Into the Wild, l'importanza della natura e dell'ignoto. Di Manuel Lugli
Non c’è scoperta senza curiosità. E’ il motore immobile di ogni movimento, quello che porta il cucciolo d’uomo a scendere in cantina, a esplorare il bosco dietro la casa in montagna come se fosse l’Amazzonia, a salire sugli alberi come Tarzan. Nonostante la paura o le urla dei genitori.
Il viaggio è la forma più antica di applicazione della curiosità: migliaia di anni di spostamenti dell’uomo sono avvenuti sotto la spinta di questa molla. Certo la fame, la sete, la necessità di sopravvivere sono stati motori altrettanto potenti, lo possiamo constatare anche ai nostri giorni: migliaia di migranti sfidano pericoli e leggi inutilmente protezionistiche - i flussi migratori epocali non conoscono leggi nè confini. Ma la curiosità di oltrepassare confini, barriere, frontiere è parte della storia millenaria dell’umanità.
Viviamo tempi di "protezione", di tutela estrema: ogni momento della nostra vita viene avvolto in pellicole, in membrane di difesa da ogni cosa: elementi naturali, pericoli fisici, chimici, biologici. Traumi, infezioni, contatti ravvicinati. Ogni piccola interazione col mondo è mediata da indumenti, mezzi, rifugi, protezioni, contatti telefonici, cibernetici, visuali e uditivi.
Abbiamo perso completamente la capacità di interagire con la wilderness. Come tradurre questo termine? Selvaggità? Forse non esiste termine in italiano, ma il concetto è questo: non sappiamo più osare di vivere non protetti in qualche modo. Dalle previsioni meteo per salire in montagna, alla banale prenotazione di un hotel per non rischiare di trovarsi allo scoperto.
Riflettevo su tutte queste cose dopo un recente viaggio in Groenlandia. Fortunatamente esistono ancora terre in cui nulla è certo, sicuro, protetto. Non pretendo certo che tutti condividano il mio punto di vista, ma mai come in questa esperienza ho avuto la netta percezione dell’essere in balìa - nel senso più bello e felice del termine - della natura. Certo anche noi avevamo le nostre previsioni meteo: evitare un piteraq a 180 km all’ora può essere utile. Certo anche noi potevamo inviare alcuni messaggi di testo a casa, ogni tanto. Ma la natura intorno a noi la faceva completamente da padrona. Eravamo a decine di chilometri di distanza dal villaggio più vicino, in un circo di montagne d’incomparabile bellezza dove eravamo giunti con le nostre forze, trascinando pulke da 50 kg. Consci del fatto che in qualsiasi momento avremmo potuto incontrare orsi bianchi - in aprile fuori dal loro letargo - che avremmo dovuto attraversare con cautela i fiordi ghiacciati - quanto peso tiene il mare ghiacciato ad aprile? - che avremmo dovuto affrontare bufere violente e nevicate eccezionali, come è poi di fatto avvenuto. Nulla era certo. E se le incertezze e i rischi tipici delle montagne (maltempo, vento, valanghe) eravamo preparati ad affrontarli, perchè parte dell’andare in montagna abitualmente, certamente alcune situazioni ci erano totalmente nuove: come abituarsi ad addormentarsi col fucile a fianco del sacco a pelo e l’orecchio teso al tripwire (l’allarme anti-orsi bianchi) o a camminare sul mare ghiacciato osservandone le crepe e i sastrugi, sempre sondando il terreno davanti a noi coi bastoncini, consci che una caduta in mare con tutto l’equipaggiamento sarebbe stata di certo un problema serio, per usare un eufemismo. Eppure.
Eppure l’entusiasmo di trovarsi faccia a faccia con la natura, anche nelle sue espressioni più selvagge, prevaleva su ogni altra sensazione, su ogni paura. E non solo in me, ma in tutti i miei compagni di viaggio. Vivere la natura è sentirsi vivi ma umili, comprendere che non si è al centro dell’universo, che i sistemi non girano attorno alle nostre esigenze. Perchè la curiosità porta all’esperienza e alla comprensione anche dei propri limiti. In alcune circostanze, in questi ambienti l’uomo è un piccolo tassello, non estraneo - gli inuit convivono da millenni con una natura estrema - ma che deve adattarsi ai ritmi e agli elementi naturali.
Leggo - è cronaca di poche settimane fa - dell’uccisione "programmata" della sventurata orsa trentina, colpevole di trovarsi sul cammino di un escursionista col suo cane. Non voglio discutere sul senso di un programma di reinserimento degli animali selvaggi in una situazione fortemente antropizzata - nonostante tutto - come il Trentino, per quanto abbia una mia idea in proposito. Non siamo il Canada nè la Kamchatka e nemmeno la Slovenia. Siamo un paese di dimensioni ridicole affollato di sessanta milioni di persone; immaginare una vera wilderness in l’Italia è impossibile o quasi, per motivi territoriali ma anche e soprattutto culturali.
Ma un sistema che deve abbattere un animale selvaggio per proteggere un "ospite" umano di un ambiente "selvaggio" come un bosco è davvero un paradosso. E soprattutto mette tanta tristezza in chi conosce la vera wilderness di tanti paesi più consapevoli da questo punto di vista. Perchè il vero problema è riempirsi la bocca di belle parole sulla bellezza della natura selvaggia - tipica superficialità italica - ma trovarsi poi a non accettarne gli aspetti meno piacevoli e più imprevisti - lupi, orsi, pecore sbranate, incontri ravvicinati. E’ la curiosità, la scoperta, la natura che si scontra con la tutela estrema, ormai forzata dell’elemento umano. Meglio un ritorno alle origini? Meglio la paura dei lupi e degli orsi nei paesi - come in Groenlandia dove siamo stati accolti dall’orso bianco appena arrivati al villaggio di Kulusuk? Non so dire. Ma una maggiore consapevolezza che non siamo elemento centrale della vita su questo pianeta, farebbe un gran bene a tutti noi. A dispetto della nostra arroganza, della nostra capacità di addomesticare - e spesso distruggere - ogni cosa o essere, di alterare gli equilibri sempre a nostro favore, ignorando la bellezza della wilderness, della natura e di una buona dose di ignoto.
Lo stesso si potrebbe dire di tanto modo di viaggiare recente. Sempre più i viaggi vengono programmati in ogni dettaglio utilizzando questi deprimenti portali di prenotazione all inclusive. Voli, hotel, auto a noleggio, escursioni, ascensioni, musei, visite: nulla è lasciato al caso, all’improvvisazione, all’invenzione. E’ la noia mortale, la fine dell’immaginazione e della scoperta. Quando facevo il tour operator specializzato in trek e montagna, ho avuto richieste di gruppi che pretendevano di sapere perfino il menu dei pasti forniti durante i trekking. La risposta era sempre la stessa: avete sbagliato agenzia. Il viaggio, soprattutto in natura, è scoperta, novità, visione inaspettata. E’ anche l’imprevisto che ci costringe a condividere il tetto di un alpeggio con lo sherpa o la yurta con un pastore kirghiso. Sono i momenti di un‘esperienza vera e intensa a contatto con il mondo che ricompensano alla fine della fatica e del disagio. Perchè Into the wild non è solo il titolo di un bellissimo film, ma è una vera e propria filosofia di vita.
Manuel Lugli