Piolet d'or: la giuria premia il team russo, il pubblico Steve House
Al team russo che ha salito lo jannu è andato il prestigioso riconoscimento alpinistico promosso dalla rivistta francese Montagne Magazine. A Steve House per la salita del K7 il premio del pubblico.
Qual è la migliore salita? Qual è il migliore alpinismo? Se questo fosse l'unico senso da ricercare in un premio come il Piolet d'Or, certo sarebbe impossibile andare oltre la mera classifica. O meglio, sarebbe impossibile non sprofondare nelle sabbie mobili delle polemiche che, immancabilmente, accompagnano questi riconoscimenti stile "Oscar", soprattutto quando vengono intesi (e subiti) come una sentenza assoluta. Se poi, ed è questo il caso, i concorrenti in corsa appartengono a categorie così diverse da apparire addirittura incompatibili, il vicolo dei "partiti contrapposti" potrebbe diventare ancor più inevitabile. A ben guardare è proprio questa "diversità" quella che ha segnato le premiazione di questo Piolet d'Or 2004. Perché non ci vuol poi molto a capire che lo stile adottato dal team russo per la salita dello Jannu, premiata dalla giuria del Piolet d'Or come migliore impresa alpinistica dell'anno, è assolutamente agli antipodi rispetto alla solitaria di Steve House al K7, votata invece come "la migliore" dal (foltissimo) pubblico presente venerdì sera a Grenoble. E allora, viene spontaneo chiedersi: chi ha ragione? Chi ha visto giusto, il pubblico d'entusiasti appassionati o la giuria, del resto presieduta da Krzysztof Wielicki, un uomo e un alpinista di assoluta qualità e competenza? Come in un gioco degli opposti, da un lato, quello dei russi, c'è un vero assalto alla montagna. Un "pesante" attacco, durato 50 giorni, sferrato da 10 alpinisti comandati da un capo spedizione assoluto deux ex machina delle operazioni (di guerra) su una parete per la quale, peraltro, non è affatto sbagliato rispolverare la definizione di "impossibile". Mentre dall'altra parte, quella di Steve House, c'è una "leggera" corsa solitaria (era di 4 chilogrammi il peso del suo zaino) su una bella, complicata, sperduta e difficile parete. Un trip - non solo nel senso del viaggio - che il giovane americano ha affrontato ben 4 volte, come un equilibrista senza rete che esplora un sottile filo sospeso su un allucinante vuoto irto di difficoltà tecniche e psicologiche. Converrete che non c'è nulla di più diverso di questi due approcci alla montagna. Com'è facile convenire che entrambe le esperienze rappresentano ciascuna a modo loro il top. Basta dire che la parete dei russi aveva resistito a 25 tentativi dei migliori alpinisti del mondo, prima della loro discesa in campo ispirata dal motto: l'assedio, le corde fisse e il sacrificio dell'individualità sono gli unici mezzi possibili per raggiungere quest'impossibile obiettivo. E, basta ricordare che la salita del K7, portata a termine da Steve House in 40 ore, in precedenza era stata tentata, senza successo, da una grossa spedizione giapponese che aveva impiegato anche centinaia di metri di corde fisse. Logico, insomma, che non fosse facile scegliere, tant'è che la Giuria ha impiegato lunghe ore per farlo. Logico anche che il pubblico abbia fatto una scelta diversa, fortemente motivata dall'emozione. Ma altre ancora potevano essere le scelte possibili e plausibili. Sì perché House e il team russo non erano certo i soli candidati per questo Piolet d'Or. Mai come quest'anno, infatti, il campo delle nomination è stato così importante. Tutto ciò è stato via via più evidentte mano a mano che sfilavano le immagini e le presentazioni di ciascuna delle sei realizzazioni in lizza per la "piccozza d'oro". Tutte diverse, tutte particolari, ciascuna con un proprio aspetto che colpiva e rappresentava uno stimolo e un modo di fare (e sognare) alpinismo. Così ha certamente lasciato il segno il lungo viaggio del vulcanico Thomaz Humar e del giovanissimo Ales Kozelj, per sei giorni soli nell'immenso e infido mare della sud dell'Aconcagua: un azzardo, il loro, per grandi specialisti di roccia instabile e ghiaccio inconsistente, da non consigliare neanche al peggior nemico. Come ha destato grande impressione la bella salita degli americani Kevin Mahoney e Ben Gilmore sull'impressionante parete ghiacciata della Moose's Tooth. La loro salita è il successo di due alpinisti (fortissimi) che arrampicano assieme da sempre, che continueranno a farlo anche in futuro, e che si completano a vicenda dividendosi il peso delle difficoltà. In altre parole è il successo della cordata più pura, quella a cui tutti gli alpinisti aspirano ma che quasi mai riescono a realizzare. Un successo di segno opposto a quello ottenuto da JC Lafaille che in assoluta solitudine ha affrontato la grande parete di un ottomila come quella della sud dello Shisha Pangma, dimostrando ancora una volta il suo valore, la sua velocità e la leggerezza del suo stile. Anche a Grenoble l'alpinista francese ha ribadito la sua convinzione che questa salita rappresenti la prima invernale della montagna. Ma ciò non toglie e non aggiunge nulla: infatti pur continuando a restar convinti che la convenzione alpinistica (e quella del calendario) fissino da sempre la data dell'inizio dell'inverno al 21 dicembre (mentre Lafaille ha raggiunto la vetta l'11 dicembre) non per questo consideriamo la sua salita un'impresa di valore inferiore. Come certamente non lo è quella di Elio Orlandi, Fava e Horacio al Fitz Roy. Una salita, la loro, nata sotto il segno di emozioni così intense, che anche sul palco di Grenoble sono prepotentemente emerse. Emozioni che hanno saputo superare anche le difficoltà di una via severa, su una parete e una montagna che sono tra i simboli dell'alpinismo. Un'esperienza così solare e palpitante che se per Orlandi, vecchio lupo patagonico, rappresenta una delle sue sempre bellissime avventure su quelle pareti alla fine del mondo, per gli altri due suoi compagni ha significato l'insperato coronamento di un sogno impossibile. Un sogno che ha lasciato senza parole (ed è tutto dire) anche Cesarino Fava, papà di Luca e, incidentalmente, uno dei padri-pionieri dell'alpinismo in Patagonia. Un sogno ma soprattutto una gioia resi reali per quella straordinaria simbiosi con la roccia che i tre hanno saputo afferrare e vivere, e che hanno trascinato anche sul palco del Piolet d'Or. Dunque (l'avrete capito no?) era davvero difficile scegliere a Grenoble. Come del resto, per tornare alle retoriche domande iniziali, è sempre davvero difficile scegliere la via, lo stile, l'alpinismo migliori. Anzi, soprattutto quando le realizzazioni sono del livello di quelle presentate a Grenoble, forse è proprio impossibile: sono troppe le variabili da prendere in considerazione. E' per questo che non bisogna poi pensare ai premi come "assoluti" ma sfruttare il Piolet per quello che è: un'occasione unica per dare uno sguardo d'insieme alle realtà e ai modi diversi (anche culturali) di fare alpinismo nel mondo. E poi... ho il dubbio che l'alpinismo migliore sia proprio quello che uno pratica o sogna, sempre nel rispetto di tutti gli alpinismi possibili e di tutte le "diversità" possibili! A proposito, il mio voto per il Piolet del pubblico l'ho dato a quelli del Fitz Roy: io sogno quell'imperdibile e insieme impossibile alpinismo, fatto di gioia ed emozioni, e quando l'intravedo (anche su un palco) non me lo faccio sfuggire. Vinicio Stefanello
Nelle foto, dall'alto: foto 1, la premiazione di Alexander Odintsov capo del team russo. Foto 2, tutti i candidati al Piolet d'Or 2004. Foto 3, da sx: Odintsov, House, Lafaille, Mahoney, Gilmore. Foto 4, da sx: Kozelj, Humar, Codo, Fava, Orlandi. |
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