Paola Mazzarelli: non mi dire che non sali la Kosterlitz!

A 42 anni dalla prima salita femminile della Fessura Kosterlitz in Valle dell'Orco, Paola Mazzarelli racconta come andò e ripercorre la nascita della scalata moderna. Intervista di Andrea Giorda.
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Paola Mazzarelli primi anni '80 alla Baita di Sitting Bull in Valle dell'Orco, insieme a Attilio Boccazzi Varotto
archivio Gianni Battimelli

La nuova guida di arrampicata della Valle dell’Orco di Versante Sud edita nel 2024 ha dato spazio a molti protagonisti e permesso di conoscere fatti importanti nella storia della Valle, una fra tutte la prima scalata femminile della Fessura Kosterlitz.

Stefano della Gasperina, l’autore, ha pubblicato a piena pagina la foto scattata da Gianni Battimelli di Paola Mazzarelli che scala la Kosterlitz nel 1984, lasciando tutti basiti. Scopriamo ora che l’aveva già scalata nel 1982, con relativa facilità, più semplice di quelle che aveva scalato nel Peak District in Inghilterra. La prima salita italiana era stata di Roberto Bonelli, nel 1978, otto anni dopo quella di Mike Kosterlitz del 1970. Un passaggio estremo per l’epoca.

Paola la conoscevo bene, negli anni’70 eravamo entrambi istruttori di Sci Alpinismo alla SUCAI di Torino e frequentava, come Gianni Battimelli, la Baita di Sitting Bull a Ceresole, quando questo piccolo rifugio era il centro di aggregazione in tutta la valle. Un luogo dove si faceva la piccola grande storia e sono passati un po’ tutti.

Paola l’inglese
Il nome di Paola Mazzarelli, classe 1951, ai vecchi lettori della Rivista della Montagna e di ALP non è sconosciuto. Molti sono i suoi articoli apparsi sulla storia dell’alpinismo focalizzati su personaggi come Coolidge o Mummery. Di lavoro traduttrice dalla lingua inglese, ci ha regalato la versione italiana del libro di Joe Simpson La morte sospesa ed ora sta lavorando alla collana di Gialli di montagna di Glyn Carr edita da Mulatero.

Altri suoi articoli dei primi anni ’80 raccontavano le sue esperienze di arrampicata nel Regno Unito, in Verdon o sulle Torri in Boemia dove ancora vigeva il clima della Guerra Fredda. Gli articoli di Paola sono sorprendenti per la capacità di descrivere le persone e il carattere dei popoli che incontrava. Sono una preziosa testimonianza dell’epoca e dovrebbero essere ripubblicati. Nella raccolta “Montagne di parole” di Stefano Ardito e Gianni Battimelli del 1986 è l’unica donna presente come autrice, con ben due pezzi.

Incontro Paola nella casa di famiglia dove ad ogni piano c’è un Mazzarelli. Mi spiega che la casa fu fatta costruire negli anni ’30 da suo nonno che era il Direttore delle Manifatture di Pont Canavese e suo padre è nato a Pont. Un bel legame con la Valle Orco.

Paola come hai iniziato a scalare?
Con amici della Sucai di Torino, alpinismo classico, in scarponi, una bella palestra per fare esperienza in montagna. Ma avevo anche il desiderio di viaggiare, nel ’76 andai in America e feci un avventuroso viaggio in Guatemala, al ritorno maturò la mia idea di insegnare italiano in una Università inglese. Dopo infruttuosi tentativi via posta, decisi di partire per l’Inghilterra e mi andò bene, mi presero all’Università di Warwick nelle Midlands vicino a Coventry.

Come sei venuta in contatto con l’arrampicata inglese?
L’arrampicata era una delle attività sportive dell’università. All’interno della palestra c’era un muro di arrampicata, cosa all'epoca mai vista in Italia. Feci amicizia con il gruppo scalatori e in particolare con due forti personaggi, Hugh Woodland e Phil Revell, loro invece conoscevano Mike Kosterlitz.

Durante i weekend si andava a scalare nei luoghi classici. Il Peak District ad esempio, dove c’erano durissime fessure di arenaria, ma ci spostavamo ovunque, in Galles al Dinas Cromlech o alle scogliere di Gogarth, l’eperienza più estrema, dovevi leggere sul giornale a che livello era la marea per sapere quando attaccare le vie.

Si, ci ho scalato anche io, roccia incerta, spesso umida, muffa, soste rarissime e foche che rompono il silenzio nel cielo plumbeo, chi parla di trad in Italia non ha idea di questi posti, affascinanti ma severi.
Io ero molto invidiata perché mi muovevo con la mia Panda prima maniera, essenziale, ma ottima per dormire all’asciutto quando gli altri nelle tende andavano a mollo.

Cos'altro ti ricordi in particolare di quell’esperienza inglese?

Era tutto divers. Arrampicavano in scarpette e anche io me le comprai, le EB Super Gratton. Il livello era molto alto, la scalata in fessura era una novità e di giorno in giorno mi sentivo brava e lo dissi a Hugh. Non commentò, ma mi portò a fare una via dove non stavo attaccata, volavo in continuazione, ero molto distante da loro.

Veniamo alla Fessura Kosterlitz

Ritornai in Italia e con me venne Phil, lo portai in Valle dell’Orco perché quella era la novità del momento, gli feci vedere la Fessura Kosterlitz come un trofeo, la scalò con facilità. Io ero timorosa ma mi convinse a provarla, dicendomi “Non mi dirai che non scali la Kosterlitz, da noi hai fatto fessure ben più dure.” In effetti la scalai al primo tentativo, era il 1982.

Praticamente quel modello di scalata che noi faticosamente cercavamo di imitare e imparare dalle riviste tu l’avevi vissuto in diretta.
Si, in Inghilterra ho visto un modo di scalare nuovo. In Italia un personaggio noto mi disse che avevo le mani piccole e per me la Kosterlitz era più facile, credo che fosse stupito che una ragazza avesse scalato con facilità la fessura e cercava di farsene una ragione.

Io ti ho visto scalare in tante occasioni, in Valle Orco, Piantonetto all’Envers des Aiguilles, da prima e con una sicurezza e agilità che molti uomini all’epoca si sognavano.
Con Phil dopo la Valle dell’Orco andammo a scalare in Dolomiti e ricordo però un’interminabile via sul Sass Maor con un grande masso incastrato.

Hai vissuto intensamente gli albori della nuova arrampicata dei primi anni ’80, quali luoghi, esperienze e personaggi ti sono rimasti impressi?
L’elenco delle scalate è lungo, spaziavamo in tutte le Alpi dalle Dolomiti: le Tofane, le Tre Cime di Lavaredo, il Badile, il Cengalo. Sul Monte Bianco scalai la Aiguille Noire quasi tutta da prima e feci diverse altre salite come le Petit Jorasses con Giovanni Bosio e Alessandro Nacamuli. Con Annelise Rochat il Grepon. Il Gran Capucin la via degli Svizzeri a tiri alterni con Walter Vergnano.

Ho scalato tanto con donne, una eccezione per l’epoca, con Annelise Rochat per esempio e una volta con Renata Rossi, che conobbi ad un raduno di donne alpiniste proprio in Inghilterra.

Ho dovuto anche soccorrere un compagno di cordata caduto rovinosamente sulla Sud del Castore. Al tempo non c’erano i cellulari e dopo avergli fatto una iniezione anti shock, ho dovuto scendere da sola dalla parete e andare a chiamare i soccorsi, salvando la vita al mio amico. Ero terrorizzata, sul ghiacciaio, slegata temevo di finire in un crepaccio, non mi avrebbero mai più ritrovata.

Ma la tua grande passione era l’arrampicata difficile su roccia, hai visto posti che ora sono famosi ma al tempo erano novità assolute.
Scalavamo a Finale, poi nel sud della Francia si scoprivano nuove falesie per noi italiani, come Saint Victoire, le Calanques. Ma il Verdon era la mia preferita, spesso in compagnia di Annelise. E poi c'erano Sperlonga e Gaeta, dove conobbi Gigi Mario, personaggio carismatico, e Andrea Di Bari.

Con Andrea Gobetti ricordo un viaggio dove andammo a trovare Patrick Berhault, Andrea era suo amico.
Con Marco Bernardi, Giovanni Bosio e Renata Rossi andammo invece ad esplorare le torri di arenaria in Boemia, era spaventoso, usavano solo nodi incastrati e l’unico che fece qualche via interessante fu Marco Bernardi. Per noi scalare era una attività ludica, individuale, per i cecoslovacchi, in piena Guerra Fredda, era una competizione nazionale, con classifiche che davano accesso a privilegi, come poter espatriare. Per noi la loro accettazione del rischio era inaccettabile, per loro invece era una questione di vita.

Regalaci un ultimo flash di quegli anni di scoperta che hai vissuto.
In Verdon, 1984, ho visto Jerry Moffat che scalava Papi on sight. Una pietra miliare della storia dell’arrampicata. Una leggenda, una grande emozione.

Quest’anno alla Scuola Gervasutti abbiamo un Direttrice di Corso donna, Martina Mastria, e anche alla Sezione Uget la Direzione è di una donna, Patrizia Romagnoli. Molto è cambiato. Al corso di arrampicata base abbiamo 19 donne allieve e 17 uomini. Queste giovani donne sono protagoniste anche grazie a chi, come te, ha dimostrato che le ragazze possono raggiungere qualsiasi traguardo. Ma tu avevi dei modelli, delle figure femminili di riferimento?
Non ho mai avuto modelli, né donne, né uomini. Tutto quello che ho fatto in vita mia, alpinismo e arrampicata compresi, l'ho fatto perché ho scoperto che mi divertivo. Ho avuto molti maestri, certo: persone che mi hanno insegnato qualcosa. Ma loro erano loro e io ero io. Vorrei che si capisse questo: io non ho mai pensato a me stessa - e questo vale anche per la montagna - in termini di genere. Non sono mai stata femminista, non ho mai pensato di dover rivendicare una parità con i maschi: mi sono sempre sentita alla pari senza pormi il problema. Né ho mai pensato di non poter fare una cosa perché ero una donna.

Come potevo cambiare le ruote della macchina o mettere le catene, stirare una camicia o salire su un albero a tagliare un ramo secco con la sega a motore, potevo anche arrampicare da prima. Il fatto che, tornata dall'Inghilterra, mi sia trovata a essere tra le prime donne in Italia che arrampicavano da prime su certe difficoltà è stato un caso, una contingenza storica sulla quale può avere un qualche interesse riflettere a posteriori, se vogliamo raccontare un pezzettino di storia dell'arrampicata italiana. Ma all'epoca io non ci pensavo.

Se partivo per il Verdon o andavo ad arrampicare con Annelise Rochat, non pensavo che formavamo una cordata femminile, ma solo che eravamo amiche ed era logico andare insieme. Mi piaceva andare da prima, o a tiri alterni, più che da seconda. Ci trovavo più gusto. Ma questo vale per chiunque, credo. E mi piaceva misurarmi con quelle che per me erano (moderate) difficoltà. Ma sapevo di non essere poi molto brava: intorno a me quasi tutti i miei compagni di cordata e gli amici con cui andavo in montagna erano più forti, o più resistenti, o più spericolati...

Cosa pensi delle ragazze di oggi, che fanno gradi inimmaginabili, come il 9b?
Che sono brave. Ma penso lo stesso di chiunque faccia il 9b, ragazzi e altri generi intermedi compresi. Immagino siano "professionisti", cioè, che facciano praticamente solo quello, come qualunque atleta che sia nel suo sport ai massimi livelli. È una dimensione completamente diversa da quella in cui ho sempre pensato la montagna e l'arrampicata: per me era sempre e solo svago, una parte della vita che affiancava il resto, come il lavoro, gli affetti, le responsabilità. Per mia fortuna col resto si armonizzava quasi sempre, e quando non è stato così, di solito a farne le spese è stata la montagna. Per mia scelta, naturalmente.

Andrea Giorda – CAAI / Alpine Club UK




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