Stati di beatitudine sullo Spigolo Vinci al Cengalo
Per l’alpinista, si sa, l’avvicinamento alla parete è generalmente considerato una noia, una perdita di tempo. Per lui l’azione in parete è l’unico obiettivo. Il resto è per lo più una scocciatura, per fortuna compensata dalla scalata e dal mettere le mani sulla roccia.
Spesso questo è un peccato, perché iniziare a sentire la terra sotto a i piedi mentre si mira alla parete, consente di entrare sin dall’inizio in un rapporto vivo con il percorso, che necessita di apertura di sensi e disponibilità del corpo.
Così i complessi avvenimenti che si succedono nel corso della salita si fanno via via più chiari e nitidi, intrecciandosi con il ricordo.
L’aria frizzante dell’alba si mescola con l’odore delle rocce e del cielo prima del sorgere del sole, decine di tele di ragno tese tra i macigni sono ricoperte di gocce di rugiada.
Nei primi metri d’arrampicata la roccia ghiaccia le mani, un’intemperia che un poco disturba, ma che in fondo rende più intenso il gusto di questo viaggio sul granito del Masino.
Un granito che si fa afferrare lungo spigoli, diedri, lame e fessure perfette. E’ la via capolavoro del grande esploratore, geologo e alpinista Alfonso Vinci.
Ogni appiglio contiene molteplici rivelazioni. Il primo passo delicato d’entrata alla “schiena di mulo” ci pone l’interrogativo di come avranno fatto nel lontano 1939 ad afferrare la soprastante fessura, mentre l’ombroso diedro nero si rivela meno ostico di quanto appaia da sotto grazie ad una serie di piccole prominenze d’anfibolite che indicano la via.
In breve la salita riesce solo se si concatena il passo con la scalata, compensando ogni movimento con il successivo, senza eccessi di foga, né di lentezza, che possono solo portare ad una rottura del fluire verso l’alto.
Senza dimenticare la coscienza della propria vulnerabilità, così lontana dall’idea di conquista.
Michele Comi - guida alpina
info: stilealpino.it