Un attimo, e tutto cambia
Per la prima volta dall’incidente, Xenia Minder racconta a Le Temps il dramma vissuto dopo aver trascinato in una caduta in montagna il suo compagno di cordata e di vita, Erhard Loretan.
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Erhard Loretan nello studio della WebTv del Trento FilmFestival (planetmountain.com)
Planetmountain.com
Il 28 aprile scorso Erhard Loretan, uno degli himalaysti e degli alpinisti più forti di tutti i tempi, ha perso la vita per una caduta in montagna. Allora si scrisse che, sulla Cresta del Grünhorn, Loretan stava "lavorando" come Guida alpina: era legato ad una "cliente" che, dopo l'incidente, era stata ricoverata in gravi condizioni all'ospedale. In realtà quella sua compagna di cordata era Xenia Minder, sua compagna anche nella vita. Ora, per la prima volta, Xenia ha raccontato in un bellissimo articolo pubblicato su Le Temps quel drammatico incidente, e soprattutto ciò che sta vivendo. La sua è una riflessione profonda, emozionante, sincera e densa di interrogativi. Assolutamente da leggere!
UN ATTIMO, E TUTTO CAMBIA di Xenia Minder
Quasi sei mesi fa ho trascinato con me, lungo una caduta di oltre 200 metri, Erhard Loretan, l’uomo che amavo, e anche uno dei più forti alpinisti al mondo. La corda, quel legame sempre presente nelle nostre numerose ascensioni, quel giorno si è dimostrata maledettamente affidabile, facendolo precipitare dietro di me, per poi lasciarlo senza vita al mio fianco.
La morte di Erhard, una tragedia per la Svizzera che l’ha visto nascere, crescere e vivere, ha colpito ancor di più perché avvenuta proprio nel giorno del suo 52esimo compleanno. Tante persone si sono stupite nel vedere che un uomo come lui, il terzo al mondo ad aver scalato senza ossigeno le 14 montagne più alte della Terra, abbia perso la vita nel percorrere una modesta cresta sulle Alpi, sul Gruenhorn, nel Vallese, in compagnia di una donna che la stampa, per una volta discreta, ha descritto come “una cliente bernese di 38 anni, gravemente ferita e ricoverata in ospedale”.
Erhard era un purista della montagna. Sempre rispettoso e umile, si era costruito una reputazione internazionale per il suo stile leggero e rapido, a qualsiasi altitudine. Applicava questa stessa logica al suo mestiere di guida, spiegando ai clienti che non includeva servizi accessori di confort e assistenza, ma solo quello di essere guidati. Al mattino le nostre ascensioni cominciavano con un tradizionale: “Ciao , tesoro mio, oggi sono cavoli tuoi” - ammorbidito subito dal suo dolce sorriso - per poi finire molto spesso con bivacchi gelidi, stellati e meravigliosi e, come ricompensa e magra cena dopo dodici ore di marcia, un delizioso Choquito…
Nessuno mi ha addossato la responsabilità della morte di Erhard. Ma, dalla sua scomparsa, sono sommersa da un vuoto assoluto, aggravato dai sensi di colpa.
Dieci anni fa, ugualmente, Erhard era sulle prime pagine della stampa, sempre per ragioni tragiche. Il 23 dicembre 2001, mentre era nel suo chalet a Crésuz, in Gruyère, da solo con il figlio di sette mesi, lo ha scosso, brevemente, per calmare il suo pianto. Il bambino è morto. Erhard è stato condannato a quattro mesi di carcere con la condizionale, per omicidio dovuto a negligenza.
Erhard si è comportato in modo coraggioso e dignitoso di fronte alla scomparsa del figlio. A quel tempo la Sindrome del bambino scosso (Sbs) era quasi sconosciuta, ma lui decise di divulgare il suo nome ai media nella speranza di evitare drammi simili ad altri genitori.
Come mi ha detto più di una volta, Erhard si è sentito sollevato per essere stato condannato dalla giustizia degli uomini, anche se - secondo le sue stesse parole il giorno del processo - quella pena non era minimamente paragonabile a quello che avrebbe sofferto fino alla fine dei suoi giorni.
Ma, durante e dopo il processo, Erhard è diventato il bersaglio di violenti attacchi pubblici. Com’era possibile che un uomo che aveva sfiorato così tante volte la morte nelle sue incredibili ascensioni, avesse potuto perdere i suoi nervi d’acciaio così facilmente proprio con il sangue del suo sangue, innocente e indifeso?
Di fronte a questa perdita irreparabile e alla caccia all’uomo mediatica, Erhard è cambiato. Ovviamente, aveva già perso molti amici in montagna. Ma come ho potuto constatare nel corso dei nostri due anni di felicità, la perdita del proprio figlio era una tragedia dalla quale non si era ripreso, anche se ormai cominciava ad immaginare di nuovo la vita, con me, con tutti i progetti possibili.
Erhard non ha mai voluto la morte del figlio, allo stesso modo in cui io non ho mai voluto la sua.
Il nostro incidente sarebbe stato giudicato diversamente se io non avessi trascinato Erhard nella mia caduta? Oppure, se lui fosse sopravvissuto, sarebbe stato nuovamente il bersaglio di un’offensiva dei media? Sarebbe stato accusato dall’opinione pubblica di aver ucciso, per negligenza, la sua compagna, molto meno esperta di lui, su quelle montagne che conosceva così bene?
Perché due eventi tanto simili vengono trattati in modo così diverso?
Quante più volte mi è stato ripetuto di essere una miracolata, tanto maggiore è stata la mia frustrazione nel dover indossare il ruolo di eroina sopravvissuta, piuttosto che quello di alpinista distratta, la cui disattenzione ha causato una tragedia.
Per questa ragione, tre settimane dopo l’incidente, ho parlato con il procuratore incaricato del dossier per sapere se sarei stata interrogata in qualità di “persona informata dei fatti”, secondo la terminologia del nuovo Codice di procedura penale. Lui mi ha spiegato che la questione era già chiusa e che presto il caso sarebbe stato archiviato. Nel dossier, di cui mi è stata trasmessa copia su mia richiesta, ho scoperto, in base alle dichiarazioni delle guide e dei medici intervenuti sul luogo dell’incidente, l’esistenza di un’unica testimonianza, la mia: una relazione di diverse pagine scritta la mattina successiva all’incidente da un poliziotto, di cui non ho alcun ricordo. Ero in stato di choc e sicuramente sotto l’effetto di pesanti farmaci. La firma tremolante apposta in calce a ognuna di quelle pagine è sicuramente la mia….
Il contenuto di quel processo verbale corrisponde in modo sorprendente al mio ricordo confuso dell’incidente e quindi a ciò che ho potuto dichiarare. Dopo aver tolto gli sci e iniziato a salire la cresta che ci avrebbe portato in vetta, il mio piede sinistro è scivolato, facendomi cadere sulla parete. Immagini-flash di balzi all’indietro, la corda che si srotola, i salti di roccia e di ghiaccio, una preghiera per non soffrire troppo prima di morire.
Nessuno ha mai messo in dubbio l’esattezza dei miei ricordi e neppure se era possibile che io ne potessi avere, dopo 200 metri di volo e sette ore trascorse sulla neve ad aspettare, incosciente e in grave stato di ipotermia, l’arrivo dei soccorsi.
Sia i miei amici che i colleghi a me più vicini hanno imputato la mia indignazione, nell’apprendere che il caso era stato archiviato, al mio stato di profondo choc.
Sul piano giuridico la mia ribellione è stata rapidamente smorzata. Di professione giudice, ho dovuto riconoscere che il verdetto di incidente non poteva essere messo in discussione, poiché Erhard, vista la sua esperienza, era per definizione in una posizione di garante nei miei confronti. Quindi era del tutto inutile protestare contro il fatto che era stato considerato automaticamente la mia guida, senza che nessuno si premurasse di verificare se la nostra relazione amorosa fosse accompagnata anche da una relazione contrattuale, che sarebbe una condizione necessaria per riconoscere la qualità di guida.
Sul piano personale, invece, la mia incomprensione è andata avanti, e va ancora avanti, suscitando a sua volta quella degli altri che, unanimemente, spiegano questo incidente con termini di circostanza: il “destino”, il “caso”, “non era giunto il tuo momento”.
Perché allora il mio malessere?
Senso di colpa del sopravvissuto? Sì, sicuramente, ma sensazione di colpevolezza soprattutto perché Erhard, lui, non ha beneficiato di alcuno sconto quando ha perso il figlio. Forse a causa della sua celebrità. Nel momento esatto in cui si è diffusa la notizia del suo gesto e delle sue drammatiche conseguenze, alcuni media, e con loro parte dell’opinione pubblica, lo hanno considerato responsabile di quella morte, fregandosene del suo dolore di padre.
Proprio nelle ore in cui scrivo queste righe, L’Illustré propone la candidatura di “Ehrard (sic) Loretan” al suo concorso per eleggere “il Romancio (l'atleta romando) del secolo”, giustapponendo le sue prodezze himalayane al suo dramma personale: c’è da chiedersi per quali di questi due fatti epocali bisognerebbe eleggerlo? Ed infatti, sotto alla sua foto nel poster della rivista, si può leggere: “Protagonista dell’ascensione senza ossigeno delle più alte vette del globo, fu oggetto di un’ammirazione universale fino a quella sera del 2003 (sic!) quando, stremato dal pianto incessante del suo bebé, compì l’irreparabile scuotendolo troppo forte”.
Io stessa avevo sentito delle persone parlare di Erhard come di “colui che ha ucciso suo figlio” e quindi non fui affatto sorpresa quando, nel corso della nostra prima salita assieme, mi annunciò che rifuggiva due categorie di persone: gli avvocati e i giornalisti. Gli dissi che era capitato male, perché io ero giudice e mio fratello giornalista…
Questa sfiducia di Erhard non era legata solo alla sua esperienza personale. Derivava anche dall’accresciuta giuridicizzazione degli incidenti di montagna, conseguenza, sosteneva lui, di una società tecnologicamente avanzata e avida di rischi, ma inadatta ad assumerli.
Erhard era critico nei confronti dei rischi corsi da alpinisti esperti a causa dei neofiti che si muovono da soli in un mondo di cui non conoscono nulla. Parallelamente, criticava la deresponsabilizzazione assoluta dei clienti nei confronti delle loro guide. Secondo lui, in troppi processi risultava che le guide avessero come unico torto quello di aver rischiato la propria vita per guidare i clienti in escursioni che si sono rivelate tragiche solo per il loro esito fatale. Come la nostra...
La sua reazione, certo, era molto emotiva, legata intrinsecamente al suo mestiere di guida. Io, come giudice, non posso biasimare l’applicazione della legge. Ma avendo perso colui che amavo in quelle terribili circostanze del 28 aprile 2011, la mia coscienza è scossa. In particolare, nel constatare che le nozioni di colpevolezza e innocenza , indipendentemente dal verdetto giudiziario, possono distinguersi fra loro per un soffio appena. Un semplice gesto di troppo nel caso di Erhard. Oppure un sottile strato di ghiaccio, come quello che mi ha fatto perdere l’equilibrio quel fatidico giorno.
Testo: Xenia Minder
Traduzione: Francesca Colesanti
Si ringraziano Xenia Minder e Le Temps.
(Il 21 ottobre 2011, la trasmissione “Passe-moi les jumelles” (passami il binocolo) alla TSR1, che durerà eccezionalmente un’ora consecutiva, sarà dedicata a Erhard Loretan e riunirà le testimonianze di coloro che l’hanno conosciuto. vai al Video)
UN ATTIMO, E TUTTO CAMBIA di Xenia Minder
Quasi sei mesi fa ho trascinato con me, lungo una caduta di oltre 200 metri, Erhard Loretan, l’uomo che amavo, e anche uno dei più forti alpinisti al mondo. La corda, quel legame sempre presente nelle nostre numerose ascensioni, quel giorno si è dimostrata maledettamente affidabile, facendolo precipitare dietro di me, per poi lasciarlo senza vita al mio fianco.
La morte di Erhard, una tragedia per la Svizzera che l’ha visto nascere, crescere e vivere, ha colpito ancor di più perché avvenuta proprio nel giorno del suo 52esimo compleanno. Tante persone si sono stupite nel vedere che un uomo come lui, il terzo al mondo ad aver scalato senza ossigeno le 14 montagne più alte della Terra, abbia perso la vita nel percorrere una modesta cresta sulle Alpi, sul Gruenhorn, nel Vallese, in compagnia di una donna che la stampa, per una volta discreta, ha descritto come “una cliente bernese di 38 anni, gravemente ferita e ricoverata in ospedale”.
Erhard era un purista della montagna. Sempre rispettoso e umile, si era costruito una reputazione internazionale per il suo stile leggero e rapido, a qualsiasi altitudine. Applicava questa stessa logica al suo mestiere di guida, spiegando ai clienti che non includeva servizi accessori di confort e assistenza, ma solo quello di essere guidati. Al mattino le nostre ascensioni cominciavano con un tradizionale: “Ciao , tesoro mio, oggi sono cavoli tuoi” - ammorbidito subito dal suo dolce sorriso - per poi finire molto spesso con bivacchi gelidi, stellati e meravigliosi e, come ricompensa e magra cena dopo dodici ore di marcia, un delizioso Choquito…
Nessuno mi ha addossato la responsabilità della morte di Erhard. Ma, dalla sua scomparsa, sono sommersa da un vuoto assoluto, aggravato dai sensi di colpa.
Dieci anni fa, ugualmente, Erhard era sulle prime pagine della stampa, sempre per ragioni tragiche. Il 23 dicembre 2001, mentre era nel suo chalet a Crésuz, in Gruyère, da solo con il figlio di sette mesi, lo ha scosso, brevemente, per calmare il suo pianto. Il bambino è morto. Erhard è stato condannato a quattro mesi di carcere con la condizionale, per omicidio dovuto a negligenza.
Erhard si è comportato in modo coraggioso e dignitoso di fronte alla scomparsa del figlio. A quel tempo la Sindrome del bambino scosso (Sbs) era quasi sconosciuta, ma lui decise di divulgare il suo nome ai media nella speranza di evitare drammi simili ad altri genitori.
Come mi ha detto più di una volta, Erhard si è sentito sollevato per essere stato condannato dalla giustizia degli uomini, anche se - secondo le sue stesse parole il giorno del processo - quella pena non era minimamente paragonabile a quello che avrebbe sofferto fino alla fine dei suoi giorni.
Ma, durante e dopo il processo, Erhard è diventato il bersaglio di violenti attacchi pubblici. Com’era possibile che un uomo che aveva sfiorato così tante volte la morte nelle sue incredibili ascensioni, avesse potuto perdere i suoi nervi d’acciaio così facilmente proprio con il sangue del suo sangue, innocente e indifeso?
Di fronte a questa perdita irreparabile e alla caccia all’uomo mediatica, Erhard è cambiato. Ovviamente, aveva già perso molti amici in montagna. Ma come ho potuto constatare nel corso dei nostri due anni di felicità, la perdita del proprio figlio era una tragedia dalla quale non si era ripreso, anche se ormai cominciava ad immaginare di nuovo la vita, con me, con tutti i progetti possibili.
Erhard non ha mai voluto la morte del figlio, allo stesso modo in cui io non ho mai voluto la sua.
Il nostro incidente sarebbe stato giudicato diversamente se io non avessi trascinato Erhard nella mia caduta? Oppure, se lui fosse sopravvissuto, sarebbe stato nuovamente il bersaglio di un’offensiva dei media? Sarebbe stato accusato dall’opinione pubblica di aver ucciso, per negligenza, la sua compagna, molto meno esperta di lui, su quelle montagne che conosceva così bene?
Perché due eventi tanto simili vengono trattati in modo così diverso?
Quante più volte mi è stato ripetuto di essere una miracolata, tanto maggiore è stata la mia frustrazione nel dover indossare il ruolo di eroina sopravvissuta, piuttosto che quello di alpinista distratta, la cui disattenzione ha causato una tragedia.
Per questa ragione, tre settimane dopo l’incidente, ho parlato con il procuratore incaricato del dossier per sapere se sarei stata interrogata in qualità di “persona informata dei fatti”, secondo la terminologia del nuovo Codice di procedura penale. Lui mi ha spiegato che la questione era già chiusa e che presto il caso sarebbe stato archiviato. Nel dossier, di cui mi è stata trasmessa copia su mia richiesta, ho scoperto, in base alle dichiarazioni delle guide e dei medici intervenuti sul luogo dell’incidente, l’esistenza di un’unica testimonianza, la mia: una relazione di diverse pagine scritta la mattina successiva all’incidente da un poliziotto, di cui non ho alcun ricordo. Ero in stato di choc e sicuramente sotto l’effetto di pesanti farmaci. La firma tremolante apposta in calce a ognuna di quelle pagine è sicuramente la mia….
Il contenuto di quel processo verbale corrisponde in modo sorprendente al mio ricordo confuso dell’incidente e quindi a ciò che ho potuto dichiarare. Dopo aver tolto gli sci e iniziato a salire la cresta che ci avrebbe portato in vetta, il mio piede sinistro è scivolato, facendomi cadere sulla parete. Immagini-flash di balzi all’indietro, la corda che si srotola, i salti di roccia e di ghiaccio, una preghiera per non soffrire troppo prima di morire.
Nessuno ha mai messo in dubbio l’esattezza dei miei ricordi e neppure se era possibile che io ne potessi avere, dopo 200 metri di volo e sette ore trascorse sulla neve ad aspettare, incosciente e in grave stato di ipotermia, l’arrivo dei soccorsi.
Sia i miei amici che i colleghi a me più vicini hanno imputato la mia indignazione, nell’apprendere che il caso era stato archiviato, al mio stato di profondo choc.
Sul piano giuridico la mia ribellione è stata rapidamente smorzata. Di professione giudice, ho dovuto riconoscere che il verdetto di incidente non poteva essere messo in discussione, poiché Erhard, vista la sua esperienza, era per definizione in una posizione di garante nei miei confronti. Quindi era del tutto inutile protestare contro il fatto che era stato considerato automaticamente la mia guida, senza che nessuno si premurasse di verificare se la nostra relazione amorosa fosse accompagnata anche da una relazione contrattuale, che sarebbe una condizione necessaria per riconoscere la qualità di guida.
Sul piano personale, invece, la mia incomprensione è andata avanti, e va ancora avanti, suscitando a sua volta quella degli altri che, unanimemente, spiegano questo incidente con termini di circostanza: il “destino”, il “caso”, “non era giunto il tuo momento”.
Perché allora il mio malessere?
Senso di colpa del sopravvissuto? Sì, sicuramente, ma sensazione di colpevolezza soprattutto perché Erhard, lui, non ha beneficiato di alcuno sconto quando ha perso il figlio. Forse a causa della sua celebrità. Nel momento esatto in cui si è diffusa la notizia del suo gesto e delle sue drammatiche conseguenze, alcuni media, e con loro parte dell’opinione pubblica, lo hanno considerato responsabile di quella morte, fregandosene del suo dolore di padre.
Proprio nelle ore in cui scrivo queste righe, L’Illustré propone la candidatura di “Ehrard (sic) Loretan” al suo concorso per eleggere “il Romancio (l'atleta romando) del secolo”, giustapponendo le sue prodezze himalayane al suo dramma personale: c’è da chiedersi per quali di questi due fatti epocali bisognerebbe eleggerlo? Ed infatti, sotto alla sua foto nel poster della rivista, si può leggere: “Protagonista dell’ascensione senza ossigeno delle più alte vette del globo, fu oggetto di un’ammirazione universale fino a quella sera del 2003 (sic!) quando, stremato dal pianto incessante del suo bebé, compì l’irreparabile scuotendolo troppo forte”.
Io stessa avevo sentito delle persone parlare di Erhard come di “colui che ha ucciso suo figlio” e quindi non fui affatto sorpresa quando, nel corso della nostra prima salita assieme, mi annunciò che rifuggiva due categorie di persone: gli avvocati e i giornalisti. Gli dissi che era capitato male, perché io ero giudice e mio fratello giornalista…
Questa sfiducia di Erhard non era legata solo alla sua esperienza personale. Derivava anche dall’accresciuta giuridicizzazione degli incidenti di montagna, conseguenza, sosteneva lui, di una società tecnologicamente avanzata e avida di rischi, ma inadatta ad assumerli.
Erhard era critico nei confronti dei rischi corsi da alpinisti esperti a causa dei neofiti che si muovono da soli in un mondo di cui non conoscono nulla. Parallelamente, criticava la deresponsabilizzazione assoluta dei clienti nei confronti delle loro guide. Secondo lui, in troppi processi risultava che le guide avessero come unico torto quello di aver rischiato la propria vita per guidare i clienti in escursioni che si sono rivelate tragiche solo per il loro esito fatale. Come la nostra...
La sua reazione, certo, era molto emotiva, legata intrinsecamente al suo mestiere di guida. Io, come giudice, non posso biasimare l’applicazione della legge. Ma avendo perso colui che amavo in quelle terribili circostanze del 28 aprile 2011, la mia coscienza è scossa. In particolare, nel constatare che le nozioni di colpevolezza e innocenza , indipendentemente dal verdetto giudiziario, possono distinguersi fra loro per un soffio appena. Un semplice gesto di troppo nel caso di Erhard. Oppure un sottile strato di ghiaccio, come quello che mi ha fatto perdere l’equilibrio quel fatidico giorno.
Testo: Xenia Minder
Traduzione: Francesca Colesanti
Si ringraziano Xenia Minder e Le Temps.
(Il 21 ottobre 2011, la trasmissione “Passe-moi les jumelles” (passami il binocolo) alla TSR1, che durerà eccezionalmente un’ora consecutiva, sarà dedicata a Erhard Loretan e riunirà le testimonianze di coloro che l’hanno conosciuto. vai al Video)
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