Il Nuovo Mattino? Attuale più che mai!

A distanza di quasi cinquant’anni il 'Nuovo Mattino' torna prepotentemente alla ribalta. Il 22 maggio, dopo il Festival di Trento, a Torino ci sarà la proiezione del film di Tiziano Gaia e Fabio Mancari 'Itaca nel sole', incentrato sulla figura di Gian Piero Motti. Enrico Camanni, coinvolto nella sceneggiatura, ha scritto un libro avvincente intitolato Verso un nuovo mattino - La montagna e il tramonto dell’utopia – Laterza Editore – maggio 2018. Camanni ripercorre con un incalzante racconto l’epopea del Nuovo Mattino, dagli anni ‘70 arriva fino alle prime gare di arrampicata degli anni ‘80, la rivisitazione e le testimonianze ne danno nuova luce. Di seguito la recensione del libro di Camanni e le riflessioni sul Nuovo Mattino di Andrea Giorda.
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Gian Piero Motti al Bec di Mea, 1969
Archivio Ugo Manera

Se chiedete a un italiano a un francese o a un tedesco chi è stato il primo scalatore a superare un passaggio di sesto grado vi diranno con matematica certezza tre nomi diversi, lo stesso accade se fate la domanda a un piemontese a un lombardo o a un veneto e così via fino all’ultimo carneade eroe di un paesino sconosciuto. Se chiedete in qualsiasi parte del mondo chi è stato il primo a scendere sotto i 10 secondi nei 100 metri piani, avrete un’unica risposta. Sarà anche per questo che la storia dell’arrampicata o dell’alpinismo ha ispirato la più grande biblioteca di genere in ambito sportivo. Sportivo in senso lato, in quanto, come diceva il giornalista Emanuele Cassarà, fautore delle gare di arrampicata, la storia dell’alpinismo è a tutti gli effetti una competizione fatta su autodichiarazioni e misurazioni fittizie, aggiungo io anche di molte balle che hanno animato e tenuto acceso un dibattito infinito. A distanza di quasi cinquanta anni il “Nuovo Mattino” non sfugge a questa regola, la domanda chiave su cosa sia stato non ha una sola risposta, anche per chi l’ha vissuto direttamente. Ma il fatto stesso che a distanza di tanto tempo ci si ponga ancora la questione (addirittura in tesi universitarie!) rende ancor più avvincente il percorso che Enrico Camanni ci propone nel suo libro.

E’ da tenere in conto in questa analisi che la storia dell’arrampicata è inscindibile dal mutare della società e che alla fine degli anni 60 si usciva dall’incanto della crescita perenne, con i suoi drammi e le sue contraddizioni. Le guerre non erano più belle e giuste, le fabbriche non erano solo pane ma inquinavano e si era in pieno terrorismo di classe. Anche i Cowboy della nostra infanzia, giustizieri senza macchia nei film di John Ford, nei nuovi western politically correct erano diventati i cattivi e gli Indiani, i buoni gli oppressi.

Ricordo una amabile discussione con Spiro dalla Porta Xidias, alpinista e storico cantore dell’alpinismo “eroico” della prima metà del ‘900, nella quale mi elencò una serie di scalatori e imprese coeve al nostro Nuovo Mattino successe dalle sue parti, le Alpi orientali. In primis quelle di Enzo Cozzolino sul Piccolo Mangarat di Coritenza, concludendo che il nostro punto di vista era molto locale. Non potevo che dargli ragione, più di una volta ripetendo vecchie vie in Dolomiti mi ero trovato molto più in difficoltà che sulla Fessura della disperazione al Sergent in Valle dell’Orco. Ma il punto sta proprio qui, la particolarità del Nuovo Mattino non sta in quello che si è fatto, le scalate in sé, ma da come esse sono state vissute e interpretate. In poche parole dalla Visione che ne è derivata.

Nel tormentato brodo sociale dei primi anni ’70, Gian Piero Motti con i suoi scritti, ha dato voce a qualcosa che era nell’aria ma era inespressa. Gian Piero…e non Giampiero che non gli piaceva…. ha dato corpo ai nostri sogni e con la sua visione ha indicato un nuovo orizzonte. Non è tutta farina del suo sacco, Motti leggeva riviste internazionali ed ebbe la grande intuizione di riproporre i temi delle scalate della californiana Yosemite Valley sulle pareti della Valle dell’Orco. Le “Vie portavano all’altipiano” sul Capitan come sulla sua copia in miniatura, il Caporal in Valle dell’Orco. Non era più importante la punta, la conquista, ma il viaggio in favore della meta. Basta sofferenze ed eroismi, meglio un’esperienza personale e un’avventura fine a stessa, anche su una anonima e soleggiata struttura di fondovalle.Grazie a lui, ancora oggi, per i giovani, l’Orco Valley è un luogo dell’anima, dove vivere esperienze, non solo un posto per agitare i muscoli.

Come descrive bene Camanni noi eravamo dei mutanti, impacciati in pesanti scarponi e incrostati da una cultura che ancora esaltava la sofferenza e l’eroismo. Dei goffi bruchi che già però si sentivano farfalle. Il Cai stesso era fermo nel linguaggio all’epoca di Angelo Manaresi, che durante il fascismo portò la direzione a Roma, per fare delle pubblicazioni del Club Alpino un organo di propaganda, ogni alpinista era un Alpino (!) e quindi votato alla guerra e al martirio. A Torino, da una iniziativa privata, era nata in contrapposizione la Rivista della Montagna, che fu un volano eccezionale per le nuove idee. Gli scritti di Motti, del rivoluzionario Andrea Gobetti e di tanti altri diventarono di dominio comune in tutta Italia, creando il mito del NuovoMattino. Senza Motti, Gobetti e la Rivista della Montagna, le scalate in valle dell’Orco sarebbero state delle belle imprese ma nulla più, forse imprese minori, perché non portavano su una punta da conquistare.

Vi sono uomini nella storia dell’Alpinismo, che sono stati dei simboli perché hanno saputo più di altri interpretare i sentimenti popolari del momento, anche partendo da banali accadimenti. Se Eugenio Guido Lammer dopo il suo tremendo ruzzolone dal canalone Penhall del Cervino non avesse scritto Jungborn (Fontana di Giovinezza), con deliranti riflessioni che affondavano le radici nelle teorie di Nietzsche, sarebbe stato uno dei tanti che in modo miracoloso hanno portato a casa la pelle. Per i giovani dell’epoca, i suoi scritti furono invece una rivelazione che diede il via ad una generazione di alpinisti germanici pronti a tutto, esaltati poi dal regime nazista.

Ho avuto la fortuna recentemente di passare una giornata intera con Mike Kosterlitz in valle dell’Orco, e lui stesso del Nuovo Mattino non sapeva nulla, se non quello che gli era stato da poco riferito. Per Mike, scozzese, era normale scalare su strutture rocciose senza cima come si fa in Galles o nel Pic district e aveva un curriculum straordinario, tra cui la prima ripetizione della Diretta Americana al Dru.

Ha raccontato che nel 1970 vide al lato della strada, nella piana di Ceresole, la famosa fessura che porta il suo nome e disse a Gian Carlo Grassi di fermare. Scese e la scalò in un baleno lasciando tutti sbalorditi. Mike stesso mi confessò che a casa sua era bravo ma non un campione, e questo la dice lunga sul gap che separava gli scalatori del Nuovo mattino dalla scena internazionale, in particolare quella britannica e americana.
Joe Brown e Don Whillans una fessura della stessa difficoltà della Fessura della Disperazione al Sergent, la aprirono sulla Aiguille de Blaitiere nel 1954…. Vent’anni prima di quella della Valle dell’Orco.
Intendiamoci, Ugo Manera, Gian Piero Motti e Gian Carlo Grassi erano esploratori e scalatori di grande livello e hanno lasciato vie stupende, tuttavia rappresentavano per stile e forse, anche per l’età più matura, la tradizione.

Nella seconda metà degli anni settanta la Valle dell’Orco era tornata nell’oblio, noi ragazzi ci accorgemmo che alcune vie avevano una marcia in più. Finivano i chiodi e bisognava pedalare con un excentric tra i denti fino a dove ci si si poteva fermare. Le vie di Roberto Bonelli e Danilo Galante erano il salto di qualità che noi cercavamo, ed erano una bella sfida di coraggio. Galante morì giovanissimo nel 1975 sul Gran Mantì in una bufera di neve, sarebbe stato sicuramente un protagonista negli anni a venire dell’arrampicata moderna. Bonelli che ebbi modo di conoscere, scalò per primo la fessura Kosterlitz nel 1978, raggiungendo un livello tecnico di scala internazionale.

Galante e Bonelli non hanno lasciato grandi tracce scritte e per anni sono apparse come figure minori, io credo che invece nessuno, come loro due, abbia interpretato lo spirito dissacratorio e visionario del Nuovo Mattino. Per noi erano gli esempi da imitare, nel 1979 Gabriele Beuchod scalò in quello stile L’Orecchio del pachiderma al Caporal, nello stesso anno sulla parete dell’Inflazione strisciante io scalai il tiro finale del Diedro Atomico e la fessura Sitting Bull. Avevamo capito la lezione, e come tutti giovani cercavamo di spingerci oltre, ma se il Diedro Atomico era un nome attuale influenzato dalla Guerra fredda, il nome Sitting bull , attingeva ancora, come faceva Galante con Tex Willer, nell’immaginario di avventure con gli Indiani. Manolo, accompagnato da Alessandro Gogna, anni dopo superò un passo che resisteva su Sitting Bull e la fessura diventò famosa grazie alla grande foto su Rock Story. A distanza di quasi quarant’anni sono tornato e l’ho scalata pulita, ma ora è diverso, sembra tutto più facile, il mondo è cambiato.

Bonelli non amava parlare di sé e solo in nome di una vecchia conoscenza gli feci un’intervista, l’unica credo esistente, in cui mi confessò che quando scalò la Fessura della Disperazione arrampicava da solo un anno e poco sapeva del granito e della Valle dell’Orco. Mi raccontò come Motti lo prese a male parole come un gadano qualsiasi, perché in apertura sul Diedro Nanchez non aveva neanche l’imbragatura.

Lui veniva come Galante dal vivaio di nuovi talenti che crescevano sul calcare della bassa Val di Susa, la vera fucina degli scalatori del Nuovo Mattino. Sulla guida di Grassi della Valle di Susa sono numerose le vie aperte da Galante e Bonelli nei pressi dell’Orrido di Foresto, spesso ripetute in solitaria. La via del Risveglio sul Cateissard, anche per il nome indubbiamente evocativo, rientra in pieno tra le vie chiave del Nuovo Mattino.

Bonelli e Galante erano due dissacratori, due naif, Ugo Manera ricorda ora, simpaticamente, che Bonelli e Galante a Courmayeur dicevano seri di aver salito la via Mayor e la Poire sul Monte Bianco. Una balla colossale, presto smentita da testimoni sul posto. L’obiettivo ovviamente era disorientare, rompere la corazza di un mondo ortodosso fatto di ipocrisie e convenzioni, non certo quello di accreditarsi traguardi mai raggiunti.

Della stessa pasta era ed è fatto, essendo ancora felicemente tra noi, Massimo Demichela acuto osservatore e primo dissacratore, anche del Nuovo Mattino stesso.

Il libro di Camanni non si limita al Nuovo Mattino, ma è una avvincente sequenza di fatti e personaggi che si susseguono in modo incalzante, dagli anni ‘70 alle gare di arrampicata della metà degli anni 80. Troviamo Guido Rossa, Marco Bernardi, Wolfang Gullich e tanti altri visti con l’occhio di un testimone diretto, ma anche di un giornalista che ha mosso i suoi primi passi dal 1976, proprio alla Rivista della Montagna con Gian Piero Motti.

Quando anche la Rivista non rispondeva più alla sua ricerca di innovazione si è rimesso in gioco scommettendo sul Magazine Alp, un grandissimo successo editoriale in linea con le più blasonate riviste internazionali. Camanni ha vissuto a contatto con i grandi dell’alpinismo scoprendone le eccellenze ma anche i lati più umani. Toccante il racconto di Wolfang Gullich, il più forte scalatore del mondo che si appende come un acciaiato qualsiasi e fa cilecca alle gare di Bardonecchia. Gullich, ci fa capire Enrico che era troppo fragile per reggere il peso della folla che, come al Colosseo, assisteva impietosa e assetata.

Ho ben impressa nella memoria una frase che Enrico, compagno fraterno di tante avventure, mi disse, nel lontano 1980 “Andrea, abbiamo visto ancora uno scampolo di mondo che non ci sarà più” io allora non capii più di tanto… La spontaneità, l’avventura e lo spirito degli anni ’70 finivano per confluire in una omologazione di massa, di marchi griffati, addio pantaloni stracciati e il significato che si portavano dietro.

Un ricordo con tenerezza, forse anche per i nostri vent’anni, ma senza nostalgia. Altre meravigliose avventure abbiamo visto, la nascita dell’arrampicata sportiva e l’alpinismo in velocità di Jean Marc Boivin e Christophe Profit… fino ai nostri giorni, la meravigliosa storia degli uomini che sfidano e interrogano se stessi continua.

Andrea Giorda CAAI - Alpine Club UK




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