Michele Amadio, l'arrampicata, la Valle dell’Orco e la linea pura

Intervista al forte e versatile arrampicatore ed alpinista torinese Michele Amadio, classe 1984. Di Maurizio Oviglia.
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Il piemontese Michele Amadio: work in progress
archivio Michele Amadio

Il Piemonte è sempre stato una fucina di arrampicatori di grande talento. Alcuni di essi sono tuttora ai vertici dell’arrampicata italiana e mondiale, basta pensare a Stefano Ghisolfi e Gabriele Moroni. L’evoluzione in arrampicata sportiva non è però andata di pari passo con quella alpinistica, o più espressamente l’arrampicata, sia trad che sportiva, che si pratica sulle grandi pareti. Eppure il Piemonte vanta una grande tradizione alpinistica, che ha sempre avuto come fulcro la Valle dell’Orco. Tuttavia gli scalatori dell’area occidentale delle Alpi che si avventurano oggi su vie sopra il 7a, specialmente se non protette, sono pochissimi. Perché? Questione di livello o di scarso interesse per le grandi pareti?
Il torinese Michele Amadio, classe 1984, è uno degli arrampicatori (o se credete alpinisti) più forti e versatili di ultima generazione. Intendiamoci, non è, se per forti intendete questo, uno che sale l’8c su una grande parete! Almeno non per il momento, anche se glielo auguro di cuore per il futuro! Resta comunque uno dei pochi, anzi pochissimi, che in Piemonte è riuscito a salire (e spesso a liberare) vie difficili, sia trad che sportive, dando una particolare predilezione all’on sight. Mi è sembrato quindi interessante, oltre l’opportunità di conoscerlo meglio, chiedere a lui direttamente le ragioni di questo ritardo, e se di vero ritardo si tratti. (M. O.)


Michele non ci conosciamo bene, sebbene proveniamo dalla stessa città siamo di due generazioni diverse. Immagino che tu sia un arrampicatore che ha mosso i primi passi in falesia o su muro artificiale.
La montagna è nella mia vita da sempre, i miei genitori mi hanno portato in giro fin da piccolissimo e mi hanno trasmesso irrimediabilmente la loro passione. Con l’arrampicata però è stato un vero e proprio colpo di fulmine! Sui massi erratici della Val di Susa ho mosso i miei primi passi poi è stato un crescendo inarrestabile fino alla completa dipendenza.

Quale è stato il percorso che ti ha portato ad avvicinarti alle vie di più tiri e spesso a tentare di liberarle?
Il mio background è sempre stato alpinistico per cui l’evoluzione della scalata dalle falesie alle vie di più tiri è stata assolutamente naturale e quasi contemporanea, una necessità istintiva. Mi è sempre sembrato indispensabile trasferire la capacità acquisite in falesia sulle grandi pareti. Fin da subito mi è stato chiaro che la cosa più importante per me nell’affrontare una via di più tiri era il tentare di salire in libera; la mia evoluzione in questo senso è stata lenta perché ho sempre scelto vie sulle quali avevo buone probabilità di riuscire a-vista. Approssimativamente penso di essere riuscito a percorrere in questo stile circa l’80% di tutte le vie che ho salito.
È stato spontaneo quindi cercare di salire in libera anche sulle vie con tiri di artificiale o passaggi di A0. Salire cercando gli appigli senza essere sicuro che ce ne saranno o se sarò capace di tenerli, immaginare movimenti che nessuno aveva ancora immaginato, dover prestare particolare attenzione alle protezioni…insomma una buona dose di incertezza rende ogni volta la scalata una piccola avventura. In merito alle protezioni credo fortemente nell’idea che le vie non debbano venire in alcun modo modificate dal tentativo di salire in libera, magari aggiungendo spit: è indispensabile rispettare lo stile di salita scelto dagli apritori!

Quali sono stati, in questo senso, i tuoi più bei souvenir?
Sicuramente tra tutte la libera del Sole Nascente al Caporal in Valle dell’Orco, una linea mitica, simbolo del Nuovo Mattino, aperta nel 1973 con passaggi in artificiale precari. E’ stato fantastico confrontarsi con l’intuito e la bravura di Kosterlitz, Grassi e Motti. Sul primo tiro della via è stato davvero complesso trovare la sequenza chiave di movimenti per poter passare in libera. Inoltre le protezioni non sono il massimo e bisogna scalare rimanendo molto concentrati.
Sulla Strategia del ragno all’Ancesieu ho davvero vissuto una grande avventura! Seguendo le orme di Ugo Manera e Isidoro Meneghin su una parete selvaggia e sconosciuta ho potuto spingere al massimo la mia filosofia della libera ad ogni costo effettuando la prima ripetizione integrale su protezioni davvero molto precarie. Mi ha dato moltissima soddisfazione anche la salita di Spit Story nel Vallone di Sea perché sono riuscito a liberarla percorrendola interamente a-vista. Si tratta di una via di placca che si sviluppa su un granito perfetto in una valle poco conosciuta ma davvero splendida.

Mi hai detto che tra le tue destinazioni preferite c'è la Valle dell'Orco (ma credo anche il Vallone di Sea). C'è qualche ragione particolare che ti lega a questi luoghi?
La Valle dell’Orco è il posto in assoluto che preferisco, la porzione di Alpi in cui mi sento più a casa. Là ho vissuto le mie prime avventure, sulle tracce dei pionieri del Nuovo Mattino, ripercorrendo e sognando le vie e le storie che leggevo sulla tua "Rock Paradise"… penso davvero di averla imparata a memoria! Dai primi friends malmessi sul Nautilus passando per i timidi tentativi di incastro sulla Kosterlitz (che male alle mani!) fino alla prima grande soddisfazione dalla Cannabis in libera… l’Orco è sempre stato lo sfondo della mia crescita come arrampicatore e alpinista. La scalata di stampo granitico è quella che preferisco per la varietà di movimenti e situazioni che propone. Puoi salire vie di 200 metri con lunghezze incredibilmente diverse tra loro: muri a tacche, fessure ad incastro di ogni dimensione, placche da spalmo e ancora diedri e camini… tutto su roccia perfetta! Non riesco ad immaginare nulla di più bello! Il Vallone di Sea è la versione dark della Valle dell’Orco… cupo e ombroso, avvolto in un alone di mistero. Sulle le sue pareti sono state tracciate numerose vie con nomi fantastici e su un granito molto compatto e che attualmente sono un po’ abbandonate. Sono vie che hanno ancora tratti in artificiale e che aspettano solo qualcuno che vada a riscoprirle e a liberarle!

Hai provato l'arrampicata tradizionale di alta difficoltà? Secondo te questo ritorno del trad, può definirsi una moda passeggera o c’è anche qualcosa di nuovo?
L’arrampicata tradizionale è indissolubilmente legata al concetto romantico che ho di alpinismo, quello di rispettare la logica che la natura suggerisce sulla roccia per salire lasciando meno tracce possibile del nostro passaggio. Il trad è la culla della nostra arrampicata, è il ponte che le ha permesso di staccarsi in parte dalla visione eroica della montagna ma è anche l’anello che ancora la lega ad essa nella sua dimensione di avventura. Sono molto contento che si stia riscoprendo questo modo di arrampicare e trovo che il dover piazzare le protezioni in una salita aggiunga qualcosa in più rispetto alla sola difficoltà tecnica, che la renda più completa. Inoltre con i moderni materiali e la giusta tecnica il trad permette una arrampicata decisamente sicura e divertente a tutti i livelli!
Spero non si tratti solo di una moda passeggera ma che le nuove generazioni di arrampicatori riconoscano nel trad un’opportunità di allargare i propri orizzonti verticali! Per quanto mi riguarda l’arrampicata tradizionale ha sempre fatto parte del mio modo di arrampicare ed ho sempre cercato di spingere i miei limiti anche in quella direzione. Ultimamente mi sto divertendo a reinterpretare alcuni tiri storici di arrampicata sportiva in Val di Susa in chiave trad… le possibilità sono davvero moltissime!

Il Piemonte ha dato e continua a dare arrampicatori di falesia fortissimi. Come mai, secondo il tuo parere, le vie lunghe sembrano invece non interessare agli scalatori di alto livello?
Beh probabilmente perché nel Nord-Ovest mancano le vie lunghe davvero difficili! Per un top climber ormai l’8a è un grado che si può guadagnare senza troppi problemi a vista, e considerato che le vie lunghe che superano la soglia dell’ottavo grado in Piemonte si possono contare sulle dita di una mano, credo sia ragionevole pensare che si tratti di una mancanza di stimoli. A questo va aggiunto il fatto che le vie lunghe presentano sicuramente un numero più alto di variabili rispetto alla scalata in falesia, avvicinamenti e ritirate complesse, chiodatura difficile, protezioni da integrare, difficoltà obbligatorie…insomma l’accettazione del rischio fa forse parte di una mentalità più alpinistica che sportiva.

Recentemente c'è stata una riscoperta in questo senso di vie ormai dimenticate, parlo per esempio delle vie di Vaio e Rebola alle Placche Gialle in Sbarua. Pensi che sia un fatto isolato o che questo possa risvegliare l'attenzione di alcuni top climber verso il granito, e le vie lunghe in generale?
Se ad ogni regola c’è una eccezione in questo caso si chiama Federica Mingolla, fortissima climber torinese che ormai non ha più bisogno di presentazioni, da sempre appassionata di montagna, sta iniziando a trasferire le sue capacità nel mondo delle vie lunghe con risultati davvero incredibili!
Proprio sulle Placche Gialle in Sbarua, ha recentemente liberato la Via di Mauro, da sempre uno spauracchio per tutti gli arrampicatori torinesi con il suo obbligatorio elevato! Si tratta di una via con difficoltà fino al 7c+ su placche di granito con prese davvero piccole! Ecco, probabilmente anche lo stile di arrampicata contribuisce a tenere lontani i top climber dalle pareti alpine dove spesso la progressione è più tecnica che fisica e richiede più concentrazione che muscoli. La scalata sul granito è un po' demodé ma sono sicuro che se i forti si mettessero alla prova scoprirebbero un universo di possibilità!

Per molti anni in Piemonte ed in Valle d'Aosta c'è stata una concezione della scalata sulle vie lunghe molto plaisir, probabilmente derivata dall'influsso della vicina Francia. Obbligatori molto contenuti e spittatura in genere generosa. Tu sei d'accordo con questa mentalità, o preferisci ad esempio le vie con obbligatori elevati, una tendenza iniziata in Piemonte da Manlio Motto e poi continuata da Adriano Trombetta?
In linea di massima non sono d’accordo con il concetto di "plaisir", trovo che riduca drasticamente l’idea di avventura e che privi una via dell’identità, costringendola ad una serie di movimenti più o meno belli. Personalmente penso che lo stile con cui si decide di salire sia determinante e dovrebbe essere adattato al tipo di roccia e alla storia di una parete…la bellezza di una linea si costruisce anche rispettando la pietra e le linee che ci suggerisce. La mia via perfetta è una via sulla quale idealmente potrei salire senza corda, in cui le protezioni servono solo a salvarmi da un eventuale volo e non per garantirmi di arrivare in cima. E’ il compromesso però secondo me la chiave della felicità, poter scegliere di salire vie diverse, da quelle "plaisir" a quelle con obbligatori elevati, la varietà è la vera ricchezza! L’importante è il rispetto della montagna e dell’etica che i primi salitori hanno utilizzato.
Ho sviluppato il mio personale concetto di etica, prima ripetendo le bellissime vie di Manlio Motto e poi aprendo insieme ad Adriano Trombetta la mia prima via, la Nona Sinfonia alla parete sud del Monte Castello nel Vallone di Noaschetta. Siamo partiti con l’idea di scalare i grandi strapiombi rossi sulla destra della parete ma dopo il primo terzo di parete ci siamo resi conto che avremmo dovuto usare più spit del necessario e soprattutto che con le nostre capacità non saremmo riusciti a scalare in libera. Abbiamo allora assecondato una linea più semplice lungo il margine sinistro degli strapiombi, dove siamo riusciti a salire con le nostre regole spingendo l’obbligatorio il più possibile.

Hai mai fatto vie impegnative di roccia del gruppo del Monte Bianco? Come giudichi lo sviluppo che ha avuto negli ultimi 30 anni l'arrampicata su questo massiccio? Avresti preferito fosse stato diverso? Secondo te, c'è ancora spazio per esprimersi in questo massiccio, magari sul versante italiano o tutto è già stato fatto?
Ho scalato parecchio nel massiccio del Monte Bianco ripetendo numerose vie: dalle strapiombanti fessure di Les Intouchables al Trident alle placche estreme di Abysse alla Tour de Jorasses e, a patto di rispettare le regole dell’alta montagna, si tratta di un parco giochi davvero incredibile! Regno indiscusso di Michel Piola e Romain Vogler cultori della bellezza e della purezza della linea che hanno firmato capolavori assoluti, insegnando a tutti il concetto di utilizzo parsimonioso dello spit. Non credo si potesse desiderare uno sviluppo migliore di questo! Per quel che riguarda il futuro, sicuramente non è moltissimo lo spazio rimasto per nuove linee, specialmente sulle pareti più famose, ma a cercare bene tra le pieghe di una montagna cosi grande si può certamente trovare ancora terreno per esprimersi e soprattutto anche qui mancano ancora le vie davvero dure…

Michele quali sono i tuoi sogni? Hai mai pensato di trasferire la tua esperienza sui graniti piemontesi per esempio in Yosemite, o su altre big wall del pianeta?
L’arrampicata è stata sempre il motore che mi ha spinto a viaggiare ma per un motivo o per l’altro sono sempre stato in posti con grandi pareti di calcare! Lo Yosemite lo sogno praticamente da sempre, da quando ho imparato ad incastrare in fessura e spero proprio che sarà una delle mie prossime mete. Prima però mi piacerebbe cercare qualche bella parete di granito un po’ più isolata e magari aprire una nuova via. Non ho ancora mai avuto troppe possibilità per una spedizione ma di posti interessanti per il futuro ne ho già in mente diversi! Sogno un lungo avvicinamento, una parete sperduta e una linea pura che mi porti verso la cima fessura dopo fessura… forse chiedo un po’ troppo?




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