Ghiaccio Verticale, la Bibbia delle cascate di ghiaccio del Nord-Est italiano
Quest’anno compie 30 anni la prima edizione della guida “Ghiaccio Verticale”. Era infatti il 1994 quando io e Alberico Mangano, grandi appassionati delle salite sulle cascate di ghiaccio, mettemmo su carta la prima raccolta delle colate conosciute fino a quel momento nell’area che va dalla Val Camonica al Friuli. Un compendio di 113 cascate che dava uno sguardo più o meno completo alle Alpi Orientali.
La guida, rigorosamente in bianco e nero, ebbe un grande successo. Metteva in ordine vari articoli apparsi sulle riviste dell’epoca ma, soprattutto, i passaparola che erano i veri social network del tempo. Le copie finirono nel giro di un paio di stagioni, segno che l’attività, seppur considerata minore nei salotti alpinistici, veniva sempre più considerata da una schiera via via più folta di appassionati.
Erano gli anni anche delle grandi discussioni sul modo di approcciare la materia del ghiaccio di cascata. Si veniva infatti dai preziosi insegnamenti di Gian Carlo Grassi, vero precursore dell’attività nelle Alpi Occidentali. A lui e ai suoi libri si faceva riferimento e gli insegnamenti vertevano soprattutto alle tecniche di progressione e assicurazione adatte alle conoscenze e ai materiali dell’epoca. Per procedere con la dovuta sicurezza si era collegati alle piccozze tramite due cordini con l’inserimento di una placchetta che fungeva da regolatore di distanza e, quando si voleva inserire una vite o un chiodo, o anche semplicemente riposare, ci si appendeva. L’operazione di infissione, infatti, richiedeva particolare sforzo o, comunque, l’uso di entrambe le mani, tanto erano difficili da inserire le viti, per non parlare dei chiodi a percussione che richiedevano l’uso di un terzo attrezzo.
Il mondo delle aziende di materiale tecnico, anche in vista del crescente interesse da parte degli alpinisti per l’attività, sviluppò materiali sempre più performanti, tanto che a metà degli anni ’90 comparvero le prime viti che permettevano di eseguire la manovra di infissione con una sola mano. Questo, assieme a piccozze e ramponi sempre più adatte al verticale, consentì di togliere quei laccioli di collegamento con le piccozze, permettendo un’arrampicata più libera e consapevole. L’arrampicatore, infatti, non potendo riposare in qualsiasi momento, doveva avere la piena consapevolezza delle proprie capacità prima di partire per un tiro in cascata.
La rivoluzione creò non pochi problemi, soprattutto in ambito di CAI e guide, che vedevano la nuova tendenza come un passo stupido verso un’arrampicata meno sicura. Ma la progressione fu inarrestabile, anzi il mondo alpinistico dimostrava ancor più interesse. Erano i tempi dei meeting a Cogne, Val Daone, Briançon ai quali anch’io partecipai traendone grandissimi insegnamenti dai più forti.
Nel 1999 venne il momento di pubblicare la nuova edizione. Le relazioni passarono a 440 e, questa volta da solo, pubblicai quel volumetto nero che ebbe ancora più successo. Erano in molti, infatti, compresa la congrega che frequentavo, che si erano dedicati in quegli anni all’esplorazione delle valli, da ovest a est, con non poche soddisfazioni.
Nel giro di pochi anni anche la seconda edizione esaurì, il tutto mentre era in atto un’altra rivoluzione, questa volta arrivata dal mondo delle gare, che attirava i top climber del momento. Essi, trovandosi alle prese con strapiombi e passaggi funambolici, ebbero l’esigenza di svincolarsi ancor di più dagli attrezzi e tolsero quel lacciolo – la dragonne – che, per contro, consentiva di riposare gli avambracci nei passaggi più faticosi. Ma il vincolo creava più problemi rispetto ai vantaggi derivati: non si potevano infatti sfruttare con le mani possibili appigli sulla roccia, non si potevano scambiare le piccozze da una mano all’altra, cosa molto utile soprattutto nei traversi o nelle diagonali, ma soprattutto non si potevano riposare le braccia, “sghisando” per recuperare le forze. Tutto ciò si riversò anche nella salita delle cascate con conseguente ulteriore necessità di aumentare la preparazione fisica, tecnica e psicologica affrontando le alte difficoltà.
Ai più forti la verticalità della cascata non bastò più e si cominciarono a concatenare candele di ghiaccio separati da tratti di roccia, in genere strapiombanti. Con il dry tooling, a partire dai primi anni del 2000, si aprirono altre innumerevoli frontiere.
Nel 2006 rimisi mano al lavoro e, con estrema dedizione e fatica, pubblicai la terza edizione, composta questa volta di due volumi contenenti più di 1000 relazioni. La schiera di collaboratori aumentò vertiginosamente, soprattutto nell’ambito delle vie di misto moderno, che io, ormai non più giovanissimo, non frequentavo granché.
Son passati 18 anni da allora e tutto è ancor di più cambiato. Siamo entrati nell’era dei social network, croce e delizia, che permettono di avere informazioni in tempo reale delle condizioni delle cascate, risolvendo una delle grandi problematiche che in passato tanto hanno fatto camminare alla ricerca della colata perfetta. Con essi, per contro, si è perso però il gusto dell’esplorazione, lo stupore nello scorgere, dietro una quinta rocciosa, una cascata non ancora conosciuta, non ancora salita. Il mondo è drasticamente cambiato, nel bene e nel male. Andiamo sul sicuro (o quasi) all’attacco di una cascata sapendola che è stata salita il giorno prima (la delizia), trovando però quasi sempre qualcuno che ci ha preceduto (la croce). E la cosa, come ben si sa, non è molto salutare. Arrampicare con cordate sopra la testa porta a infortuni evitabili se ci riserviamo (e seguiamo) un piano B.
Questa quarta edizione, che nel progetto generale sarà composta da tre volumi con la previsione di relazionare circa 2000 linee, ha, tra le altre, proprio la volontà di far conoscere le tante altre possibilità offerte dalle nostre montagne e fare in modo che gli arrampicatori non si fossilizzino solo su quanto viene detto e scritto in internet, ma di invitarli a considerare nuovi territori, magari con una piccola descrizione scritta in mano, spingendoli a esplorare dentro se stessi e capire qual è la più grande soddisfazione dell’arrampicata sulle cascate di ghiaccio: quella di, girata una quinta rocciosa, scorgere una cascata non ancora conosciuta, non ancora salita.