Simone Moro, dalle falesie agli 8000
Simone Moro, guida alpina di Bergamo, ha una storia particolare, tra quelli che hanno visto la nascita delle prime competizioni di arrampicata sportiva. Nel 1985, a 17 anni é uno dei concorrenti a Bardonecchia, la storica prima gara sulla parete dei Militi. Sarà poi allenatore della nazionale italiana di arrampicata sportiva. Ma nel 1992 inizia parallelamente la sua storia con l'Himalaya e le montagne extraeuropee. L'incontro con queste terre e con gli uomini degli 8000, soprattutto con Anatolij Burkreev, l'ha segnato profondamente. Alla vigilia della partenza per il suo grande prossimo progetto himalayano, la traversata/concatenamento Everest - Lhotse, Simone ci ha raccontato le sue esperienze.
Ci ricordiamo di Simone Moro allenatore della squadra nazionale d'arrampicata sportiva italiana
Sono stato l'allenatore della nazionale dal 1992 al '96 e quando mi è stato offerto quest'incarico avevo alle spalle 7 anni dedicati alle competizioni di arrampicata sportiva. In quel periodo, iniziato a Bardonecchia nell' '85 quando avevo indossato il primo pettorale per una gara, avevo acquisito una specializzazione nell'arrampicata sportiva, anche se già allora non era certo la mia unica attività.
E prima
Ero un 'bocia' come tutti gli altri, a 13 anni ho fatto la mia prima salita su roccia con mio padre poi, visto che scalpitavo troppo, mi ha affidato ad Alberto Cosonni che è stato il mio primo maestro. Alberto mi ha portato ad arrampicare e mi ha fatto fare, mi ricorderò sempre, due anni solo da secondo di cordata e con gli scarponi rigidi. Solo in seguito mi ha permesso di comprare le prime scarpette, delle Galibier, e ho cominciato ad arrampicare da primo in Medale, in Grigna e poi sulle Dolomiti.
Con l'arrampicata sportiva, invece, come hai cominciato?
Nell'83, a Cornalba, ho conosciuto Bruno Tassi 'Camos' quando, a mano, stava chiodando i primi itinerari. Lui è stato, a modo suo e con una didattica tutta sua, il mio secondo maestro. Mi ha introdotto nel mondo dell'arrampicata sportiva dove le regole del gioco, diversamente dall'alpinismo, prevedevano anche che si potesse volare, anzi delle giornate erano dedicate a delle vere e proprie gare a chi faceva i voli più lunghi. Nel 1985, proprio su esortazione del Camos, ho partecipato alla gara di Bardonecchia, stavo compiendo i 17 anni. Poi sono venute tante altre gare e nell'88 sono entrato a far parte della nazionale di arrampicata sportiva. Quindi nel 1992 mi è stato offerto il posto di allenatore della Nazionale di arrampicata sportiva. In concomitanza é venuta anche la mia prima spedizione in Himalaya, che non è nata dal nulla, nel senso che quella mappa cromosomica iniziale dell'alpinismo mi aveva impresso uno stampo a 360°. Volevo dedicarmi professionalmente all'attività di allenatore della Nazionale ma con questo non volevo mettermi in poltrona. Mi piaceva essere un 'autentico', e quindi avere anche credibilità e rispetto dagli atleti proprio perché continuavo ad essere un protagonista, senza pettorale ma un protagonista.
Un protagonista nel campo dell'alpinismo himalayano
Ma anche in falesia perché uno dei risultati che sbandieravo all'epoca come, personalmente, importante era quello che ho ottenuto nel '94 quando ho fatto un 8000 e un 8b nello stesso anno. Ciò significa che non ho mai abbandonato veramente l'arrampicata sportiva, non allenavo solo gli altri ma continuavo ad arrampicare. Per esempio nel '92 era difficile classificarmi, perché era strano che uno che andava a scalare una montagna di 8000 metri avesse ancora la pelle delle dita consumata dagli appigli più piccoli delle vie di falesia.
Quindi quando hai cominciato con gli 8000 avevi contemporaneamente un livello di 8b in falesia, come riuscivi a conciliare questi aspetti?
L'Himalaya mi affascinava sempre di più e vedevo l'arrampicata sportiva un po' come una rincorsa cieca: facevo l'8a e si faceva 8b, facevo 8b e si faceva 8c. Nello sport é normale che ci sia un'evoluzione, e che si rincorra sempre un nuovo risultato e primato, ma a me dava poco come uomo. Con questa prima spedizione all'Everest nel '92, invece, mi si sono aperti orizzonti nuovi, anche se ho pagato da subito la mia inesperienza. Ho scoperto che veramente l'alta quota fa male. Proprio nella prima spedizione ho sofferto di una forma iniziale di edema cerebrale perché correvo su e giù senza acclimatamento. Mi sembrava solo difficile fisicamente. Pensavo, una volta tollerato il dolore e la fatica, che il gioco fosse finito. Invece, al campo tre, un mattino mi sono svegliato più istupidito del solito, e solo grazie all'aiuto di due compagni che mi hanno aiutato a scendere mi sono ripreso. Lì ho appreso la prima lezione sportiva e di vita, una lezione su come si va in Himalaya.
E da allora
Sono venute un sacco di altre spedizioni. Nel '93 la prima salita invernale in giornata dell'Aconcagua, e sempre quell'anno sono arrivato, in solitaria, a 163 metri dalla vetta del Makalu. Nel 94 ho tentato il Shisha Pangma senza riuscirci, e ho salito il Lhotse pochi mesi dopo aver fatto delle vie di 8b a Cornalba. Il '95 è stato l'anno del Kanchenjunga, é andata male ma, in quell'occasione, alcuni componenti della mia spedizione hanno ritrovato il corpo di Wanda Rutkiewicz. Il '96, poi, è l'anno in cui ho pigiato di più sull'acceleratore perché a gennaio ero al Fitz Roy con Adriano Greco: andata e ritorno in giornata per la Supercanaleta. Poi sono andato al Dhaulagiri, ed è andata male. Poi, ancora con Adriano Greco, sono tornato allo Shisha Pangma e anche lì siamo saliti in tempo record: 27 ore per andata e ritorno utilizzando anche gli sci. Ma anche il '97 è stato importante perché ho conosciuto Anatolij Burkreev, e questo ha dato una svolta nella mia vita, sia di uomo sia di alpinista. Con lui ho conosciuto soprattutto un uomo che faceva anche l'alpinista.
In qualche modo mi sento di ripetere con le parole di Messner: 'mi ritengo fortunato di aver fallito molte volte', e questo significa aver imparato ma anche che sono ancora vivo. C'è chi, invece, non ha mai fallito e la prima volta che l'ha fatto, purtroppo, c'ha rimesso la vita.
Questa per gli ottomila come la definisci, un'infatuazione?
Ho ricevuto dagli ottomila una grande spinta motivazionale. So che la corsa a fare più ottomila possibili non porta niente di nuovo al mondo dell'alpinismo. Ci sono già 7 o 8 persone che l'hanno fatto e altri lo faranno. Però un conto è dare qualcosa ad un mondo sportivo un conto è dare qualcosa a sé stessi. Ce da dire anche che fare un 8000 per la via normale, oltre a non dare niente all'alpinismo, non da più niente neanche a me. Se cercassi la rincorsa agli 8000 non sarei tornato al Lhotse quando l'avevo già salito, non tenterei di fare gli 8000 in velocità o per vie nuove o in stagioni strane.
Li tenterei, invece, per le vie normali, nelle stagioni in cui ci sono tante spedizioni, magari anche con l'ossigeno, e via con la collezione, ma non mi interessa. Il fascino di un 8000, poi, rispetto ad un 7000 sta proprio nella quota. Tecnicamente è chiaro che il futuro sarà sui 7000, sui 6000 e sui 5000, ma a 8000 metri non hai più fame, non dormi più, non capisci più molto bene dove sei, chi sei, cosa stai facendo e, purtroppo, queste situazioni si hanno solo su 14 zone di 8000 metri d'altitudine di 14 montagne.
Ma perché ricercarle?
Non ho una risposta, e spero di non riuscire a trovarla, perché il giorno in cui do una risposta a tutto significa che ho già vissuto. Siccome la vita è tutta una scoperta e una scommessa, un ricevere piccole risposte, la risposta finale uno non la trova mai, almeno su questo mondo. L'alpinismo per me è un mezzo per scoprire me stesso e scoprire queste risposte. Si matura studiando, sul posto di lavoro e anche semplicemente vivendo o viaggiando, diciamo che io sto maturando, prima come uomo ed ora come alpinista, viaggiando e vivendo là, in Himalaya.
E la tua scelta di andare sui 7000 della Russia...
Volevo vivere e maturare e scoprire un mondo che mi era stato brevemente raccontato da quell'amico, Anatolij Burkreev, di cui ho parlato prima. Lui non c'era più, e ho pensato che quello che mi avrebbe voluto dire probabilmente lo avrei scoperto direttamente nella sua terra. Questo per me era più importante che salire un altro 8000. Ho avuto tante risposte, perlomeno quelle che cercavo, e adesso riprendo il discorso per capire altre cose di me andando a fare la traversata Everest-Lhotse.
La mia, ripeto, non é una ricerca di record, perché, in ogni caso, li ha già fatti per primo Messner e poi le sette persone che sono venute dopo. Non è neanche una ricerca di fama perché, nonostante sia uno dei pochi che fortunatamente riesce a vivere d'alpinismo, continuo ad avere conferme tutti i giorni che non si diventa né ricchi né famosi, anzi il conto corrente è sempre in rosso purpureo, ed è un gran risultato quando il rosso lascia spazio a brevi periodi di nero.
Ti piace immensamente…
Mi piace tanto, mi ha dato tanto anche per il solo fatto che l'Himalaya mi ha dato la possibilità di conoscere Anatolij Burkreev. Già per questo è valsa la pena di scommettere nel mondo dell'alpinismo. L'ho conosciuto nell'ottobre del 1996. Dopo un mese che era al campo base non l'avevo ancora visto, nessuno l'aveva ancora visto, ed era il più forte ed è stato l'unico del team russo che è andato in cima. Questo fa capire come non era uno che si metteva sulla ribalta, erano proprio i suoi risultati sportivi e soprattutto umani che non riuscivano a passare inosservati.
Perché affermi che Anatolij era prima un uomo che un alpinista?
Si potrebbe parlarne a lungo. Solo un esempio, in alta quota costa tutto: camminare, scalare, montare i campi e costa ancora di più essere altruisti. Costa, o non si riesce più, ad essere sé stessi. Anatolij era l'unica persona che preparava da mangiare e mi diceva 'mangia che poi mangio io', o che faceva finta di non aver fame e dava da mangiare a me se vedeva che ne avevo bisogno. Si preoccupava sempre, insomma, di chi gli stava attorno, e che le cose favorissero le persone che gli stavano attorno, prima ancora che favorissero lui.
Da questo si capiscono le qualità umane di una persona che soffriva anche lui, guadagnava 20 dollari al mese, aveva tutti i diritti d'essere molto legato a ciò che faceva e quindi poteva essere arrabbiato con il mondo e aver tutte le qualità meno quella dell'altruismo. Questo fa capire anche come Anatolij Burkreev nella tempesta del 1996 avesse trovato le motivazioni per salvare i clienti di un'altra spedizione.
Rispetto a questa figura di Burkreev tu come ti senti di essere?
Penso di non essere stato egoista o più egoista di quanto sia qui adesso nel mio ufficio a 300 metri di quota, e questo, secondo me, è già è un gran risultato. Non faccio la parte dell'eroe, ma non faccio neanche quello che pesa gli zaini o controlla cosa ha nello zaino qualcun altro, o chi sta davanti a battere la traccia
Questo succede normalmente?
Succede si, non si nega. E' per quello che non posso fare a meno di fermarmi e parlare di Anatolij Burkreev, perché lui era speciale.
Come l'hai conosciuto?
Tra il campo 1 e il campo 2 del Shisha Pangma. Battevo la traccia e lui era dietro con lo zaino. Ogni tanto mi sedevo perché ero stanco e vedevo che lui invece cercava di raggiungermi e quando l'ha fatto mi ha battuto sulla spalla e mi ha detto: 'grazie stai facendo un grande lavoro'. L'amicizia si è poi approfondita, e nel 97 abbiamo avuto l'idea, per alcuni folle, di tentare la traversata Lhotse - Everest. Volevamo andare in cima al Lhotse, scendere al Colle Sud e poi salire all'Everest. Ci siamo fermati sulla vetta del Lhotse perché faceva bruttissimo, tanto che in quello stesso giorno sono morti il fortissimo alpinista russo Vladimir Baskirov e altri 4 alpinisti russi.
Vorrei dire a coloro che mi hanno detto che abbiamo smesso perché non ce l'avrei fatta, che nel momento in cui abbiamo deciso di scappare cinque persone sono morte e quindi le condizioni erano chiaramente dure. Siamo scappati principalmente perché il tempo non permetteva la traversata. E' chiaro che in cima al Lhotse non giocavamo a carte ed eravamo secchi perché eravamo saliti senza ossigeno, però avevamo ancora energie per arrivare al Colle Sud e lì avevamo una tendina montata da Anatolij. C'erano, quindi, i presupposti perlomeno per fallire durante la salita all'Everest e non subito dopo il raggiungimento della vetta del Lhotse. Non ce l'abbiamo fatta, però siamo stati i primi a dichiarare di volerla fare quella traversata, mostrare la faccia e tentarci.
E poi?
Poi è venuta la decisione dell'Annapurna, presa proprio al campo base del Lhotse. Questa ovviamente è stata la mia esperienza più drammatica perché ho perso i miei due compagni: Anatolij e l'operatore video Dimitri Sobolev. Tanti dicono che ce la siamo cercata, ma in realtà il disastro è successo durante una scelta che era una fuga dal rischio. Volevamo fare la parete sud dell'Annapurna in invernale, in due e in stile alpino. Dopo un po' che eravamo al campo base però continuava a nevicare: siamo arrivati a 4 metri e 20 di neve.
Dalla parete sud dell'Annapurna venivano giù continue valanghe. 'Qui rischiamo troppo, ci lasciamo la pelle', ci siamo detti. Allora abbiamo tentato di arrivare in cima per l'ancora inviolata parete Est dell'Annapurna Fang, un itinerario probabilmente più duro ma più sicuro perché più verticale. La nostra idea era di salire per la parete e, cavalcando la cresta fino alla vetta dell'Annapurna Fang a 7900 m., arrivare poi in cima all'Annapurna. In un mese e mezzo di permanenza al campo base da quella parete non era mai venuto giù niente. Quindi siamo scappati dal pericolo per rifugiarci su un progetto più difficile ma più sicuro.
Invece è stata una decisione che ci si è ritorta contro perché la prima e unica cosa che è venuta giù è stata la valanga che ha ammazzato Anatolij e Dimitri e che per poco non ammazzava anche me. Ho fatto 800 metri di volo! 800 metri di dislivello, non di scivolata come dicono tanti. Di volo vero e proprio cominciato male. Poi, in maniera rocambolesca, mi sono salvato. Tutto questo lo racconterò in un libro. Un libro che non vuole essere una speculazione su una tragedia, e i cui proventi andranno a questi ragazzi che prendono 12 dollari al mese.
Cosa pensi rispetto a quell'alone mistico che la parola alpinismo richiama?
Uno prende delle decisioni in base alla propria cultura e al proprio modo di agire, io ho avuto questo stampo sportivo. Non per questo bisogna andare a fare le gare in Himalaya, magari se ci fossero scoprirei che vado anche a farle, ma non le sto ricercando. Ho attinto dal mondo delle gare dei grandi insegnamenti: primo che le cose non s'improvvisano, secondo che si accetta il risultato che viene, terzo che la filosofia sportiva è anche una filosofia di vita. Ma non è detto che queste cose s'imparino solo con un pettorale addosso, ci sono tante persone che le gare le hanno sempre condannate o non le hanno mai fatte ma sono arrivate alle stesse conclusioni. Questo, secondo me, è un esempio di come, comunque, sia veramente aperto a tutti il discorso dell'alpinismo e della montagna. Aperto a tutti i tipi di approcci e d'ideologie.
Che altro ti ha colpito di questo mondo himalayano?
Tra l'altro ho scoperto in Himalaya un mondo senza Dio, troppo pieno di sé a cui conviene quasi non credere in Dio perché tanto è convinto di arrivare dappertutto. Io credo in Dio e non ho vergogna a dirlo. Le vere cose estreme sono vivere in una camera asettica per tutta la vita, o vivere in situazioni socialmente veramente dure. Noi andiamo a metterci nelle tempeste perché abbiamo buon tempo, e lo facciamo perché bene o male scegliamo noi di cacciarci nei guai. C'è chi nei guai ci si ritrova e invece gli sarebbe tanto piaciuto starne fuori. In questo mondo è facile essere invasi da un senso d'onnipotenza proprio perché ci si sente fuori dell'ordinario, così è facile costruirsi una propria filosofia che mette te e il tuo agire al centro. Io al centro cerco di mettere altre cose, altri valori.
Bene, ma allora, in questo preciso momento a cosa stai pensando?
Sto pensando che sono le 18,30 e che mancano 50 giorni alla partenza per la mia prossima spedizione. Vado a ritentare il progetto che avevo sognato con Anatolij Burkreev: la traversata/concatenamento Everest - Lhotse, in senso inverso però. Questo per due motivi, uno molto pratico: mi dispiacerebbe dover rinunciare ancora una volta magari in cima al Lhotse, che ho già salito due volte al contrario dell'Everest che non ho mai salito. Così tra l'altro butterei via i 15000 dollari del permesso per l'Everest, senza neanche provarlo.
Il secondo, ma forse il primo in ordine di valori, è che l'Everest fra le due è psicologicamente la cosa più dura da affrontare. Penso mi possa aiutare fare lo sforzo più duro all'inizio. Se riuscissi ad arrivare, dopo la cima dell'Everest, al colle Sud posso trovare la voglia, invece di calarmi verso il campo base, di riprendere la salita verso il Lhotse per altro su una cresta, quella che dal Colle Sud porta in cima, che è ancora inviolata nonostante la logicità del percorso. Tenterò questa cresta anche perché ci ho già messo il naso una volta nel '97. Durante la salita al Lhotse abbiamo lasciato gli zaini proprio lì su quella cresta e ho visto che una delle parti più difficili è più vulnerabile di quello che pensavo. Dipenderà tantissimo dal livello d'innevamento.
Ma, ripeto, il problema vero sarà quello di trovare le energie, probabilmente più mentali che fisiche, di risalire verso il Lhotse dopo aver fatto l'Everest senza ossigeno. Perché so come ci si sente dopo aver fatto un 8000. Ci si sente già tanto stanchi, e siccome i muscoli e soprattutto il cervello vanno ad ossigeno e a zucchero dopo aver fatto una montagna di 8000 metri come l'Everest, che è la più alta di tutte, di zuccheri non ne hai neanche un po'. Per quanto riguarda l'ossigeno, poi, siamo alla quota di volo di uno Jumbo: è come essere seduti sull'ala di un aereo con lo stesso vento e la stessa temperatura, con la differenza però che lì ci sei arrivato a piedi e che devi trovare la voglia di aspettare e saltare su un altro aereo per farti anche il ritorno, naturalmente a piedi.
Sarai solo?
Mi sarebbe piaciuto essere con qualcuno, con Anatolij, ma questo chiaramente non è possibile. L'anno scorso ho conosciuto Denis Urubku, insieme abbiamo scalato i cinque settemila della Russia, anzi lui li ha scalati tutti e cinque perché io mi sono fermato dopo il quarto perché stavo male. E' uno che ha il 'motore' e ha anche la giusta ambizione per un progetto come questo, ma guadagna 12 dollari al mese e io non ho i soldi per pagargli le spese.
Mi sono inventato, con un'acrobazia finanziaria, la possibilità di pagargli il Lhotse e quindi di averlo come compagno per il 50% del mio percorso. Mi aspetterà al Colle Sud, per poi salire con me il Lhotse. Lui è anche un bravissimo cameraman e quest'acrobazia finanziaria è stata possibile proprio perché speriamo di vendere i suoi filmati della traversata.
Qual'è il tuo programma?
Consiste nell'andare al Colle Sud e fare prima l'Everest e poi il Lhotse, un collegamento delle due cime in sostanza. Tutto dipenderà dalle condizioni della montagna. E' un po' come il vento nella barca a vela, se c'è si va, altrimenti non si và, nel mio caso se ci sono le condizioni tento altrimenti no.
Come ti alleni?
Ho fatto un allenamento tecnico e fisiologico. Quello tecnico è consistito nel 'tener calde' delle abilità e delle qualità tecniche come arrampicare fino all'8a in roccia, su vie di misto fino all'M8 e di 6+/7- su ghiaccio. Questo perché andare bene su certe difficoltà qui dovrebbe servire anche ad avere un approccio psicologico perlomeno vincente in alta quota.
L'allenamento fisiologico invece è consistito nel prepararmi un po' come un maratoneta. Ho cercato, quindi, di aumentare al massimo le qualità aerobiche e in particolare la soglia aerobica. In pratica di insegnare al mio corpo ad essere una macchina che va più possibile con il meccanismo aerobico senza la produzione di lattato. Significa che invece di andare il più lontano possibile in un'ora ho cercato di allenarmi per arrivare il più lontano possibile in un'ora utilizzando però solo il meccanismo aerobico, senza produzione di acido lattico. Un lavoro questo che è stato possibile anche grazie ad un'equipe medica che mi è stata messa a disposizione da uno sponsor.
Quindi un controllo della frequenza cardiaca?
Praticamente fino ad una certa frequenza si può, teoricamente, 'andare' all'infinito senza produrre acido lattico, se vogliamo andare più forte invece cominciamo a produrlo. Ecco questa soglia con degli allenamenti particolari si può spostare verso l'alto. Quindi ho allenato il mio corpo ad andare sempre e solo con il meccanismo aerobico senza produrre acido lattico, ma il più veloce possibile. Quindi se a 150 battiti cominciavo già a produrre acido lattico ho dovuto spostare questa soglia a 160 a 162 a 168.
Qual è questa soglia a 8000 metri, per fare i famosi dieci passi e sosta?
È un bel punto di domanda. Tutti i protocolli di studio anche i più costosi e scientifici sono stati rivolti a capire cosa succede in alta quota, ma mai a trasformare questi studi per capire la strategia allenante per 'andare' in alta quota. Il cuore è un muscolo che naturalmente, come tutti gli altri, patisce la mancanza di ossigeno. Quando si arriva al campo base la prima settimana si vive con la frequenza cardiaca a 90/100 battiti a riposo, quando ho cercato di andare a manetta il più possibile, come allo Shisha Pangma, ho scoperto che il cuore non superava i 150/160 battiti, contro 195/200 cui riesco a portarlo in bassa quota.
L'analisi che ho fatto, confortata dagli studi dell'equipe medica che mi è stata messa a disposizione, ha cercato di interpretare questi segnali e far si che i miei allenamenti portassero e m'insegnassero ad andare solo ed esclusivamente con il meccanismo aerobico evitando il pericolosissimo sistema lattacido che si riproduce in acido lattico che in alta quota non viene più smaltito. E che, siccome è un veleno per i muscoli, non farebbe altro che rendere più pericoloso il progredire in alta quota. Strada facendo, quindi, stiamo cercando di capire tante cose, cercheremo delle conferme perché mi presterò anche ad un'indagine per avere un tracciato elettrocardiografico di una persona impegnata in alta quota, cosa diversa questa dall'avere un tracciato di uno che sta dentro una tendina a 7000 o 7500 metri.
E l'alimentazione?
Cercherò di usare delle integrazioni alimentari perché uno dei grandi problemi dell'alta quota è che non si ha voglia di farsi da mangiare e, siccome si misura tutto al grammo per diminuire i pesi da trasportare, alla fine si è sempre sotto alimentati. Si beve pochissimo e si mangia ancora meno, non si assimila e si è inappetenti. Insomma esistono tutta una serie di limitazioni, date dal problema oggettivo di sapersi organizzare e imporre una certa strategia sia d'idratazione sia d'alimentazione, che sono quelle che poi alla fine ti fanno tornare a casa con 6 o 7 chili di meno.
Ho calcolato che per la traversata impiegherò sei giorni. Passare sei giorni sempre seduto su quella famosa ala dello Jumbo senza che nessuno, magari, mi passi dal finestrino qualcosa da mangiare non sarà mica bello.
La tua strategia per gli 8000 e per questo concatenamento Everest-Lhotse
Cercare di acclimatarsi dando al corpo la possibilità di cibarsi dell'ossigeno ad una quota ogni volta più alta. Per la traversata voglio arrivare fino al Colle Sud, dormire almeno una notte e prima di tornare giù fare una puntata verso l'alto fino a 8100/8200 metri, poi girare i tacchi e scendere fino al campo base. Poi lascio lì tutto e me ne scendo nella valle, probabilmente fino a Namche Bazar, a 3700 metri, o anche più in basso.
Lì mangio bene, non vedo più la montagna che mi avrà già nauseato, incontro altre persone, vedo la foresta, sento gli odori, sento i profumi, mi faccio una doccia e magari parlo anche con persone diverse.Mi ritorna voglia di vedere la montagna, e intanto tutte queste cose avvengono con un sangue che farà scorta e si starà ossigenando il più possibile cosa che non riuscirebbe a fare al campo base.
Quindi via, ritorno su e tento la traversata. Vedremo se sarà una strategia vincente.
Simone Moro
- Nato nel 1967
- Guida Alpina, atleta, istruttore federale e, dal 1992 al 1996, allenatore della nazionale italiana F.A.S.I. di arrampicata sportiva.
- Arrampica da 19 anni a tempo pieno unitamente alla realizzazioni di spedizioni alpinistiche alle grandi montagne della terra ( Himalaya, Ande, Patagonia)
- Ha realizzato, salendo dal basso, itinerari di difficoltà vicine al decimo grado su pareti alpine di 3/400 metri di altezza con particolare attenzione al gruppo roccioso della Presolana.
- Per la realizzazione e gestione delle sue spedizioni, attività alpinistiche, pubbliche relazioni nonché l'attività di Guida Alpina con l'organizzazione dei trekking e di viaggi avventurosi per il mondo, ha un ufficio in Bergamo in Via Locatelli 52.
1992 Everest (tentativo)
1993 Aconcagua e Cerro Mirador (saliti in invernale), Makalu (tentativo)
1994 Shisha Pangma - m. 8008; (tentativo); Lhotse (m. 8516) salito senza ossigeno, in 13 ore effettive (17 totali), partendo da 6300 metri di quota. La salita è terminata alcuni metri sotto la vetta a causa dell'impossibilità materiale di calcarne la sommità causa maltempo e cornici di neve.
1995 Kangchenjunga (tentativo)
1996 Fitz Roy (m 3441) salito per la parete ovest lungo via 'Supercanaleta', in stile alpino ed in 25 ore effettive tra salita e discesa, Dhaulagiri (tentativo) Shisha Pangma Sud (m. 8008) salito, senza ossigeno, in 27 totali ( 20 ore effettive ) partendo da campo base, discesa con gli sci da quota 7100 metri.
1997 Lhotse (2^ salita personale) senza uso di ossigeno; Annapurna tentativo di prima salita in invernale della parete sud dell’Annapurna. Un incidente mortale ad Anatoli Boukreev interrompe il tentativo.
1998 Everest (tentativo)
1999 Pik Lenin (m. 7134), Pik Korjenevska (m. 7105), Pik Kommunism (m. 7495), Pik Khan Tengri (m. 7010). In 33 giorni complessivi.
Sponsor
Nike, Camp, The North Face , Polartec, Salice occhiali, La Sportiva, Longoni Sport, Tecno Project, Convertex. Gensan integratori alimentari
Fornitori Ski Trab, Salumi Bordoni.
"Ho scoperto che veramente l'alta quota fa male. Proprio nella prima spedizione ho sofferto di una forma iniziale di edema cerebrale perché correvo su e giù senza acclimatamento."
"nel '92 era difficile classificarmi, perché era strano che uno che andava a scalare una montagna di 8000 metri avesse ancora la pelle delle dita consumata dagli appigli più piccoli delle vie di falesia."
"Tecnicamente è chiaro che il futuro sarà sui 7000, sui 6000 e sui 5000, ma a 8000 metri non hai più fame, non dormi più, non capisci più molto bene dove sei, chi sei, cosa stai facendo e, purtroppo, queste situazioni si hanno solo su 14 zone di 8000 metri d'altitudine di 14 montagne."
"Anatolij era l'unica persona che preparava da mangiare e mi diceva 'mangia che poi mangio io', o che faceva finta di non aver fame e dava da mangiare a me se vedeva che ne avevo bisogno. Si preoccupava sempre, insomma, di chi gli stava attorno, e che le cose favorissero le persone che gli stavano attorno, prima ancora che favorissero lui."
"Qui rischiamo troppo, ci lasciamo la pelle, ci siamo detti. Allora abbiamo tentato di arrivare in cima per l'ancora inviolata parete Est dell'Annapurna Fang, un itinerario probabilmente più duro ma più sicuro perché più verticale."
"Per quanto riguarda l'ossigeno, poi, siamo alla quota di volo di uno Jumbo: è come essere seduti sull'ala di un aereo con lo stesso vento e la stessa temperatura, con la differenza però che lì ci sei arrivato a piedi e che devi trovare la voglia di aspettare e saltare su un altro aereo per farti anche il ritorno, naturalmente a piedi."
"ho allenato il mio corpo ad andare sempre e solo con il meccanismo aerobico senza produrre acido lattico, ma il più veloce possibile."
"Ho calcolato che per la traversata impiegherò sei giorni. Passare sei giorni sempre seduto su quella famosa ala dello Jumbo senza che nessuno, magari, mi passi dal finestrino qualcosa da mangiare non sarà mica bello."
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