Il mio Everest - Simone Moro e la salita sulla più alta montagna

'Erano le nove del 24 maggio, 40 gradi sottozero mi venivano soffiati addosso dalla potenza di una delle tante bufere himalayane.' Simone Moro racconta la sua salita in cima alla montagna più alta della terra
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Simone Moro, Everest
archivio Simone Moro

Erano le nove del 24 maggio, 40 gradi sottozero mi venivano soffiati addosso dalla potenza di una delle tante bufere himalayane. Ero sul mio Everest, in questo caso quello vero, quello che, a quasi 9000 metri, domina imponente il nostro pianeta. Mi sembravano così lontane e piccole le mie ambizioni. Apparivano così sensate e forti le mie paure.

Perché, a differenza dei luoghi comuni, lassù, non si sfida niente e nessuno, non si comanda, non si domina ma si è dominati. Si è in balia della natura e da essa, semmai, si è semplicemente accettati. Proprio per questo era già la terza volta che tentavo di arrivare lassù ma come in altri Everest della vita, ero stato respinto nonostante avessi "combattuto" con la malasorte e con i miei limiti.

Voler salire sulla cima più alta del globo è da sempre una delle mete più ambite per qualsiasi alpinista. Anch’io, che da 20 anni corteggio la montagna, ho sempre sognato di poter arrivare sul più alto punto raggiungibile a piedi dall’uomo. Tenendo sempre presente che non si tratta né di una sfida né di una conquista. Guai a pensarlo! Si verrebbe uccisi dalla propria ambizione che finirebbe per renderci miopi di fronte ai pericoli evidenti di una salita così impegnativa.

Sono la voglia di sperimentarsi, la sete di sensazioni semplici e forti, il grande amore per la vita e il desiderio di appagare i nostri sentimenti che spingono un alpinista a mettersi in cammino verso l’Everest.

La gente ci giudica dei pazzi, degli incoscienti che hanno perso il senso della vita e che cercano solo guai. Probabilmente questo è il dazio, ma vi confesso che lo pagherei anche con interessi da usuraio, perché troppo grande è la gioia che mi dà ciò che faccio. Gioia, non sballo...

Questo approccio 'filosofico' è ovviamente supportato anche da tanto realismo. Ore ed ore di allenamento che con il passare degli anni diventa sempre più out che in-door. Muscolazione con i pesi e con le macchine, chilometri e chilometri di corsa su qualsiasi terreno e pendenza, centinaia di pedalate in bicicletta e tante giornate passate in compagnia di rocce e ghiacciai ad esercitare tecnica, abilità e a sensibilizzare l’istinto.

Anche se le motivazioni sono molteplici ed individuali, il mio è un alpinismo come tanti altri, praticato da un ragazzo come tanti altri che ha deciso di intendere la propria attività non come il fine della propria vita ma come mezzo per scoprire ed amare la vita.

Scalare le montagne del mondo è il mezzo per scoprire le culture, i popoli, i problemi del mondo. E’ poi, anche, il mezzo per scoprire i propri limiti personali, tecnici e psicologici, nella consapevolezza che tali limiti si possono superare con la determinazione, la motivazione, l’allenamento.

In fondo sono gli stessi stimoli che motivano le persone ad evolvere nella sfera affettiva, lavorativa, sociale. Se gli individui sono mossi dunque dagli stessi stimoli, seppure in ambiti così diversi, non è forse ora che si smetta nel definire gli alpinisti come dei pazzi…? "

DATI TECNICI
I numeri e i dati tecnici della mia ultima avventura sull’Everest:

L’obbiettivo era la traversata Everest-Lhotse ossia la salita in successione della prima e la quarta montagna del pianeta rispettivamente di 8850 e 8516 metri di altezza. Le condizioni erano: assenza di ossigeno e di sherpa, utilizzando lo stile leggero.

Eravamo in due, io e Denis Urubko alpinista del Kazakistan amico e compagno di scalate in Pamir e Thien Shan, effettuate lo scorso anno. La novità del nostro progetto era proprio la salita in successione di due colossi di oltre 8000 metri che sono collegati tra di loro da un colle situato a 8000 metri (il Colle Sud). Questo punto e questa quota avrebbero rappresentato il punto di riposo tra una montagna e l’altra e noi volevamo essere là, senza bombole ed in completa autosufficienza.

L’avvicendamento cronologico della nostra spedizione è passato attraverso parecchie sfortune e disavventure. Maltempo, valanghe, infortuni, furti! La vetta dell’Everest è arrivata, sofferta ma voluta a denti stretti, la traversata invece è ancora là che aspetta qualcuno che la realizzi. Noi a causa di tutte le disavventure e delle condizioni quasi impossibili non l’abbiamo fatta.

Ma è del furto che vi voglio parlare. Pensare di essere derubati al campo base dell’Everest a 5300 metri di quota dovrebbe essere proprio l’ultima delle preoccupazioni, dovrebbe…
Mentre io e Denis Urubko ( il mio compagno d’avventura ) eravamo a 7300 metri di quota e cercavamo invano di trovare la nostra tendina che una valanga si era presa con i quasi dieci milioni di attrezzature all’interno, qualcuno ha pensato bene di "visitare" la mia tendina al campo base e sottrarre il mio sacco a pelo, uno zaino, macchina fotografica digitale, alimentatore del computer e prendendo a calci il mio telefono satellitare!

Ricordo che quel giorno dopo aver lottato con la bufera e la malasorte siamo ritornati al campo base esausti e non è stato fantastico scoprire che non avevo neanche il sacco in cui dormire.
Non mi sono chiesto chi, come, perché, ma mi sono solo fatto prestare ciò di cui non disponevo più. Non mi sono neppure arrabbiato, perché non mi riesce facile e non volevo rovinare una quiete che almeno in Himalaya dovrebbe regnare sovrana…

Il problema di queste scorrettezze è però inevitabilmente generato da una frequentazione che in questi ultimi anni si è fatta alta, e composta sempre più da persone che la montagna l'hanno visto solo in cartolina! Gente che, dunque, non ha interiorizzato valori e sentimenti propri dello stare con la natura, che sono poi gli stessi che ci dovrebbero essere nei rapporti tra gli individui.
Per questo non mi scandalizzo e non mi stupisco più di tanto. La facilità con cui oggi ci si sposta e si viaggia ha inevitabilmente interessato anche paesi come il Nepal o il Tibet e ciò che mi è successo al campo base dell’Everest non è che il frutto del livello di educazione che esportiamo.

- VAI ALL'INTERVISTA DI SIMONE MORO ALLA VIGILIA DEL SUO NUOVO PROGETTO DI TRAVERSATA EVEREST - LHOTSE (04/2000)




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