Il Canyon della Val Scura, canyoning sull’Altopiano di Lavarone (TN)
2020, anno del Covid-19 e delle restrizioni. Nonostante per lavoro giriamo il mondo, siamo stati costretti a rimanere in Italia. E forse è stato il destino a farci trovare una bella avventura proprio dietro casa…
La Val Scura è una stretta valle, esposta a nord, che dall’altopiano cimbro, in particolare dalla località Monterovere, sprofonda nella Valsugana, in prossimità del lago di Caldonazzo. Pareti alte fino a 400 metri fanno da cornice a questo canyon, al cui interno scorre il Rio Bianco.
Ho sempre amato questo posto, un po’ ombroso, un po’ freddo, un po’ aleatorio. Chi passerà da quelle parti non potrà non essere affascinato e allo stesso tempo impaurito dalle enormi frane e massi pericolanti che caratterizzano l’ambiente. Un ambiente totalmente in contraddizione con l’assolato e gioviale altopiano di Lavarone.
Così, un giorno di agosto, proposi a Giulia di andare a fare un giro da quelle parti. Nel canyon, a mezza costa, passa il sentiero attrezzato C. Chiesa. Appena lo imboccammo, mi accorsi che gran parte delle attrezzature, cavi, pioli, scalette, erano stati divelti dalle frane. Quella valle, in continuo movimento, stava cancellando le opere dell’uomo. Decidemmo, quindi, di fermarci a mangiare qualcosa. Tra una chiacchiera e l’altra, accompagnato solo dal forte rumore del torrente, pensai che sarebbe stato bello percorrere il canyon seguendo fedelmente la linea dell’acqua, magari proprio partendo dalla grande cascata ubicata a monte.
Già che eravamo lì, iniziammo per gioco a vagare tra i grandi massi di frana, piedi in acqua, portandoci verso valle. Quasi da subito, però, se si voleva seguire pedissequamente il flusso dell’acqua, era necessario attrezzare qualche calata di corda. Non avendo nulla con noi, ci promettemmo di tornare.
Così, qualche giorno dopo, tornammo in Val Scura, muniti di trapano, attacchi, corde e muta. In testa alla grande cascata, posizionai due fix per la prima calata. Scesa la prima, fedeli alla linea, attrezzammo qualche altro breve salto, non percorribile in disarrampicata. In ogni caso, la possibilità di uscire per il sentiero ci dava sempre una via di fuga affidabile. Dopo un po’ che scendevamo, arrivammo in un punto dove il sentiero usciva dalla valle, facendo un giro largo, mentre il canyon si inforrava decisamente. La vista del proseguimento era sbarrata da un piccolo ballatoio che conduceva, sicuramente, al bordo di un salto.
Armato un breve mancorrente raggiunsi il margine. Da lì si apriva la vista sul proseguimento della forra, stretta tra le pareti, senza vie di fuga. Giulia mi raggiunse in sosta. Gettai le corde oltre il bordo e iniziai a calarmi su questo scivolo a 50 gradi che dopo pochi metri lascia spazio a un vuoto di 35 metri bordo cascata. Uno spettacolo bellissimo e suggestivo. Per quel giorno, però, poteva bastare così. Risalii le corde fino alla sosta e tornammo a casa.
I giorni seguenti, qualche dubbio nel continuare l’esplorazione mi sorse. E se, una volta tirate giù le corde, non fossi stato in grado di proseguire (purtroppo la qualità della roccia non permetteva di mettere le soste dove si voleva…)? Quante altre calate ci sarebbero state dopo quella? Quanti metri di corda avremmo dovuto portare? Per Giulia, tra l’altro, era una delle prime esperienze su corda, non avrei forse fatto meglio ad andare da solo? E, comunque, io sono un alpinista e uno speleologo, ma il torrentismo non è il mio sport…
Nonostante questi dubbi, la voglia di esplorazione - e che forse il periodo del lockdown ci aveva acuito - ci fece tornare lì dopo qualche giorno. Le piogge avevano ingrossato il Rio Bianco, ma eravamo decisi. Via con la prima grande cascata, e poi giù per tutto il tratto che avevamo già attrezzato, fino al limite dell’altra volta. Da li, mi calai fino alla sosta sul bordo e con un’altra corda scesi giù nella forra.
Dopo questa spettacolare calata di 35 metri, toccai la poco profonda pozza di acqua alla base. Feci qualche passo verso valle per affacciarmi al salto successivo, più breve ma apparentemente impegnativo. Dissi a Giulia intanto di scendere e quando arrivai, discutemmo il da farsi. Se avessimo tirato giù le corde, non avremmo avuto altra via di fuga. Tirammo giù le corde.
Da lì seguirono altre sei calate, di cui una, quella che abbiamo chiamato “cascata ad S”, ci diede un po’ di filo da torcere dato il flusso d’acqua importante e caotico che c’era quel giorno. Passammo delle ore bellissime ed intense all’interno di quella fredda forra. Concentrati solo nel fare le cose giuste e non sbagliare, dato che nessuno conosceva quel posto.
Calata dopo calata la forra sembrava si allargasse e, a fix quasi esauriti, prima di un altro salto, intravedemmo la possibilità di arrampicarci per il bosco. Intercettammo, così, il sentiero. Da quel punto, in ogni caso, armammo altre tre belle cascate, per un totale di 14 salti. Proseguimmo, quindi, nel greto del Rio Bianco fino alla fine, raggiungendo la strada del Menador. Stanchi ma felici di questa avventura a due passi da casa, decisamente fuori dalla nostra “comfort zone”, fatti sì di pareti, ma da scalare.
Francesco Maria Sauro, Giulia Gabani
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