Alpinismo e rischio

L'alpinismo e la libertà di assumersene consapevolmente i rischi. Di Vinicio Stefanello.
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Steve House in cima al Nanga Parbat.
arch. Steve House - Vincent Anderson

L’alpinismo ha un posto in questa società? O meglio, come viene interpretato da chi alpinista non è? Di certo l’alpinismo non è più - come agli inizi - “giustificato” dalla ricerca scientifica. Oppure, come negli anni '30, funzionale ai regimi fascisti e nazisti e al loro strumentale mito dell'eroe. E più in là, nel secondo dopoguerra, con la corsa agli Ottomila, simbolo del riscatto di intere nazioni. Non che tutti gli alpinisti accettassero questo sfruttamento della loro passione, anzi.

Volendo semplificare molto l’alpinista in fondo è sempre stato un po’ “anarchico”, o per meglio dire un “anarchico - individualista”. Anche per questo ha sempre difeso la sua assoluta libertà di scelta in montagna, aldilà dei rischi anche altissimi che questo può comportare (un atteggiamento spesso letto all’esterno come egoismo tout-court).

Di sicuro però in epoche passate anche chi era esterno al mondo dell’andar per montagne, cioè la stragrande maggioranza, almeno aveva dei parametri, seppur manipolati, per dargli un significato, per collocarlo in una casella. Ora, invece, sembra esserci uno scollamento, una sorta di quasi assoluta incomprensione sul significato e il senso dell'alpinismo. Forse anche per questo bisognerebbe chiedersi come si rappresenta l'alpinismo e che senso dà di sé ai nostri tempi.

Una risposta, c'è da scommetterci, è quella di sempre. Quella che, anche in tempi non così vicini, l'ha sempre definito come la ricerca dei limiti e di se stessi. Una nobile e sempre valida motivazione. Che sembrerebbe assumere un valore alto ed insieme inclusivo: ogni esperienza di alpinismo, grande e piccola, dovrebbe avvicinare ad una maggior conoscenza di sé e del mondo. Ed è proprio per questo suo valore intrinseco e assolutamente personale che l'alpinismo e gli alpinisti rivendicano giustamente il diritto, e con esso la loro sacrosanta libertà, di assumersi consapevolmente i rischi che l'andar per montagne sempre comporta.

C'è un però: storicamente questa esperienza personale è stata da sempre misurata dagli stessi alpinisti con il metro della difficoltà strettamente legato al rischio, anche di morte, che ci si assume per superarla. Ergo: più la salita è difficile e più ci si espone al rischio, più l'impresa è grande. Ciò comporta un problema, se non proprio una contraddizione: anche il valore dell'esperienza umana è legato implicitamente al rischio e alla difficoltà della salita?

Tutti gli appassionati risponderanno che no, che l'alpinismo va aldilà del mero grado di difficoltà e della quantità di rischi a cui ci si espone. Anzi, aggiungeranno anche, che in alpinismo non può esistere competizione. Vogliamo crederci…

Resta il fatto che gran parte della storia e delle storie di alpinismo raccontano e celebrano proprio questo: il superamento delle difficoltà e dei rischi che comporta una salita. Così che le prime salite di una cima, di una parete, del versante più lontano, più difficile, più alto, insomma quelle anche più rischiose, sono sempre state valutate come un plus e un punto di arrivo dagli alpinisti.

Ma se ciò è perfettamente comprensibile dal loro punto di vista. Dall'altro può creare un vero e proprio corto circuito di comprensione per chi è all'esterno o si avvicina a questo mondo. Forse bisognerebbe fare un po' di chiarezza per recuperare il senso primo dell'andar per montagne. Un senso inclusivo, più aperto all'esperienza di tutti, anche aldilà del grado di difficoltà e dei rischi. Ribadendo all'infinito che la sicurezza assoluta in montagna, come nella natura tutta, non esiste. Puntando prima di tutto sulla conoscenza e sulla consapevolezza del rischio a cui ci si espone, che non potrà mai essere slegato da una motivazione personale, forte e sincera e dall'assunzione completa di responsabilità per le possibili conseguenze.

Forse così ci avvicineremo ad un libero alpinismo che riesce a trasmettere di sé un'immagine comprensibile. E che, a ragione, pretende per sé quella libertà (e felicità) a cui ogni uomo e donna ha diritto.

di Vinicio Stefanello

pubblicato su Il Manifesto In Movimento (maggio 2016)




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