Valle dell'Orco - Generazione Sitting Bull: anni ’80, l'evoluzione

Negli anni ‘80 nasce l’arrampicata sportiva. La generazione che aveva vent’anni negli anni ‘70 è a un bivio. C’è chi sceglie di scalare in falesia per raggiungere i gradi estremi e chi vuole portare la scalata libera ai massimi livelli sulle grandi pareti. La terza ed ultima puntata di Andrea Giorda, con il racconto e il video di quegli anni con le foto originali.
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Mario Ogliengo sulla Placca del Cacao, Valle dell'Orco, 1981
archivio Ogliengo

- Segue la prima puntata del 31-01-2020 e la seconda puntata del 07-02-2020



Enrico Camanni mi disse che avevamo vissuto un alpinismo e un modo di arrampicare che non sarebbe mai più esistito. Si riferiva agli anni ’70, ma la cosa sorprendente è che lo disse già nei primi anni ’80 e io non ne colsi il significato.

Entrambi eravamo stati molto precoci e intraprendenti. Quando arrivammo in Valle dell’Orco nella seconda metà degli anni ’70 avevamo già una bella esperienza, non eravamo di primo pelo. Eravamo stati nelle Dolomiti di Brenta, avevamo scalato nelle Alpi Centrali la parete Nord Ovest del Cengalo, pari per difficoltà alla Nord Est del Badile. Avevamo arrampicato con gente fortissima, i fratelli Franco ed Ermanno Gugiatti di Sondrio in Val Masino. Con loro c’era una giovanissima Serena Fait, rimasta negli annali assieme a Renata Rossi perché divenne poi una delle prime Guide Alpine italiane tra le donne. Nel ‘78 facemmo anche il nostro ingresso come istruttori alla Scuola di Alpinismo Gervasutti, una consacrazione, visto che c’erano tutti i più forti.

Quel mondo fatto di scarponi, chiodini malmessi, che affrontava le placche sprotette come chi va incontro ad una mitragliatrice a viso aperto, passava la mano. L’abbigliamento casareccio fatto di pesanti maglioni di lana della nonna e pantaloni alla zuava lasciava il posto all’abbigliamento firmato della Fila con testimonial Reinhold Messner. Anche Giancarlo Grassi si era adeguato, e la pubblicità di Volpe Sport, il più fornito e trendy negozio di alpinismo di Torino recitava "Anche lui è un nostro amico!".

L’arrampicata uno sport e la scomparsa di Gian Piero Motti
L’arrampicata diventava sempre più uno sport e meno un credo superiore officiato da superuomini. Le piccole pareti di fondovalle non erano più palestre di arrampicata per allenarsi all’alpinismo, ma terreni dove portare le difficoltà al massimo anche grazie alla sicurezza data dai primi spit. Pareti come Caprie in Valle di Susa venivano esplorate e recensite come fossero grandi montagne.

Gian Piero Motti, a proposito, scrisse su Scandere, annuario del Cai Torino, che quelle rocce a due passi da Torino erano come una bella donna con qualche piccolo difetto e quindi ancor più affascinanti. Era il 1983 e furono le sue ultime parole scritte.

Per un puro caso io e Mario Ogliengo incontrammo Giampiero proprio a Caprie che osservava di nascosto Grassi che metteva i primi spit. Fu sorpreso di vederci e forse di essere stato visto, la conversazione fu confusa, criticava Giancarlo che tempestava ogni roccia. Nei modi non era più lui, presto ci avrebbe lasciati mettendo termine alla sua vita.

Rimasi talmente male della sua fine che non andai al funerale, lo vissi come un tradimento, per me era stato un maestro, ora dovevamo crescere da soli. Rimasi ancora più male quando Giovanni Bosio l’amico con cui correvo sulle pareti della valle dell’Orco e sulla Bonatti al Capucin, lo seguì poco dopo, forse per imitazione. Anche al funerale di Giovanni non andai, ma me ne pento ancora adesso. Non capivo cosa stesse succedendo, per me la scalata era passione, vita e allegria.

Giovanni, che parlava pochissimo, pochi mesi prima svaccati sul prato davanti alla Baita di Sitting Bull, mi disse,"per te Andrea tutto è facile", riferito alle relazioni personali e al modo di affrontare la vita. Rimasi sorpreso, lui era un bellissimo ragazzo, appena laureato in ingegneria, fortissimo scalatore, apparentemente aveva tutto, ma quelle parole erano state il suo commiato e non l’ho compreso.

Il Palavela, osservatorio privilegiato
Nel 1980 a Torino si era tenuto il primo convegno sul settimo grado, ed era nata la prima palestra di arrampicata indoor al Palazzo a Vela. Io avevo avuto la fortuna di essere stato scelto come istruttore da Andrea Mellano. Era un osservatorio privilegiato, avevo conosciuto Berhault, Edlinger e tanti altri. Poi c’erano le guide che presidiavano la sicurezza: Mauro Rossi e Alberto Paleari dall’Ossola che aprivano vie visionarie sulle pale di Gondo, Sergio Savio dal cuneese e le sue solitarie sulla Rocca Castello, i local Franco Girodo e Marco Bernardi, Renzo Luzi e Roberto Bonis l’uomo di gomma, scalava e scala ancora elegantissimo e senza sforzo. Poi Andrea Gallo, Roberto Perucca, Marco Mola… il mondo correva, si specializzava e allenarsi non era più un tabù!

Con tutti loro c’era un continuo confronto. Emanuele Cassarà ed Andrea Mellano, sempre al Palavela progettavano intanto le prime gare di arrampicata di Bardonecchia realizzate poi nel 1985.

La Morte del chiodo, montagne da riconquistare
Emanuele Cassarà, giornalista di Tuttosport, fu molto criticato perché trattava la scalata come qualsiasi altro sport, non era affascinato dal suo aspetto etico romantico ma dai record, dagli allenamenti, dalle sfide. Amava le provocazioni e fece un impresa titanica, pose a livello mondiale le stesse domande ai vecchi del sesto grado e ai giovani del settimo grado e le raccolse in un libro documento dal titolo un po’ enfatico "La morte del chiodo, montagne da riconquistare" edito da Zanichelli – Idee di Montagna.

Rispondevano alle domande grandi glorie come Domenico Rudatis, che negli anni 30 aveva teorizzato il sesto grado, Lito Tejada Flores e John Bachar dall’America, Heinz Mariacher dall’Austria, i francesi J.M.Boivin, Patrick Berhault, J.M. Trussier e tanti altri. Tra gli italiani intervistò anche Manolo, Marco Bernardi, Alessandro Gogna e anche me che avevo fatto qualche bella realizzazione. Ho ritrovato da poco il libro che avevo dimenticato tra le mie scartoffie ed ero incuriosito nel rileggere le mie risposte e soprattutto quelle degli altri.

Le domande ad esempio erano: "L’arrampicamento sportivo sta diventando un’attività specializzata e separata dall’alpinismo?", "Vedi le attività separate o si riunificheranno? ", "Fare il Pilone centrale in giornata è sport o avventura?" "In che misura il rischio fa grado effettivo?" ecc.

Possono sembrare banali ora queste domande ma fatte nel 1982 e stampate nel 1983 avevano qualcosa di visionario. L’arrampicata sportiva di falesia era agli inizi, una piccolissima elite la praticava, e c’erano i primi record di velocità sulle grandi pareti in montagna. Le risposte sono spesso acute e sorprendenti... alcune disarmanti. Impossibile riprodurre un libro documento che ha ora un grande valore storico, perché sono le vere voci senza filtri dei protagonisti di allora. Per avere un’idea ecco alcune risposte in estrema sintesi alla prima domanda, se l’arrampicata sportiva è una attività separata dall’alpinismo.

Patrick Gabarrou
(Francia) Separazione ineluttabile!
Claude Remy (Svizzera) Pratico entrambe e mi diverto
J.M. Boivin (Francia) Ad altissimo livello la specializzazione si impone
Heinz Mariacher (Austria) L’arrampicata alpina può diventare molto più interessante sotto l’influsso dell’arrampicata sportiva.
Maurizio Zanolla - Manolo (Italia) L’arrampicata sportiva ha le stesse esigenze e lo sviluppo di qualsiasi altra attività sportiva. Io non so dove inizi e dove finisca l’alpinismo.
Alessandro Gogna (Italia) Le attività sono e resteranno separate.
Marco Bernardi (Italia) L’arrampicata dona emozioni vissute al presente ed essendo una pratica sportiva dovrebbe veder eliminato il concetto-valore di rischio
Riccardo Cassin (Italia) Gli inglesi senza montagne grandi sono stati i primi in Europa a divulgare lo sport arrampicata e hanno dominato tutte le montagne del mondo.
Gian Carlo Grassi (Italia) Al Gruppo Alta Montagna francese si propone di accettare gli arrampicatori non alpinisti. Il futuro è nella separazione….oggi conta solo l’affermazione personale. La solidarietà non esiste più. Il Pilone una moda passeggera.
Ron Fawcett (UK) Non posso rispondere perché non sono un alpinista. Molte delle nostre vie sono molto dure, 10° grado UIAA senza protezioni fisse!
Doug Scott (UK) La cosiddetta arrampicata sportiva è uno sviluppo del tutto ragionevole e comprensibile
Ken Wilson (UK) In Inghilterra non vediamo differenze.

Francesi e inglesi assai distanti, carino Wilson, gli spit da loro non hanno attecchito neanche ora figuriamoci al tempo! Interessanti Manolo e Mariacher, forse i più lucidi insieme al grande Cassin il più moderno di tutti, l’ho conosciuto, una potenza, non aveva dogmi o preconcetti. Gogna posizione chiara, netta. Grassi un po’ confuso e sul pilone non ci ha preso.

Cassarà nel titolo recitava "montagne da riconquistare", in effetti il crescere del livello grazie alla pratica dell’arrampicata sportiva non poteva che far bene all’alpinismo che sempre più diventava leggero, veloce. Le vecchie vie che richiedevano giorni e bivacchi si facevano in poche ore. Christophe Profit aveva scalato in 3 ore e 10 l’Americana al Dru, e Marco Pedrini aveva liberato il Pilier Bonatti sempre al Dru. Fantascienza pochi anni prima.

La Generazione Sitting Bull ad un bivio
Con il timore/curiosità di chi rilegge i temi delle elementari sono andato a vedere che cavolo avevo risposto io alla domanda di Cassarà. Ecco il testo: In Italia la distinzione non è così netta. La maggior parte dei sassisti va anche in montagna. Polemica vecchia già chiusa da Cassin. Per il Pilone è una questione di capacità poiché è un luogo dove nessuno sta più del necessario. Neanche male, l’ho sfangata, a parte che uso il termine demodé Sassisti con cui si definivano gli scalatori in contrapposizione con gli alpinisti. Sul Pilone la penso ancora così.

Gli anni settanta sono alle spalle, ma chi ha iniziato a scalare allora era inevitabilmente un alpinista, Manolo, Bernardi e tutti noi. A partire dagli anni ’80 vidi comparire al Palazzo a Vela dei mutanti, personaggi che non avevano nulla a che vedere con la montagna, come Andrea Gallo e Marco Mola. In valle di Susa con Marco Bernardi aprivano monotiri mitici e temuti ancora oggi come Funeral Party alle Striature Nere. Bernardi era un alpinista, fortissimo, aveva scalato da solo la Gervasutti alla parete est delle Grandes Jorasses in giornata, quanto solo pochi anni prima Joe Tasker e Peter Boardman avevano impiegato tre giorni. I due inglesi sono quelli della Ovest del Changabang, una delle imprese più grandi dell’alpinismo. La Gervasutti l’ho scalata anche io, e posso assicurare che pensare di essere lassù da solo, mi ha sempre messo i brividi, sei fuori dal mondo!

Ognuno dunque prende la sua strada, Bernardi e altri si dedicheranno solo più alla falesia con grandi risultati, altri invece, come me, non vedevano l’ora di tornare sulle montagne, forti dell’esperienza e del livello raggiunto sulle brevi vie della Valle dell’Orco.

Boivin, Droyer, Berhault, Profit… eravamo sommersi e affascinati da una generazione di francesi che polverizzava record a Chamonix e d’intorni. Prendevano il posto nei nostri sogni degli americani Royal Robbins, Chuck Pratt o Tom Frost.

Per capire c’è solo un modo, mettersi alla prova, la scelta cadde sulla Diretta Americana al Dru aperta da Gary Hemming e Royal Robbins, allora era la più via più difficile su roccia del Monte Bianco. I quattro "temerari" della Baita di Sitting Bull erano: Mario Ogliengo, Sandro Zuccon, Pietro Crivellaro e il sottoscritto. Nel 1981 solo una cordata italiana con Lino Castiglia era andata poco prima, quando dichiarammo timidamente il nostro intento, ci guardavano come matti, e mancava che ci dessero l’estrema unzione.

Non avevamo ancora i friend e per gran parte della via avremmo cercato di scalare in libera, mettendo i nut, come facevamo in Valle dell’Orco. In partenza mi vennero tutti i dubbi del caso, come chi ha fatto il passo più lungo della gamba, dalle parti di mia moglie in Toscana si direbbe "di chi ha l’ha fatta fuori dal vaso..".
Non ci rincuorò un tedesco davanti a noi, che dopo infiniti tremolii, con effetto Singer (la macchina da cucire..), uscì da una fessura come un tappo di Champagne, proprio sullo zoccolo. Fece un volo interminabile arrestandosi dopo 15 metri sull’unico eccentric che aveva messo a metà tiro. Non si fece nulla, ma tornò indietro, si era giocato il due di picche e gli era andata bene. Io e Pietro Crivellaro eravamo sbiancati, ma non ci arrestammo e affrontai la fessura.

Per noi era il momento della verità, dovevamo dimostrare a noi stessi che chi scalava in Orco aveva una marcia in più su quelle interminabili fessure. Un’altra discussione ci fu sotto la famosa dulfer di 50 metri, troppo larga anche per gli eccentric, bisognava fare i primi 12 metri senza nulla per arrivare a dei dubbi spezzoni di corda marci.

La spedizione fu comunque un successo, avevamo anche visto all’opera J.M. Boivin e Patrick Berhault che la scalavano in abbinata all’americana al Fou in giornata e con un deltaplano biposto tornavano in serata a Chamonix, in volo, direttamente dal Rognon, la base del Dru. Le discussioni sulle separazioni della scalata sportiva e l’alpinismo non avevano senso, era chiaro che il livello raggiunto dai due francesi in falesia permetteva loro di correre in montagna.

Valle Orco, ritorno alla montagna
Con il livello raggiunto e lo stile messo a punto in bassa valle si aprivano praterie sulle nostre montagne che non avevano nulla da invidiare alle Aiguilles di Chamonix. Il successo sul Dru ci aveva caricati come chi ha passato un esame di maturità.

Il nostro Dru era il Becco di Valsoera, cima di riferimento per l’evoluzione della scalata in Piemonte. Gian Piero Motti aveva sentenziato che lo spigolo del Becco di Valsoera era scalabile forse solo in estremo artificiale, svaligiando un negozio di alpinismo. La via Mellano-Perego in effetti dopo il tiro in artificiale devia su un bel diedro alla sinistra.

Inevitabile per dei giovani raccogliere la sfida. Con Sandro Zuccon trovai il compagno ideale, eravamo complementari, lui fortissimo e insuperabile sul delicato io sui muri dritti, diedri e fessure. Entrambe motivatissimi, al meglio per età ed esperienza… d’accordo sull’etica, mai forare, anche a costo di lunghissimi tratti senza protezioni.

Venne fuori la Via del Filo a Piombo, anno 1982. La scalammo in velocità e già nel tardo pomeriggio eravamo al rifugio Pontese. Ricordo, che per scendere, allora, occorreva salire altri trecento metri dal termine dello spigolo. Raggiunta la vetta si percorreva in discesa il canale, spesso nevoso, a piedi. Ci prendemmo dei gradi rischi ora mitigati dagli spit, che i Fratelli Remy hanno messo successivamente in uscita da Agrippine. La Filo a Piombo resta, abbinata alla Mellano-Perego, forse la via tradizionale più bella e scenografica del Becco di Valsoera.

Scalare in modo diverso era possibile, un conto era farlo in bassa valle, altra cosa a tremila metri su una fredda parete ovest, al Dru come al Becco di Valsoera!

L’assalto a Noaschetta
La vecchia guardia non era stata a guardare. Quell’infaticabile esploratore di Giancarlo Grassi aveva scoperto le immense potenzialità del Vallone di Noaschetta, che parte dagli ottocento metri di Noasca e arriva in punta, dopo 3261 metri (!) al Gran Paradiso. Disseminato di pareti e punte mozzafiato, praticamente vergini fino al 1980. Si diede il via ad una stagione curiosissima, nel giro di quattro anni si aprirono una infinità di vie che caddero di nuovo nell’oblio fino a quando, nel 2005, Adriano Trombetta non tornò a riscoprirle e tracciare nuovi itinerari.

Anche Marco Bernardi nel 1980 fece parte della numerosa compagnia che scalò la Torre Nera alla Cresta di Prosces, a ben cinque ore di cammino da Noasca. Su questa montagna lontanissima fiorirono 13 vie in tre anni! Tra cui quella aperta da me e Sandro Zuccon nel 1982.

Il Monte Castello, bastionata immensa, era la parete più ambita, in particolare l’imponente parete Nord Est. Il problema si risolve curiosamente nel 1982 in pochi mesi. Il 16 maggio, Ugo Manera aveva salito con Roberto Bonis lo spigolo nord est. Pochi giorni dopo il 21 maggio, Grassi con Martino Lang e Jean Michel Cambon (quello che tutti conoscono per la Tete d’Aval e le vie intorno a Briancon) attacca, ma evita sorprendentemente la parete e realizza una variante allo spigolo di Manera.

Chiunque guardi la grande parete del nord est del Monte Castello non può non essere attratto da un grande diedro yosemitico, ostruito da un enorme blocco a fauci spalancate. Grassi era un ghiacciatore di livello mondiale e un esploratore insuperabile, ma le fessure non erano il suo terreno preferito e probabilmente per questo non attaccò direttamente la parete.

Fortuna vuole che io e Mario Ogliengo, nell’estate del 1982 decidiamo di partire da Lessolo, vicino ad Ivrea e in mattinata risaliamo tutto il vallone a noi sconosciuto. Siamo attratti da quel diedro pazzesco, una formazione unica, non sappiamo nulla degli altri e ci buttiamo sulle placche iniziali per raggiungerlo. Iniziano subito i guai, perché sulle placche iniziali non si riesce a mettere chiodi e ci affidiamo per 150 metri in modo spericolato alle teppe erbose. Oggi quelle placche sono conosciute come zoccolo Trombetta, temuto perché ha pochi spit, noi non avevamo nulla.

Mario ed io andiamo a mille superando una dietro l’altra le splendide fessure, mettendo pochissime protezioni. Non abbiamo i friend ma i soliti pochi eccentric. Arrampichiamo anche al buio, vogliamo uscire, ma Mario, non vedendo, si tira una terribile martellata su un dito che ci costringe a fermarci. Bivacchiamo poco sotto la cima solo con la giacca e una tutina di tela, un freddo boia. Una via bella, difficile di 450 metri, aperta nel miglior stile, la chiamammo Aldebaran, una delle stelle più luminose del cielo. Aldebaran è oggi una via molto ripetuta grazie al fatto che Adriano Trombetta nel 2005 mise alcuni spit per rendere più accessibili le placche iniziali. Insieme poi sistemammo le soste con protezioni fisse. L’itinerario originale era più duro e diretto, con Adriano facemmo un accordo per renderla più semplice e lasciare alla sua Twin Tower il tratto più impegnativo di Aldebaran. Quella che si fa ora, addomesticata, è stata ribattezzata Aldebaran 2005.

Piantonetto 1984, un anno speciale
Ma la vera grande passione di Adriano è stata Sturm und Drang sulla torre staccata al Becco di Valsoera. Manlio Motto, sulla rivista francese Vertical l’aveva definita la via simbolo del Gran Paradiso e l’aveva fatta conoscere a livello nazionale e internazionale. Iniziammo ad aprire la via Sandro Zuccon ed io nel 1983, mai eravamo stati su una parete di granito così dritta e difficile da chiodare, solo grazie a una rurp grossa come una lametta da barba, nel 1984 riuscimmo a chiuderla.
Chi, equivocando l’aveva presa per una via di artificiale, tornava indietro, i chiodi spesso finivano e bisognava scalare. Sandro ed io non ci portavamo dietro i chiodi a pressione neanche per emergenza, eravamo contrari. Rimase per un po’ non ripetuta nonostante gli assalti. Nel 1990 Roberto Mochino, un fuoriclasse la scalò con Francesco Arneodo tutta in libera, meno pochi passi del tiro chiave. Tanti hanno provato a liberarlo, nel 2005 anche Stéphane Benoist, grande alpinista francese, ma si arrese e fece una bella relazione che lasciò in rifugio, scrisse gran frissons… grandi brividi. La prima on sight è di Federica Mingolla nel 2016, sono le protezioni inaffidabili a rendere notevole l’impresa.

Sempre nel 1984, Roberto Perucca e Rinaldo Sartore, che saranno grandi protagonisti con Manlio Motto, aprono una via bellissima, totalmente in libera al Becco della Tribolazione, Diamante Pazzo, da Crazy Diamond dei Pink Floyd, il brano preferito da Perucca.

Si apre contemporaneamente anche la stagione di esplorazione delle pareti di bassa valle. In valle di Susa, Manera, Grassi e Isidoro Meneghin sono super attivi. Ogliengo apre vie come Odeon a Rocca Penna, a volte io lo aiuto ma non metto spit.

In valle d’Aosta Guido Azalea e Fausto Lorenzi scoprono le placche di Machaby e andiamo subito a ripetere le vie "Giù le mani dal Banano" e "Bucce d’arancia", scrivo la prima relazione su Monti e Valli. Dei capolavori, senza protezioni fisse non si poteva neanche pensare di cadere, ora sono imballate di spit e c’è chi si lamenta che non sono abbastanza!

Intanto, in Valle dell’Orco si continuava a scalare, anche se l’attenzione era ormai sulle falesie e gli 8a. Nuovi scalatori portavano avanti la tradizione . Roberto Mochino, giovanissimo, nel 1983 traccia una linea estrema senza spit "Fragilità Cerebrale". Diventerà a fine anni ’80 inizio ’90 uno dei più forti scalatori e ancora oggi, in val di Susa, nelle falesie di Campambiardo e del Libro ci sono le sue vie. Di lui si è detto e scritto poco, ma i suoi monotiri parlano per lui.

Un caro ricordo va a Daniele Caneparo, che per motivi generazionali non ho incrociato sulle pareti. Era un guerriero e un sognatore, notevole fu la sua idea di tentare di scalare in libera il tetto di Legoland nel 1984. Non vi riuscì per poco. Quest’anno è scomparso in una gita di sci alpinismo in solitaria, mi piace pensare che il suo estremo pensiero sia stato per quell’ultimo incastro e per la Valle dell’Orco che tanto ci ha dato.

Andrea Giorda CAAI - Alpine Club UK




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