Alla scoperta del Piccolo Half Dome, la nuova falesia in Valle Orco

Andrea Giorda presenta Piccolo Half Dome, la nuova falesia in Valle dell’Orco che offre una serie di vie di arrampicata Trad e misti.
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Piccolo Half Dome Valle Orco: Nicola Tondini su 'Regular Route'
archivio Andrea Giorda

L’ultima via che abbiamo aperto io e il mio socio Claudio Battezzati, la Gran Traversata alle Noasca Towers, ci ha fruttato ben due casse di vino di un ammiratore riconoscente, Mirco, che abita in zona Gavi, circondato da buoni vitigni. Chi pensa che sia una attività inutile farsi strada su pendii infestati dai rovi e di ginepri, con zaini che confermano le leggi di Newton per cercare pareti, è servito, non è una attività inutile. Non so se questa nuova scoperta, la falesia del Piccolo Half Dome, incrementerà la nostra cantina, ma i presupposti ci sono tutti.

La valle dell’Orco è nota per le sue splendide vie, ma è indubbio che in quanto a falesie, i cugini dell’Ossola hanno strutture naturali molto più adatte, remunerative e di caratura internazionale. Le falesie di granito belle poi, in generale, sono molto rare, spesso sono placche chiodate a spit, con linee tutte abbastanza simili.

Esplorando le Torri di Noasca, avevamo notato sulla destra una grande struttura rocciosa che richiamava, per le sue forme, il famoso mezzo cupolone Half Dome della Yosemite Valley. Il nostro era esattamente in scala 1:10, alto circa 70 metri nel punto più elevato e segnato da linee di salita naturali di straordinaria qualità. Che fosse la falesia che tanto mancava alle Valle Orco? Intanto raggiungerlo a piedi era una impresa, in mezzo a salti di roccia e vegetazione inestricabile. Un gioiello ben difeso.

Fausto Aimonino, un local di Noasca, ci aveva accennato ad un antico sentiero, ma visto il luogo inaccessibile sembrava più una leggenda che altro. A suo favore vi erano, alla base della parete, straordinarie strutture costruite dall’uomo, muri con pietre ciclopiche disposte per ricovero di animali e persone.

Dopo diverse prove, scoviamo i passaggi chiave tra le pareti e scorgiamo segni di antichi gradini. Con pazienza, intuizione e un grande lavoro da boscaioli, abbiamo riesumato l’antica traccia che stranamente è segnata per tutto il percorso da betulle che aiutano l’orientamento.

Il "Sentiero delle Betulle", così l’abbiamo chiamato, è sicuramente l’opera di cui andiamo più fieri, perché con 45/50 minuti di percorso, tra panorami mozzafiato, si giunge in tutta comodità nel cuore di questo angolo selvaggio e sconosciuto della Valle dell’Orco. Il resto, complice un inverno mite, sono sei mesi di lavoro per pulire e scovare le linee più belle.

La qualità e aggiungerei anche una forte valenza estetica, sono elementi fondamentali della nostra ricerca. Non abbiamo realizzato tutte le linee possibili, per far numero, ma solo quelle che la struttura della pietra ci indicava. Messi tutti insieme i tiri tracciati farebbero una straordinaria Big Wall, ma il bello è che qui si scala con una corda da 80 metri, due serie di friend e una di nut, su monotiri spettacolari o brevi vie di due massimo 3 lunghezze. La sensazione, appena ci si alza da terra, è di essere su una parete di vaste dimensioni, le scenografie sono quelle grandiose del granito.

EAGLE TEAM: OPERAZIONE CLANDESTINO
Per un caso fortuito, ovvero cattive condizioni sul Monte Bianco, il gruppo dell’Eagle Team ha anticipato il suo arrivo in Valle lunedì 15 aprile (dovevano arrivare il venerdì). Proprio quel lunedì, disceso al termine di una giornata di pulizie, sbrindellato e sporco ancora di terra, incontro a Noasca Matteo della Bordella con i suoi ragazzi.

Sulla valle dell’Orco è piombato il gelo, temperature basse e vento e così propongo a loro di venire a vedere questo nuovo spot, dove c’è anche uno straordinario tiro appena finito e da liberare, il Clandestino. Spunta dal nulla anche Nicola Tondini che accompagna la troupe che documenta le giornate dell’Eagle Team. Mi fa un immenso piacere, perché lo conosco da un po’ e ho per lui una grande ammirazione come persona e per lo stile delle sue scalate.

Matteo, noto per la "Via meno battuta", coerente, mi da fiducia e accetta la proposta e con lui un manipolo di fortissimi fedeli, tra cui la giovanissima Iris Bielli. Mercoledì mattina ci troviamo e un ragazzo indeciso mi chiede se il posto merita, preso di sorpresa rispondo "secondo me, sì", mi guardo intorno e alla partenza mi rendo conto che tolto Claudio e il mio amico Filippo Ghilardini , nessuno ha mai visto questa falesia e magari me ne sono innamorato troppo. Ma ora è tardi e tocca ballare e tenere la parte.

Stiamo ormai salendo sul sentiero, se, come dice mia moglie Sabrina, toscanaccia, l’ho fatta fuori dal vaso, il disastro mediatico sarà mondiale. Nicola, Matteo..i ragazzi già famosi hanno decine di migliaia di followers, se diranno come Fantozzi dopo il film "la Corazzata Potemkin" che il Piccolo Half Dome che è una "Cagata pazzesca" sarà il diluvio universale.

Mi sento come uno che ha scritto uno spartito su una carta di formaggio e a suonarla ha l’orchestra della Scala. Su Bongo Bong c’è Matteo, su Me Gustas tu Nicola, Iris si scalda sull’offwidth del Desaparecido attendo da un momento all’altro il grido fantozziano.

Altri ragazzi, tra cui Riccardo Volpiano, Luca Ducoli, Matteo Monfrini e il tutor David Bacci (reduce da grandi imprese in Patagonia), sono attratti dalla Bolted Crack. Una misteriosa fessura sulla vicina Seconda Torre di Noasca, con spit vecchi più di trent’ anni, che aspettava, come i templi cambogiani di Angkor, di essere riscoperta. Mi ero portato il trapano e propongo a loro di scalarla e mettere la sosta che manca, ora c’è solo la nostra targhetta. All’ultimo compare anche l’amico Roberto Rossi sempre curioso delle novità, con un collega Guida alpina di Como.

I tiri convincono, Nicola esce soddisfatto dalla impegnativa placca di Me Gustas tu… ora tocca al Clandestino che regala, in una giornata gelida, un raggio di sole. Si presenta in tutto il suo splendore e le poche tracce di umido sono scomparse col vento. Questo posto mi vuole bene.

Il Clandestino cede a Matteo della Bordella e a Matteo Monfrini, per ora con le protezioni in loco. I due, con siparietto divertente, come da copione, non rivelano il grado. La Bolted Crack, dopo spettacolari tentativi stile Separate Reality, resiste. Gli spit su questa fessura sono figli dell’epoca, di certo in passato non è stata mai stata salita in libera, ma il chiodatore ha immaginato una linea avveniristica. Mesi di nostre ricerche per scovare l’autore non hanno dato risultati. Io e Claudio siamo felici di avergli donato nuova visibilità, di averla ripulita e resa scalabile e di avergli dato un nome che dice tutto.

Claudio, che purtroppo è assente, ed io, forse abbiamo superato lo stress test, la nostra falesia convince, anche Matteo si ripromette di tornare e mi dice che può essere la Yosesigo della Valle Orco, solo un po’ più difficile. Io abbozzo, poi confesso che non so dove sia sto posto… vado a vedere su internet e leggo che è una delle falesie più belle dell’Ossola.

I GRADI?
Già, di gradi non ho parlato, e non ne parlerò. Anche a Matteo e ai suoi ragazzi ho proposto di scalare un giorno senza l’ossessione o l’obiettivo del grado, non per polemica, ma per farsi catturare una volta dalla bellezza della scalata, del luogo e vivere una piccola avventura. Avventura fa rima con incertezza, non abbiamo neanche dato indicazioni precise su quali friend portare. L’unica certezza sono le soste e la pulizia dei tiri per quanto possibile. L’arrampicata sportiva è stata salutare per la progressione dell’alpinismo, ma ora mi sembra che i giovani siano concentrati esclusivamente sul grado da portare a casa e mettere su Instagram. Quando apriamo le vie non ci chiedono neanche più se è bella, ma che grado è…

In Valle Orco il primo 8a è stato scalato dal mio caro amico Rolando Larcher, un trentino, nel 2002! La Valle non è una mecca delle difficoltà, riavviciniamoci rilassati al contatto con la roccia, facciamoci catturare dal fascino delle linee, dall’ambiente naturale che ci pervade e lasciamo spazio ad un pizzico di incertezza, di avventura, valutando con i nostri sensi quello che possiamo fare e quello che richiederà più impegno.

Ormai per leggere un territorio ci affidiamo al navigatore, al satellite, in realtà seguendolo sullo schermo ne diventiamo dipendenti, non alziamo la testa e perdiamo la percezione dell’ambiente circostante, i nostri sensi si annullano e non sappiamo più dove siamo. Se per qualche motivo il navigatore si spegne, ci ritroviamo come in mezzo al mare, impauriti nella notte, con un salvagente di pietra.

Nella nostra società vogliamo avere tutto sotto controllo, pensando di governare tutto razionalmente. Per lavoro tenevo corsi per parlare in pubblico e ricordo bene che le difficoltà maggiori le aveva chi pensava di governare ogni cosa con foglietti, schemi …dimenticandosi di guardare chi aveva davanti, dimenticandosi di comunicare anche la sua emozione, spesso più importante del contenuto.

Il pilota di formula uno che tiene d’occhio tutti gli strumenti non va forte, i veri campioni si affidano ai loro sensi per arrivare al limite della tenuta in curva, pochi centesimi di secondo dividono un campione da un brocco, la differenza la fa la pancia non la testa. Ci figuriamo come esseri razionali (di testa) ma il novanta per cento delle nostre decisioni sono frutto dell’inconscio (di pancia).

Non sappiamo più navigare a vista …con percezione animale. Dico sempre ai miei allievi della Scuola Gervasutti, un bravo alpinista e un bravo istruttore non è solo quello che fa il 7b, ma è quello che nella nebbia e nella tempesta, senza mezzi sa ritrovare la strada del ritorno, affidandosi ai propri sensi, alla propria esperienza. Non c’è scritto sui libri come si fa, ma salva la vita.

Negli anni ’70 per noi c’era solo la Scala Welzenbach fino al VI+. Noi davamo massimo V+ perché il VI era il limite delle difficoltà umane e noi eravamo solo ragazzi, non di certo il top mondiale. Alcuni tiri scalati negli anni ’70, come il Diedro atomico, sono gradati 6c+, ma a noi interessava l’avventura, la scoperta, il coraggio di affrontare una fessura solo con pochi hexcentrics, senza poter cadere e sperando in una pianta o un masso per far sosta.

Ora ci sono i comodissimi friend, le soste a spit, ma un pizzico di suspense, di brivido, va lasciato, o diventa solo un esercizio fisico, sportivo, che in luoghi come Ceuse o Finale ha sicuramente molto più senso. Scalare in valle Orco si avvicina forse più all’arte che allo sport. Anche in Val di Mello, alla fine degli anni ’70, l’immagine simbolo non era uno appeso su gradi da paura, ma Ivan Guerini che parlava ad una farfalla , in armonia con l’ambiente naturale. Recuperiamo un po’ di quello spirito, nulla ci verrà tolto, ci potremo solo guadagnare.

Forse un domani ci arrenderemo e metteremo gradi e tipi di friend, ma ora no, come non va spolilerato il finale di un film. Sappiamo che non sarà una scelta popolare, chi vorrà provare chiuderà qualche tiro in meno ma forse porterà a casa qualche emozione in più. Claudio ed io, superstiti esploratori degli anni ’70, vogliamo lasciare questo spazio libero alla vostra scoperta, come l’abbiamo trovato noi, seppur addomesticato dal quel comodo sentiero delle Betulle, dalle soste e dalla pulizia dei tiri.

Gian Piero Motti in contrapposizione con l’alpinismo eroico diceva "Le montagne non si conquistano, si amano" e citava Gary Hemming "di una via portatevi via solo il ricordo e le fotografie". I ragazzi dell’Eagle Team e Matteo stesso, per un giorno hanno colto questi messaggi e a fine giornata nessuno parlava di gradi, ma di bellezza, impegno, avventura.

Andrea Giorda CAAI – ALPINE CLUB UK

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