Everest, il film e l'alpinismo himalayano

Il film Everest del regista islandese Baltasar Kormákur, che racconta la grande tragedia del 1996 sulla più alta montagna del mondo e che sta avendo grande successo nelle sale italiane, e il senso dell'alpinismo himalayano e non. Recensione di Manuel Lugli.
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Il film Everest del regista Baltasar Kormákur
Fare bei film di montagna è difficile. Non parlo di documentari o reportage ma proprio di film con attori, una sceneggiatura e una trama che si dipana nel tempo e nello spazio. I tentativi fatti negli anni, se pure non tantissimi, hanno quasi sempre prodotto risultati imbarazzanti. Pensiamo al “Grido di Pietra”, ad esempio, che pure vedeva all’opera un regista del calibro di Werner Herzog o, molto ma molto peggio, a “Cliffhanger” o a “Vertical Limit”, con le loro pistole spara-chiodi e la nitroglicerina per fare un recupero da crepaccio. Per non parlare del terribile film italiano per la TV “K2”, polpettone improbabile girato nel giardino di casa. Qualche bella eccezione c’è stata: “Cinque giorni un’estate” di Fred Zinneman, in cui la montagna è protagonista nella storia d’amore di un fascinoso Sean Connery e della sua giovane compagna di salite. O al bel thriller “Assassinio sull’Eiger”, dove assieme ad una storia avvincente si ammirano scene di alpinismo davvero belle e credibili. Ma per il resto è nebbia.

Dunque da “Everest”, ultimo arrivato di questo filone, non mi aspettavo granchè, se non l’ennesima americanata piena di effetti digitali e personaggi improbabili. Del resto, a parte conoscerne il successo commerciale piuttosto netto - addirittura è ancora nelle sale nel momento in cui scriviamo, dopo oltre un mese di programmazione - e il solito commento negativo preventivo di Reinhold Messner, avevo potuto farmi una vaga idea (non esaltante) solo dai trailer proiettati sui vari media.

Con queste premesse, avendo letto ai tempi sia il libro "Aria sottile" di Jon Krakauer che "Everest 1996" di Anatoli Boukreev, conoscendo bene la montagna e soprattutto essendo stato personalmente presente sulla montagna in quella fatidica primavera 1996 – anche se sul versante tibetano – sono andato a vedere il film.

In sala ho cercato di seguirlo con occhio critico ma non prevenuto e forse è servito, perchè all’uscita mi sono reso conto che riuscivo soprattutto a descriverlo per quel che “Everest” NON è. Non è un brutto film in senso assoluto. Certo, bellezza e bruttezza sono spesso termini soggettivi. Ma se affermo che “Vertical limit” è un film pessimo, credo che questo valga più o meno per tutti. Everest non è pessimo. Non è “esagerato”. Le scene sono verosimili, le tecniche alpinistiche, a parte qualche piccola, incongruente concessione al brivido (gli alpinisti che scivolano in basso attaccati alle corde fisse con la jumar) sono più o meno corrette. Non ci sono effetti super-speciali. A parte l’arrivo della tempesta che sembra una nuvola extraterrestre con dentro l’astronave – mai vista una tempesta muoversi così in Himalaya - la montagna è ripresa bene, i campi lunghi sono reali(stici) e la fotografia è piuttosto bella.

Poi ho cominciato a fare una serie di altre considerazioni. Se è vero che non è un brutto film, “Everest” è una pellicola che, agli occhi di chi conosce bene la storia di quella terribile primavera, rimane in superficie per molti aspetti - se non proprio tutti. I personaggi sono poco caratterizzati, sia i principali che i secondari; solo Rob Hall risulta essere un po’ più approfondito, con la sua etica rigorosa e la meticolosa organizzazione. Ma per il resto si tratta di poco più che schizzi di personaggi. Scott Fischer è l’ombra di quel che era in realtà: a parte il ritratto da “fricchettone” semi-alcolista, sembra quasi un sempliciotto che si adatta subito alle richieste di Hall. Boukreev ha quasi i tratti dell’Ivan Drago di Rocky: due parole appena in finto russo e forza disumana che viene fuori nel soccorso finale al Colle Sud; per il resto del film si vede appena. Solo un accenno, col suo rifiuto dell’ossigeno, alla sua filosofia di guida d’alta quota, peraltro ampiamente esposta nel suo libro “The Climb”, uscito poco dopo “Aria sottile”. Quanto agli altri: Beck Weathers è il prototipo del texano spaccone mentre Yasuko Namba sembra capitata lì per caso - e Krakauer pure, in fondo.

Comunque se è vero che per chi non ha letto i libri, le scene e i confronti tra i personaggi possono anche apparire realistici, per chi conosce la storia tutto è troppo debole e accennato, non scende sotto il primo strato della semplice descrizione. Anche la rivalità Hall-Fisher per riuscire ad accaparrarsi clienti e giornalisti, nei fatti piuttosto accesa, e l’approccio alla gestione dei clienti sulla montagna, molto diverso tra i due – Krakauer evidenzia questo aspetto nel suo libro – nel film sono appena accennati. La critica “sociale” alla follia delle spedizioni commerciali sui colossi himalayani, elemento centrale di tutta la discussione post- tragedia sui media e nel mondo alpinistico, proprio non c’è: di nuovo solo un timido accenno in una brevissima scena al campo base, in cui la guida di un’altra spedizione commerciale mostra ai clienti come montare i ramponi e tutto si chiude lì.

Per tutti questi motivi, il paradosso più alto di “Everest” si raggiunge durante la scena della morte di Hall bloccato sulla montagna, nel momento in cui dal campo base viene messo in contatto via radio con la moglie. Questo momento, il più drammatico e vero di tutta la pellicola perchè vero nella realtà, sembra solo un espediente drammaturgico per strappare un’emozione - e una lacrima – in più. E in sala c’è chi non manca di far notare ad alta voce l’ ”esagerazione”...

Non si può certo dire che non mancasse materiale. Anzi il regista islandese Kormàkur parte proprio da libro di Krakauer: un bel libro, scritto bene, che affascina e tiene incollati alle pagine, anche se molto “americano” per quel che riguarda le valutazioni sull’operato di Boukreev come guida. Non a caso dopo l’uscita di “Aria Sottile” Boukreev pubblica il suo libro con la propria versione dei fatti. Forse proprio su questa diversa visione del lavoro di guida d’alta quota si sarebbe potuto lavorare, fornendo al pubblico che non conosceva la storia del 1996 e il mondo dell’alta quota, elementi più utili per valutare personalmente le cose. Il libro di Boukreev, se pure letterariamente non così accattivante, è estremamente utile per bilanciare il racconto dei fatti e capire le pieghe di un evento che è stata una lunga catena di errori tenuta insieme da una dose di fatalità. Ma probabilmente sarebbe stato un altro film e avrebbe richiesto una capacità di lavoro sui personaggi molto maggiore e più approfondita. Così rimane un film semplice che piace al grande pubblico, ma sicuramente non soddisfa gli addetti ai lavori o chi si aspettava qualcosa di più.

Certo non è facile per nessuno raccontare l’Everest, meno che mai attraverso un film che si propone di arrivare al grande pubblico: condensare paure, ambizioni, azzardi, speranze, mescolare coraggio, vigliaccheria, meschinità e altruismo in un racconto comprensibile è impresa ardua. L’Everest, come tante montagne himalayane, è un mix di tutti questi sentimenti e li sublima con la caratteristica unica di essere la montagna più alta della Terra.

Anche il lato nord ha avuto, quella primavera, i suoi caduti: tre indiani morti per sfinimento sopra gli 8.300 metri e un austriaco, impegnato in una “solitaria” nell’affollamento di corde fisse, sherpa e alpinisti, fitti anche sul versante nord. Mentre ci muovevamo sulla cresta nord dell’Everest, esattamente in quei giorni del 1996, assieme a Nives Meroi, Romano Benet e altri compagni d’avventura, mai avremmo immaginato quel che sarebbe successo, quale tragedia si sarebbe condensata sulla montagna. Col vento che montava, scendendo dal colle nord nel whiteout completo, pensavamo che sarebbe stato davvero complicato, per usare un eufemismo, trovarsi in alto. Nel 1996 le notizie viaggiavano molto più lente: telefono satellitare, qualche primo computer al campo base per le spedizioni più ricche, ma niente Facebook, Twitter, Whatsapp o altri “social” media.

Le notizie arrivarono al campo base nord con ritardo e ben confuse, nei nomi e nei numeri. L’unica cosa certa è che era stato un vero disastro. Solo una volta rientrati a Kathmandu a fine spedizione, capimmo qual era la portata, anche mediatica, di ciò che era accaduto: giornali, riviste, internet, tutti parlavano dell’ecatombe dell’Everest.

Era già accaduto al K2 nel 1986, 13 alpinisti morti - Kurt Diemberger ne aveva raccontato nel bellissimo libro “K2 sogno e destino” – e sarebbe accaduto ancora, di nuovo al K2 nel 2008, 11 alpinisti persi sulla montagna. Tra queste epopee, che sono ricordate soprattutto per la concentrazione di alpinisti caduti nel corso di un solo evento, si dipana la storia dell’himalaysmo, con centinaia di altri alpinisti rimasti sulle montagne durante l’inseguimento dei propri sogni.

Dodici anni fa, scrivendo un articolo dopo aver perso un amico proprio sull’Everest, avevo annotato:
“Gli alpinisti, professionisti o dilettanti che siano, continuano a salire le montagne himalayane e l’Everest con quell’ostinazione che sempre sottende i sogni più potenti. Questi non sono influenzati dal raggiungimento della cima; il sogno non è professionista nè dilettante. Il sogno è neutro e puro, rarefatto come l’ostinazione.

Il nostro corpo d’acqua, al novanta per cento,
è strapieno d’ossigeno,
la neve calpestata, che ci ha inzuppato i panni,
pure è zeppa di ossigeno
e le rocce sono tenute insieme
dal reticolo di atomi di ossigeno,
ma noi quassù testardi
lo cerchiamo dove meno ce n’è,
scarso nell’aria povera di peso.


E’ la poetica lucidità di uno scrittore come Erri De Luca, a regalare la più bella descrizione dell’alpinismo d’alta quota che io abbia mai sentito. A cogliere l’essenza primaria di questo alpinismo: la caparbietà, l’ostinazione che supera ogni limite di razionalità e calcolo per farsi sublimazione di fatica, azione e, a volte, azzardo. Una dedizione fisica e psicologica che s’inizia molto prima e termina molto dopo la spedizione stessa, con uno straniamento acuto che richiede tempo prima di placarsi. I morti di questi giorni, così come i salitori felici, sono sognatori ostinati. Come quelli che hanno tentato, tentano e tenteranno ogni montagna di ottomila metri. Ognuno con la sua propria natura. Si sa, non è facile comprendere la complessità delle motivazioni che spingono uomini e donne ad affrontare salite lunghe e rischiose come quella dell’Everest. Ancora una volta cito il film Elephant di Gus Van Sant, o meglio la parabola che sta alla base del titolo. Questo si riferisce ad un’antica parabola buddista che narra di alcuni uomini ciechi che esaminano un elefante: le orecchie, la coda, la proboscide, le zampe. Ognuno di loro è convinto di aver compreso la vera natura dell’animale basandosi sulla parte che sta esaminando, cioè che l’animale sia un serpente, un albero, una corda, un ventaglio od una lancia. Ma nessuno di loro vede l’intero, ne capisce l’intera natura. Utilizzando la parabola nel contesto di questo alpinismo, si potrebbe dire che molti sono spesso convinti di averne compreso la natura basandosi sulla valutazione di un solo aspetto, quasi sempre il più eclatante, ma senza accorgersi di quanto siano molteplici e complicati gli intrecci di pulsioni, sogni, coraggi e paure che muovono le persone su queste montagne. Quanti soloni ciechi, infatti, ad ogni tragedia, siamo obbligati ad ascoltare sui giornali, in televisione o sulla rete, è persino inutile ricordarlo.”

Continuo a ritenere che sia molto difficile far comprendere appieno cosa muove gli alpinisti d’alta quota. Alcuni scrittori – Diemberger su tutti - ci riescono bene: la parola ha spesso una potenza che nessuna immagine riesce a eguagliare. Nessun film, credo, potrà mai riuscirci.

Manuel Lugli

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