Torniamo a sorridere dicendo freeride. Di Giulio Caresio

Prendendo spunto della tappa di Courmayeur dello Swatch Freeride World Tour by The North Face, Giulio Caresio esplora il mondo freeride intervistando Nicolas Hale-Woods.
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A voi l’impagabile emozione di solcare il bianco in una nuvola di powder con Giuliano Bordoni
Daniele Molineris
Freeride, ovvero libertà. Di immergersi nella natura. Di uscire dalla traccia degli altri. Di solcare per primi una magnifica e intonsa coltre bianca. Freeride, ovvero leggerezza. Di volare sulla powder. Di trovare l’equilibrio sottile e gioioso tra galleggiare e affondare. Di scherzare davanti a una buona birra. Eppure in questi ultimi tempi alla parola freeride si è associato un greve senso di pesantezza, complice un giornalismo che mira a far notizia, non volto o interessato come dovrebbe a comprendere e far comprendere cosa sia davvero alla base delle tante morti che da inizio stagione sull’arco alpino sono state imputate proprio al freeride.

Abbiamo approfittato della tappa di Courmayeur (unica italiana) dello Swatch Freeride World Tour (FWT) by The North Face, il circuito di freeride big mountains più importante del mondo, per cercare di capire i termini del problema e delineare possibili soluzioni, andando a sondare il parere di chi sulla neve fuoripista si muove e lavora tutto l’inverno, se non tutto l’anno.

Prima di passare la parola a Nicolas Hale-Woods, patron e fondatore del FWT (colui che ha anche inventato l’Xtreme di Verbier), ci tengo a premettere alcune riflessioni che derivano da chiacchierate informali con atleti, amici e guide, tra cui vorrei ringraziare in particolare Giuliano Bordoni (guida alpina e freerider), Davide Cusini (maestro di sci e atleta The North Face in gara a Courmayeur), Alessio Giachin Ricca (appassionato freerider), Veronica Balocco (giornalista all’Eco di Biella e freerider) e Nicola Busca (giornalista e maestro di sci).

Freeride e sci fuoripista non sono sinonimi. Sarebbe un gran bene, in un certo senso, se in parte lo diventassero allineandosi culturalmente "verso l’alto" e non come spesso avviene venendo accomunati "verso il basso". Non è una questione linguistica, ma di sostanza su cui è bene fare chiarezza.
Nella pratica spesso sciare "fuoripista" in Italia si traduce in un’occasionale uscita dal battuto di chi pratica lo sci di pista: un’esperienza un po’ modaiola in cui ci si avventura alla ricerca di nuove emozioni, purtroppo molto spesso senza preparazione specifica e senza conoscenze in materia di sicurezza in montagna. Un’abitudine sicuramente da disincentivare.
Il freeride, come ogni sport outdoor in ambiente "non protetto", è una disciplina cui ci si prepara adeguatamente sotto tutti i punti di vista con l’aiuto di professionisti. I freerider che conosco sono per lo più guide alpine, maestri, atleti e quelli che lo praticano da "amatori" si accompagnano sempre a qualcuno che abbia l’esperienza adeguata.
Un ambiente nevoso non battuto infatti, anche se ci muoviamo solo con le ciaspole, richiede la conoscenza degli elementi per valutarne il rischio, nonché la conoscenza e l’attrezzatura per praticare autosoccorso in valanga. Questo è un messaggio che deve essere scritto a caratteri maiuscoli da chi fa informazione, in primis i giornalisti, e comunicato e testimoniato nel concreto da chi fa formazione, in primis guide e maestri di sci.

Leggerezza non significa superficialità. Ben venga la prima - Dio solo sa quanto bisogno ne abbiamo per sopportare un quotidiano che sempre più ci cade addosso come un macigno - ma non certo la seconda. Mi spiego meglio. È prerogativa di molti freerider che ho avuto la fortuna di conoscere uno spirito che vola, allegro e leggero, che spesso si accompagna a pantaloni sgargianti, sguardo amichevole e sorriso facile. E trovo che sia fantastico. Si tende però troppo spesso ad associare a questa preziosa leggerezza una certa superficialità nell’affrontare la montagna. Niente di più sbagliato, a mio avviso. Quegli stessi freerider di cui sopra sono molto spesso assai ben preparati, conoscono le insidie cui vanno incontro, sono abili soccorritori e valutano correttamente e con esperienza le condizioni della neve, il meteo, ecc…
Mi è capitato di constatare un grado di preparazione decisamente inferiore in chi va in giro con le ciaspole, oppure in chi normalmente si muove con gli sci in pista e crede che per uscire dal battuto sia sufficiente comprare gli sci larghi e colmare un po’ di gap tecnico.
Quindi bando a facili stereotipi: non è che se uno è allegro e scherza volentieri o si veste colorato sia automaticamente una persona scriteriata o che affronta il rischio con superficialità.

Le morti stupide devono cessare. Credo sia un punto fermo su cui tutti concordiamo. L’aggettivo stupide sta a indicare quelle situazioni che si potevano evitare con un po’ di intelligenza e preparazione, e sono molte. Tuttavia è anche bene sapere che non sono tutte. Infatti…

Il rischio non è e non sarà mai pari a zero. Troppo spesso ci dimentichiamo che nulla ha rischio zero, nemmeno star seduti in poltrona. Bisogna quindi valutare il rischio, capire come possiamo intervenire per ridurne la componente spesso rilevante che dipende dalle nostre scelte e dalla nostra preparazione… poi però, se non si vuole rimanere paralizzati, si deve accettare il rischio residuo e imparare a gestirlo. Questo vale per ogni nostra azione, in montagna (per freeride, alpinismo, arrampicata… ma anche per il semplice escursionismo della domenica) come nella vita.

Il clima sta cambiando. Le fluttuazioni più marcate delle temperature e precipitazioni molto concentrate sembrano favorire condizioni più critiche della stabilità del manto nevoso, motivo per cui la nostra percezione del rischio va aggiornata e deve tener conto dell’influenza su una serie di fattori che questo cambiamento determina.

La libertà fa crescere e richiede responsabilità. La montagna è da sempre spazio di libertà, luogo di confronto, di esplorazione e di formazione personale. Chiunque la frequenti lo sa e la ama anche per questo, come hanno di recente ribadito Alessandro Gogna (su la Repubblica) e Dominique Perret (su Le Matin). Certo la libertà richiede maggiore educazione, maggiore consapevolezza, maggiore responsabilità nelle nostre scelte.


INTERVISTA A NICOLAS HALE-WOODS (FWT)


Detto ciò, Nicolas puoi spiegarci quali sono secondo te le regole corrette del gioco?

"È semplice, le regole per fare freeride sono le stesse ovunque, in Canada, come in Francia, in Svizzera o in Italia. La prima in assoluto è educarsi, frequentare corsi o lezioni individuali, oppure passare del tempo con amici e persone realmente esperte e ben informate sulla valutazione del pericolo valanghe e sulla ricerca delle persone nel caso vi finiscano sotto. Educarsi quindi all’uso efficace dell’Artva, della sonda e della pala.
Oggi in Svizzera - non lo sostengo io, ma una statistica ufficiale del Club Alpino Svizzero - abbiamo circa lo stesso numero di morti per valanga di trenta anni fa, mentre il numero stimato di persone che vanno fuoripista è almeno dieci volte tanto. Perché? Il numero è stabile grazie al fatto che sempre più spesso la gente che finisce sotto le valanghe viene tirata fuori dai suoi compagni. Sappiamo che 15 minuti sono il limite temporale oltre cui la possibilità di sopravvivere diminuisce drasticamente, quindi un soccorso immediato operato da chi ti accompagna è la cosa migliore.
Inoltre come freerider abbiamo alcune buone regole che vanno seguite. Prima di tutto informarsi sui pericoli dell’itinerario che scegliamo in rapporto alle condizioni della neve e del meteo: basta telefonare o passare all’ufficio delle guide del luogo per chiedere loro "cosa ne pensate?", "quali sono i punti critici?", ecc…
Altro punto importante è partire in gruppo e rispettare nelle discese distanze opportune, in modo tale che, se si stacca una valanga e uno del gruppo viene travolto, gli altri possano intervenire. Infine esistono nuove attrezzature, in particolare l’ABS (airbag), che non assicura certo l’incolumità, ma in molti casi evita di finire in profondità sotto la massa di neve. Non è complicato quindi: informazione, formazione e attrezzatura".

Sul piano dell’educazione un corso di autosoccorso in valanga è sufficiente?
"Frequentare un corso e formarsi è sicuramente fondamentale, tuttavia non basta. È importante fare esercizi regolarmente per sviluppare quegli automatismi indispensabili per poter operare un soccorso in valanga. Quando questo accade è un’esperienza abbastanza traumatica, spesso conosci chi è sotto la valanga e se non sai cosa fare in automatico, molto probabilmente il panico avrà il sopravvento. Bisogna quindi allenarsi per saper gestire bene la situazione: c’è una bella differenza tra sapere come si fa e saperlo davvero fare.
Io con i miei figli ogni anno dedico un bel po’ di tempo a questi esercizi. Non è detto per forza che si debbano fare come qualcosa di serio e angosciante, si possono trovare delle formule ludiche molto efficaci, soprattutto con i ragazzi. Inoltre un numero sempre maggiore di stazioni sciistiche mette a disposizione un’area di allenamento per le ricerche in valanga, palestre utili per allenarsi e arrivare a saper gestire anche ricerche multiple. Penso che in Italia si faranno rapidi progressi nei prossimi anni, perché fino a 10-15 anni fa anche in Svizzera le persone formate erano poche e oggi, invece, sono molte.
La crescita del freeride sarà qualcosa di molto positivo per diffondere la giusta cultura della sicurezza. La dice lunga l’esempio di Verbier che nel 1994 accettò di supportare l’Xtreme, un’idea senza precedenti di competizione freeride (primo caso in Europa), seguendo l’entusiasmo del responsabile alla sicurezza del Valais che, quando presentammo il progetto, la prima cosa che disse fu: "in quest’evento vedo l’opportunità di diffondere la migliore educazione possibile agli sciatori delle generazioni future". E sono convinto che avesse ragione".

Qual è la tua percezione dell’Italia su sicurezza e freeride?
"È certo che l’Italia abbia una grande tradizione alpina, la sua cultura della montagna ha pochi pari e alcuni tra i migliori alpinisti e sciatori del mondo sono italiani.
A livello di freeride c’è un piccolo ritardo e penso che sia dovuto ad Alberto Tomba che, con la sua personalità, ha definito cosa sarebbe stato lo sci in Italia per i vent’anni che hanno seguito le sue vittorie. Non fraintendetemi, ha avuto un impatto straordinario e positivo per lo sci, ma proprio per questo l’ha condizionato e connotato fortemente. Questa situazione però cambierà in fretta perché c’è una generazione nuova di giovani atleti, guide e maestri che conoscono bene e insegnano le gioie del fuoripista. E le basi saranno solide, perché poggiano - come dicevo - su una grande tradizione".

Quanto è importante saper rinunciare?
"È un punto essenziale, una disponibilità che deve essere sempre presente, e va di pari passo con l’informarsi e il consultare le guide sentendone il parere. Le guide con cui lavoriamo in Italia sono eccezionali, come del resto quelle con cui lavoriamo negli altri paesi. L’esempio di questi giorni del FWT a Courmayeur penso sia significativo. Si è rinunciato a gareggiare sul Mont Fortin perché il rischio valanghe era più elevato. Abbiamo scartato anche la Tête d’Arp perché non in condizioni di innevamento ottimali. Ci siamo quindi sforzati di trovare una soluzione diversa dalle opzioni preferite sulla carta ma che potesse offrire migliori condizioni di sicurezza. Venerdì si è poi dovuto rinunciare a gara già pronta e annunciata, quando tutto era stato fatto per adattarsi a condizioni meteo non favorevoli, per una mancanza di visibilità e quindi di sicurezza. Sono tutti esempi importanti".

Ultimo punto, come vedi la creazione di itinerari di freeride segnalati e gestiti per chi sta imparando?
"La questione è interessante e ha diverse sfaccettature che vanno considerate. Gli itinerari che si trovano nei pressi delle piste battute, vedono passaggi frequenti e regolari che solidificano e mantengono il manto nevoso più stabile e compatto. In alcune stazioni sciistiche decidono di minare i versanti a rischio per farli scaricare e metterli in condizioni di sicurezza, soprattutto laddove potrebbero avere un impatto sulle piste. In questo modo molti itinerari vengono resi decisamente più sicuri di quanto non sarebbero senza interventi. Di questa differenza bisogna essere ben coscienti, perché il praticarli senza saperlo potrebbe creare una percezione sbagliata del rischio, tenuto anche conto che queste opzioni penso rappresentino il 90% del fuoripista praticato. Il 10% che rimane è diverso, se non abbiamo l’esperienza sufficiente può risultare ingannevole, ed è necessario esserne consapevoli per non sottostimarne eventuali insidie".

In conclusione, non ci si improvvisa freerider, così come non ci si improvvisa alpinisti. Non si può pensare che basti la formazione tecnica da sci di pista per affrontare in sicurezza itinerari non battuti. Come spesso accade, la conoscenza è la chiave di volta principale del problema, unita a una gradualità nell’apprendimento e nella pratica sportiva in modo che ciò che facciamo sia sempre commisurato alle nostre capacità tecniche, all’allenamento e alla nostra preparazione in materia di sicurezza, di valutazione dell’ambiente e delle condizioni di stabilità della neve.

Un divieto indiscriminato del fuoripista non ha senso. Disincentiva la pratica da parte delle persone maggiormente responsabili, non è in linea con quanto accade oltre confine e manda in fumo la possibilità di proporre una corretta formazione al pubblico sempre più vasto che desidera praticare freeride. Non solo, fatto a mio parere ancor più grave, non permette di cogliere l’occasione di scardinare l’abitudine consolidata nel nostro Paese di trasferire la responsabilità delle proprie scelte su qualcosa di esterno (in questo caso una regola di divieto). La convinzione che tutto debba essere sicuro e garantito tale, fa sì che troppo spesso sempre più persone evitino di pensare, di capire le situazioni e di adattare le loro azioni di conseguenza. È questo approccio, e l’atteggiamento che ne deriva, a farci correre i rischi maggiori.

Ciò non toglie che un divieto puntuale possa aver senso in situazioni caratterizzate da condizioni particolarmente critiche, che mettano a rischio la sicurezza di aree frequentate dal grande pubblico generico o in aree che necessitino di una particolare tutela ambientale.
Ma se perseguiamo la strada del divieto a tutti i costi, domani potremmo vietare di tuffarsi in mare per non annegare o di scendere le scale perché si potrebbe cadere.

Cogliamo invece l’opportunità che le circostanze offrono per promuovere cultura, educazione, intelligenza e responsabilità, per far crescere la consapevolezza e la voglia di outdoor in un paese ancora fondamentalmente sedentario, per dare fiducia e lavoro alle nostre guide alpine e per tornare a sorridere parlando di freeride.

di Giulio Caresio




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