben due spedizioni, questa volta svizzere, affrontano in primavera e in autunno l'Everest sempre da sud. Nella prima fu percorso, fino al Colle Sud, lo 'Sperone dei Ginevrini', e Raymond Lambert con lo sherpa Tenzing Norgay raggiunsero, per la cresta Sud-Est, quota 8600, la massima fino ad allora raggiunta dall'uomo. In autunno, invece, il secondo tentativo svizzero si arrestò per il maltempo al Colle Sud. Ormai, però, anche la via dal versante nepalese era indicata.
L'anno dopo ritorna una spedizione britannica, guidata da John Hunt. Il 29 maggio 1953 alle ore 11,30, la lunga corsa è finita: il neozelandese Edmund Hillary e lo sherpa Tenzing Norgay lasciano la loro traccia sulle vergini nevi del punto più alto del globo. Gli 8.848 dell'Everest sono stati saliti (con l'aiuto dell'ossigeno supplementare) per la prima volta. E' stata una grande impresa, che nel suo epilogo offre anche un aspetto, se si vuole, di 'giustizia': uno dei primi salitori appartiene a quel popolo sherpa che fin dall'inizio è stato indispensabile e tanto ha dato, anche in termini di vite umane, a chiunque volesse avvicinarsi alle massime quote.
Resta da dire che il versante nord, quello tentato dai primi esploratori, è stato salito per la prima volta da una spedizione cinese solo nel 1960, proprio per il percorso individuato da Mallory.
Il 'dopo' Hillary e Tenzing
Nei 60 anni che sono trascorsi dalla prima ascensione moltissimo è cambiato. L'Everest però non ha mai smesso di essere un simbolico punto di riferimento e di desiderio. Le spedizioni e gli alpinisti di tutte le nazionalità si sono incessantemente avvicendati sulle sue pareti e molti nuovi itinerari, anche difficilissimi, sono stati tentati e percorsi su tutti, o quasi, i versanti della montagna.
Si è passati dalle grandi spedizioni nazionali, come quella italiana guidata da Monzino nel 1973 (otto uomini in vetta) che fece uso di elicotteri per trasportare i carichi sopra l'Icefall, a quelle 'leggere' composte di pochi alpinisti, alle ascensioni solitarie, alle salite velocissime, alle discese con gli sci o con il parapendio.
L'Everest ha richiamato tutti i possibili record immaginabili. Tra le tante, però, due sono le imprese assolutamente da ricordare, entrambe ad opera di Reinhold Messner, il primo a salire tutti i 14 ottomila e uno dei primi ad agire sui giganti dell'Himalaya con un'etica completamente nuova e rivoluzionaria. Nel 1978, insieme a Peter Habeler, raggiunse la cima, dal versante Sud, senza ossigeno; erano i primi a farlo. Due anni dopo, nel 1980, dal versante Nord ritornò sulla vetta: da solo, per una via nuova e senza ossigeno.
L'elite dell'alpinismo, da allora, si confronta con questo modo di salire 'leggero', senza ossigeno supplementare e in velocità. E' la filosofia del 'by fair means', dell'affrontare la montagna con mezzi leali, senza dispiego di mezzi, uomini e attrezzature, e per alcuni, aldilà degli exploits alpinistici, anche del rispetto per la natura e gli uomini. Ma a questo modo di intendere l'alpinismo si contrappone un affollamento delle valli e delle montagne himalayane, ed in particolare dell'Everest, sempre più grande. Da un lato alpinisti della statura di Hans Kammerlander, autore nel 1996 della salita più veloce (da solo e in meno di 17 ore) e della prima discesa con gli sci dal versante Nord; dall'altro le moltissime spedizioni che ogni anno e in misura maggiore rendono il Campo Base dell'Everest simile ad una megatendopoli, e affollano i vari campi, lungo il classico percorso della prima salita, con conseguenti problemi ambientali per il formarsi di vere e proprie discariche di rifiuti. Questo nonostante ogni spedizione sia obbligata, non solo ad ottenere e pagare il permesso per scalare la montagna, ma anche a riportare i propri rifiuti a valle. La situazione è così delicata, che molti descrivono l'Everest come la più alta discarica del Mondo.
Un altro aspetto di questo problema generale è quello delle spedizioni cosiddette 'commerciali', i cui organizzatori offrono ai 'clienti-partecipanti' la possibilità di arrivare sulle cime più famose del mondo. Sull'Everestnel 1996 nove partecipanti a due di queste spedizioni persero la vita scendendo dalla vetta. Lo scrittore americano Jon Krakauer che partecipava ad una di quelle spedizioni nel libro Into Thin Air, (Aria sottile nell'edizione italiana della Corbaccio), diventato subito un bestseller mondiale, ha raccontato tutta la tragica vicenda sollevando il problema dell'utilizzo e della messa in 'vendita' della montagna e delle aspirazioni di chi vuole raggiungerne la cima. Ma tutti, indistintamente, dobbiamo comprendere che la salvaguardia dell'Everest e del suo mito è una questione importantissima e ancora aperta. Una questione che, travalicando gli aspetti particolari dell'alpinismo, rende il Chomolungma, la Dea madre del mondo, un simbolo del più vasto discorso non solo della difesa della natura ma anche delle stesse sorti, presenti e future, del genere umano.
Vinicio Stefanello
29/05/2013 - Everest, 60 anni tra mito e business
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