Hanspeter Eisendle e Simone Moro. Alpinismo e alpinisti
Interviste a Hanspeter Eisendle e Simone Moro al Forum di Sesto Pusteria: riflessioni su alpinismo e l'arte di arrampicarsi 2002.
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Hanspeter Eisendle e Simone Moro
Planetmountain.com
Dal 10 al 13 ottobre, la Vertical Arena di Sesto Pusteria ha ospitato il Forum "Situazione dell'arte di arrampicarsi nel 2002", con la partecipazione tra gli altri di Reinhold Messner, Hanspeter Eisendle, Christoph Hainz, Simone Moro, Othmar Prinoth, Luca Zardini e Pietro Dal Prà.
Abbiamo chiesto a Hanspeter Eisendle e Simone Moro il loro punto di vista, coscienti che l'alpinismo, come tutte le "ricerche" e le "spinte" personali, può trarre vantaggio (e perchè no, anche crescere) dalle esperienze, dallo scambio delle idee, e dal dibattito.
HANSPETER EISENDLE
Hanspeter, cos’è per te la fantasia nell’arte di arrampicarsi?
Personalmente sono sempre stato più attratto da quelle montagne, vie o addirittura (solo) falesie di cui ho pochissime informazioni, o meglio nessuna. Le guardo e si aprono linee e possibilità di salita che sono lo specchio delle mie capacità. Si apre un paradiso per le mie fantasie alpinistiche! In generale però l’uomo tende ad un comportamento simile a quello delle pecore. Abbiamo bisogno di qualcuno che ci porti al miglior pascolo, qualcuno che indichi la strada con schizzi, spit e tracce di magnesite. Conosco, invece, degli appoggi minuscoli nelle Dolomiti sui quali l'anima si trova più lontana da casa che sulle corde fisse di un ottomila.
Arrampicata, quante espressioni può avere, e quali tra queste distingue l’alpinismo?
Io distinguo soltanto due tipi di arrampicata. Quella "consumistica" che richiede infrastrutture preparate - come falesie, palestre coperte e le cosiddette "vie plaisire“ in montagna (ottima roccia e una "cerniera" di spit). E poi l'arrampicata "autoresponsabile" che non ha bisogno di strutture fisse - dalla via di 50 metri con chiodi arrugginiti e dadi abbandonati nelle Calanques, fino alle vie di granito sui settemila del Karakorum. Un boulder di 8 metri nel bosco o nel deserto (come Midnight lightning a Yosemite), secondo il mio concetto può essere più vicino all’arrampicata autoresponsabile della via in montagna con 300 spit su 400 metri (vedi Scotonata gallatica).
Ci sono impulsi nuovi nell’alpinismo? E in quali direzioni si muovono?
Dopo il "Mountainfuture“ di Innsbruck e il Forum al "Vertical arena“ di Sesto mi sembra di percepire un lento ritorno alle origini, un ritorno all’arrampicata autoresponsabile o, se vogliamo, all’arrampicata di rischio. L’alpinismo era ed è sempre anacronistico! Quando negli anni 60 l’uomo con il massimo di tecnologia atterrava sulla luna, Messner proclamava il suo alpinismo basato sulla rinuncia della tecnologia. Oggi la tecnologia e la terminologia nell’alpinismo si è avvicinata a quella dell’atterraggio sulla luna. Allora dobbiamo ritornare all’Alpinismo autoresponsabile e alle parole chiare.
Puoi precisare meglio cosa intendi per rischio e arrampicata "autoresponsabile". Penso ad un frase: "Tornare a casa vivi con il proprio compagno è più importante che salire in vetta". Arrampicata autoresponsabile significa anche avere la capacità di capire fino a dove ci si può spingere , e c'è un limite al rischio?
La frase che citi mi pare un "fioretto". In più è troppo facile avere soltanto la meta di tornare a casa con il compagno. Se torni giù all'attacco della via, dove incomincia il rischio, è intelligente ma non arrivi mai "in vetta". Ed è questo che vogliamo, sinceramente.
Così arriviamo al "passaggio chiave" dell'argomento: per conoscere il punto di ritorno, bisogna ovviamente andare oltre l'attacco e anche oltre la danza verticale divertente. Spesso lo troviamo nelle nostre teste. Ma ogni tanto capita che ti trovi al di là del "point of no return". E' lì, dove devi essere veramente bravo per ritornare vivo con il tuo compagno! Voglio dire che l'andare fino al limite della testa è una cosa che rimane, è fare esperienza ed esercitare l'istinto, che poi sono gli unici strumenti che ti salvano quando ti trovi al limite "psicofisico", il limite assoluto.
Nessuno può decidere per me, né c'è un limite permanente in me, cambia ogni giorno, ogni minuto. Per questo penso che l'alpinismo è rimasto fino ad oggi la massima espressione di autoresponsabilità, anche se qualcuno pensa il contrario.
Penso che Alexander Huber scalando slegato sulla Hasse-Brandler è più cosciente di quello che fa e anche più autoresponsabile rispetto a qualche alpinista che segue in fila indiana il cavo della ferrata del Pisciadù, anche se il rischio per il primo rimane comunque più alto. Il limite del rischio c'è! Ma c'è soltanto in noi, in ognuno di noi. Ed è questo che dà importanza all'alpinismo nelle sue forme diverse. La vita moderna ci ha ridotto tutti a dipendenti di qualcosa; in montagna abbiamo la possibilità di essere i capi, i superboss, non c'è un'istanza superiore. Sfruttiamo l'occasione senza giudicare chi ha sbagliato!
Qual è, se c’è, la funzione dei cosiddetti alpinisti di punta?
Penso che l’alpinista a tempo pieno, dalla guida alpina fino allo sponsorizzato, ha più tempo e più sensibilità per sentire le strade sbagliate nello sviluppo dell’alpinismo rispetto all’alpinista della domenica. Per questo avrebbe anche il dovere, e la funzione, di esprimersi pubblicamente invece di fare il falso modesto.
Cultura dell’alpinismo e alpinisti, cosa è emerso nel Forum?
Riflettere sulle tendenze e discuterle in modo comprensibile per molti, se non per tutti, è già espressione di cultura. Però dimostrarla, facendo vie nuove con certe idee o con una certa etica, conta molto di più.
Quale spazio c’è ancora per l’avventura nell’esperienza alpinistica e nell’arrampicata?
Nel 1981 ho aperto Fata Morgana sulla IIa Torre del Sella senza usare chiodi e senza lasciare tracce su tutta la via. Fino ad oggi è rimasta quasi uguale! Pur essendo una via breve, e oggi di basso livello (VI+), è rimasta la massima espressione del mio concetto d’arrampicata. Nel 2000 ho tracciato, insieme a Reinhold Messner e Wolfgang Thomaseth, una via nuova di 3400 metri di dislivello sul Nanga Parbat. Anche se non finisce sulla cima, ma sulla cresta della via dei cecoslovacchi, significa che nel 2000 è ancora possibile trovare terreno d’avventura sugli ottomila (senza gente e senza corde fisse). Di più: è fantastico pensare che la via tecnicamente più facile del "Nanga“ abbia aspettato il 2000 per essere aperta!
Proprio seguendo gli "ideali“ dello stile pulito, del clean climbing e del free climbing vedo ancora grandissimi spazi per l’avventura e l’esperienza alpinistica.
SIMONE MORO
Simone, cos’è per te la fantasia nell’arte di arrampicarsi?
E quella che non nasce dai condizionamenti esterni, da menti e da etiche altrui. Ognuno è frutto della propria storia, della propria educazione di emozioni, paure, abilità, spavalderie, paranoie, entusiasmi, idoli, invidie, errori, limiti, che mescolati e tassellati costituiscono il nostro vissuto e l'impianto da cui nascono le nostre scelte e le nostre fantasie.
E' per questo che non esiste a mio avviso un significato comune ed universale di fantasia, di avventura e anche di libertà nell'arrampicata. La fantasia applicata all’arrampicata è una pulsione personale che influisce sia sul dove, sul come, sul quando essa si manifesti. Solitario o in cordata, d’estate o in inverno, con o senza spit, in velocità o in lenta progressione, nelle Alpi, nell’Himalya, al Polo o sulla falesia di casa propria.
Se ognuno di noi avesse un pezzo di legno identico da scolpire otterremmo tante diverse sculture. Così per una parete di roccia o una sequenza di movimenti. Ognuno di noi poserebbe lo sguardo e la fantasia su linee o modi diversi di salirla. Anche una falesia vergine verrebbe attrezzata in modo diverso e personale, a seconda delle fantasie di ogni arrampicatore.
E' per questo che odio definizioni e sentenze rigide che tentano di codificare dove inizia e finisce la fantasia e l’avventura nell’arrampicarsi. Posso forse pensare che la fantasia arrampicatoria non dovrebbe essere materialmente sovrapponibile a quella di qualcun altro, ossia che non si dovrebbe concretizzare una nostra fantasia verticale togliendo o aggiungendo pezzi ad un’opera d’arte ed una fantasia già manifestata da altri sullo stesso identico terreno d’azione. Ma anche qui non si può essere assoluti perché ogni opera d’arte viene spesso restaurata per restituirne splendore ed evitarne la morte...
Arrampicata, quante espressioni può avere, e quali tra queste distingue l’alpinismo?
Sembra quasi che si voglia per forza litigare e surriscaldare gli animi di qualcuno, rispondendo a queste domande e scervellandosi a trovare differenze e codificazioni. Forse io sono uno che non si domanda troppi perché e non amo nemmeno ottenere tante risposte se non quelle che mi procuro vivendo ed agendo. Alpinismo ed arrampicata sono due vocaboli e due concetti che, come il gioco delle matriosche, si contengono l’un l’altro.
Posso fare alpinismo arrampicandomi e l’esatto contrario. La fantasia di ognuno di noi decide e decodifica la variabili e dunque i modi ed il numero delle espressioni di queste attività. Non c’è e non ci saranno nella mia mente steccati e definizioni da vocabolario su ciò che è una cosa o un'altra. Continuo ad arrampicare nel garage di casa, sulle grandi pareti fin sulla punta dell’Everest senza cambiare entusiasmo o la scala dei valori. Agire per vivere e vivere per agire. Anche solo con la forza dei propri pensieri e della mente. Diversamente siamo tutti in fila indiana anche quando ci definiamo in solitaria o in prima assoluta...
Ci sono impulsi nuovi nell’alpinismo? E in quali direzioni si muovono?
Mi sembra che ci sia più voglia di raccontare e raccontarsi e non solo per esigenze di portafoglio. Inoltre c’è meno paura di osare e di preoccuparsi delle opinioni altrui. Dopo la splendida e gloriosa fase esplorativa dei pionieri dell’arte di salire e scendere le montagne si è passati a quella dello sviluppo delle singole abilità per poi passare, oggi, all’utilizzo di queste ultime e del senso storico da cui sono nate, per ideare e realizzare le attuali salite e discese. Con o senza spit, con o senza ossigeno, con o senza la corda, con o senza il sole, con o senza il compagno, con o senza il telefono. Si stanno riscoprendo anche tanti spazi d’azione e d’avventura anche sulle montagne fuori casa a dimostrazione che non è il luogo ma l’uomo il protagonista fondamentale delle novità e dell’evoluzione.
Qual è, se c’è, la funzione dei cosiddetti alpinisti di punta?
Nessuno degli scalatori di punta si muove perché pensa di avere una particolare funzione da svolgere. Possono semmai rendersi conto che potrebbero diventare oggetto di emulazione o di tendenza e generalmente stanno attenti a quello che predicano...
Alcuni (pochissimi) sono come astronauti che esplorano realmente nuove frontiere del pensiero e dell’azione. Altri sono come attori in un film e recitano, anche splendidamente, seguendo però un copione... Con il passare degli anni e l’assottigliamento dei progressi fisici e tecnici propri dell’uomo, anche gli alpinisti di punta cominceranno a "perdere“ più frequentemente e, a quel punto, scopriremo chi di loro sarà anche e sopratutto un uomo, oltre che un abile funambolo dei sogni verticali.
Cultura dell’alpinismo e alpinisti, cosa è emerso nel Forum?
Ciò che è emerso nel piacevole, anche se breve, dibattito di Sesto Pusteria è che non va più di moda leggere e sapere la storia dell’alpinismo. Non c’è dunque una generale apatia all’esercizio fisico che preoccupa delle giovani generazioni, ma anche la scarsa attenzione ad un'analisi ed una ricerca storiografica e bibliografica di quello che si fa.
Probabilmente nel nostro ambiente questo fenomeno è meno catastrofico ed allarmante di altri e, grazie a Dio, le nuove tendenze e forme del divertirsi in verticale attraggono ragazzi e ragazze in numero ancora incoraggiante. Interessano però più le "news“ ed i numeri che una sana lettura di cultura alpina e vicende di storia alpinistica. Uno degli obbiettivi di Messner e di altri, presenti anche a Sesto Pusteria, è di conservare il nostro passato non solo con dei ricordi ma con qualcosa che rimane scritto, visto, esposto, immortalato e studiato...
Quale spazio c’è ancora per l’avventura nell’esperienza alpinistica e nell’arrampicata?
Tantissima! Dove c’è fantasia ci può essere avventura e dalle mie risposte precedenti dovrebbe risultare chiaro in che modo io la concepisca. Non si pensi all’avventura come un qualcosa di universale e globale. Ciò che è avventura per me può non esserlo per un altro. Anche un temporale su una via di 3° grado può essere avventura, come può non esserlo il progredire in fila indiana su una famosa salita. Ma, anche in quest'ultimo caso non si pensi che qualcuno di quella fila non stia vivendo una esaltante ed indimenticabile avventura e si senta, anche solo, con le sue paure che per orgoglio o fatica non riesce a raccontare. Smettiamola di considerare la morte, la solitudine, il freddo, l’isolamento totale come unico ed esclusivo modo di concepire l’avventura. Lo può essere per me, ma dove sta scritto che lo debba essere per il mondo intero?
Abbiamo chiesto a Hanspeter Eisendle e Simone Moro il loro punto di vista, coscienti che l'alpinismo, come tutte le "ricerche" e le "spinte" personali, può trarre vantaggio (e perchè no, anche crescere) dalle esperienze, dallo scambio delle idee, e dal dibattito.
HANSPETER EISENDLE
Hanspeter, cos’è per te la fantasia nell’arte di arrampicarsi?
Personalmente sono sempre stato più attratto da quelle montagne, vie o addirittura (solo) falesie di cui ho pochissime informazioni, o meglio nessuna. Le guardo e si aprono linee e possibilità di salita che sono lo specchio delle mie capacità. Si apre un paradiso per le mie fantasie alpinistiche! In generale però l’uomo tende ad un comportamento simile a quello delle pecore. Abbiamo bisogno di qualcuno che ci porti al miglior pascolo, qualcuno che indichi la strada con schizzi, spit e tracce di magnesite. Conosco, invece, degli appoggi minuscoli nelle Dolomiti sui quali l'anima si trova più lontana da casa che sulle corde fisse di un ottomila.
Arrampicata, quante espressioni può avere, e quali tra queste distingue l’alpinismo?
Io distinguo soltanto due tipi di arrampicata. Quella "consumistica" che richiede infrastrutture preparate - come falesie, palestre coperte e le cosiddette "vie plaisire“ in montagna (ottima roccia e una "cerniera" di spit). E poi l'arrampicata "autoresponsabile" che non ha bisogno di strutture fisse - dalla via di 50 metri con chiodi arrugginiti e dadi abbandonati nelle Calanques, fino alle vie di granito sui settemila del Karakorum. Un boulder di 8 metri nel bosco o nel deserto (come Midnight lightning a Yosemite), secondo il mio concetto può essere più vicino all’arrampicata autoresponsabile della via in montagna con 300 spit su 400 metri (vedi Scotonata gallatica).
Ci sono impulsi nuovi nell’alpinismo? E in quali direzioni si muovono?
Dopo il "Mountainfuture“ di Innsbruck e il Forum al "Vertical arena“ di Sesto mi sembra di percepire un lento ritorno alle origini, un ritorno all’arrampicata autoresponsabile o, se vogliamo, all’arrampicata di rischio. L’alpinismo era ed è sempre anacronistico! Quando negli anni 60 l’uomo con il massimo di tecnologia atterrava sulla luna, Messner proclamava il suo alpinismo basato sulla rinuncia della tecnologia. Oggi la tecnologia e la terminologia nell’alpinismo si è avvicinata a quella dell’atterraggio sulla luna. Allora dobbiamo ritornare all’Alpinismo autoresponsabile e alle parole chiare.
Puoi precisare meglio cosa intendi per rischio e arrampicata "autoresponsabile". Penso ad un frase: "Tornare a casa vivi con il proprio compagno è più importante che salire in vetta". Arrampicata autoresponsabile significa anche avere la capacità di capire fino a dove ci si può spingere , e c'è un limite al rischio?
La frase che citi mi pare un "fioretto". In più è troppo facile avere soltanto la meta di tornare a casa con il compagno. Se torni giù all'attacco della via, dove incomincia il rischio, è intelligente ma non arrivi mai "in vetta". Ed è questo che vogliamo, sinceramente.
Così arriviamo al "passaggio chiave" dell'argomento: per conoscere il punto di ritorno, bisogna ovviamente andare oltre l'attacco e anche oltre la danza verticale divertente. Spesso lo troviamo nelle nostre teste. Ma ogni tanto capita che ti trovi al di là del "point of no return". E' lì, dove devi essere veramente bravo per ritornare vivo con il tuo compagno! Voglio dire che l'andare fino al limite della testa è una cosa che rimane, è fare esperienza ed esercitare l'istinto, che poi sono gli unici strumenti che ti salvano quando ti trovi al limite "psicofisico", il limite assoluto.
Nessuno può decidere per me, né c'è un limite permanente in me, cambia ogni giorno, ogni minuto. Per questo penso che l'alpinismo è rimasto fino ad oggi la massima espressione di autoresponsabilità, anche se qualcuno pensa il contrario.
Penso che Alexander Huber scalando slegato sulla Hasse-Brandler è più cosciente di quello che fa e anche più autoresponsabile rispetto a qualche alpinista che segue in fila indiana il cavo della ferrata del Pisciadù, anche se il rischio per il primo rimane comunque più alto. Il limite del rischio c'è! Ma c'è soltanto in noi, in ognuno di noi. Ed è questo che dà importanza all'alpinismo nelle sue forme diverse. La vita moderna ci ha ridotto tutti a dipendenti di qualcosa; in montagna abbiamo la possibilità di essere i capi, i superboss, non c'è un'istanza superiore. Sfruttiamo l'occasione senza giudicare chi ha sbagliato!
Qual è, se c’è, la funzione dei cosiddetti alpinisti di punta?
Penso che l’alpinista a tempo pieno, dalla guida alpina fino allo sponsorizzato, ha più tempo e più sensibilità per sentire le strade sbagliate nello sviluppo dell’alpinismo rispetto all’alpinista della domenica. Per questo avrebbe anche il dovere, e la funzione, di esprimersi pubblicamente invece di fare il falso modesto.
Cultura dell’alpinismo e alpinisti, cosa è emerso nel Forum?
Riflettere sulle tendenze e discuterle in modo comprensibile per molti, se non per tutti, è già espressione di cultura. Però dimostrarla, facendo vie nuove con certe idee o con una certa etica, conta molto di più.
Quale spazio c’è ancora per l’avventura nell’esperienza alpinistica e nell’arrampicata?
Nel 1981 ho aperto Fata Morgana sulla IIa Torre del Sella senza usare chiodi e senza lasciare tracce su tutta la via. Fino ad oggi è rimasta quasi uguale! Pur essendo una via breve, e oggi di basso livello (VI+), è rimasta la massima espressione del mio concetto d’arrampicata. Nel 2000 ho tracciato, insieme a Reinhold Messner e Wolfgang Thomaseth, una via nuova di 3400 metri di dislivello sul Nanga Parbat. Anche se non finisce sulla cima, ma sulla cresta della via dei cecoslovacchi, significa che nel 2000 è ancora possibile trovare terreno d’avventura sugli ottomila (senza gente e senza corde fisse). Di più: è fantastico pensare che la via tecnicamente più facile del "Nanga“ abbia aspettato il 2000 per essere aperta!
Proprio seguendo gli "ideali“ dello stile pulito, del clean climbing e del free climbing vedo ancora grandissimi spazi per l’avventura e l’esperienza alpinistica.
SIMONE MORO
Simone, cos’è per te la fantasia nell’arte di arrampicarsi?
E quella che non nasce dai condizionamenti esterni, da menti e da etiche altrui. Ognuno è frutto della propria storia, della propria educazione di emozioni, paure, abilità, spavalderie, paranoie, entusiasmi, idoli, invidie, errori, limiti, che mescolati e tassellati costituiscono il nostro vissuto e l'impianto da cui nascono le nostre scelte e le nostre fantasie.
E' per questo che non esiste a mio avviso un significato comune ed universale di fantasia, di avventura e anche di libertà nell'arrampicata. La fantasia applicata all’arrampicata è una pulsione personale che influisce sia sul dove, sul come, sul quando essa si manifesti. Solitario o in cordata, d’estate o in inverno, con o senza spit, in velocità o in lenta progressione, nelle Alpi, nell’Himalya, al Polo o sulla falesia di casa propria.
Se ognuno di noi avesse un pezzo di legno identico da scolpire otterremmo tante diverse sculture. Così per una parete di roccia o una sequenza di movimenti. Ognuno di noi poserebbe lo sguardo e la fantasia su linee o modi diversi di salirla. Anche una falesia vergine verrebbe attrezzata in modo diverso e personale, a seconda delle fantasie di ogni arrampicatore.
E' per questo che odio definizioni e sentenze rigide che tentano di codificare dove inizia e finisce la fantasia e l’avventura nell’arrampicarsi. Posso forse pensare che la fantasia arrampicatoria non dovrebbe essere materialmente sovrapponibile a quella di qualcun altro, ossia che non si dovrebbe concretizzare una nostra fantasia verticale togliendo o aggiungendo pezzi ad un’opera d’arte ed una fantasia già manifestata da altri sullo stesso identico terreno d’azione. Ma anche qui non si può essere assoluti perché ogni opera d’arte viene spesso restaurata per restituirne splendore ed evitarne la morte...
Arrampicata, quante espressioni può avere, e quali tra queste distingue l’alpinismo?
Sembra quasi che si voglia per forza litigare e surriscaldare gli animi di qualcuno, rispondendo a queste domande e scervellandosi a trovare differenze e codificazioni. Forse io sono uno che non si domanda troppi perché e non amo nemmeno ottenere tante risposte se non quelle che mi procuro vivendo ed agendo. Alpinismo ed arrampicata sono due vocaboli e due concetti che, come il gioco delle matriosche, si contengono l’un l’altro.
Posso fare alpinismo arrampicandomi e l’esatto contrario. La fantasia di ognuno di noi decide e decodifica la variabili e dunque i modi ed il numero delle espressioni di queste attività. Non c’è e non ci saranno nella mia mente steccati e definizioni da vocabolario su ciò che è una cosa o un'altra. Continuo ad arrampicare nel garage di casa, sulle grandi pareti fin sulla punta dell’Everest senza cambiare entusiasmo o la scala dei valori. Agire per vivere e vivere per agire. Anche solo con la forza dei propri pensieri e della mente. Diversamente siamo tutti in fila indiana anche quando ci definiamo in solitaria o in prima assoluta...
Ci sono impulsi nuovi nell’alpinismo? E in quali direzioni si muovono?
Mi sembra che ci sia più voglia di raccontare e raccontarsi e non solo per esigenze di portafoglio. Inoltre c’è meno paura di osare e di preoccuparsi delle opinioni altrui. Dopo la splendida e gloriosa fase esplorativa dei pionieri dell’arte di salire e scendere le montagne si è passati a quella dello sviluppo delle singole abilità per poi passare, oggi, all’utilizzo di queste ultime e del senso storico da cui sono nate, per ideare e realizzare le attuali salite e discese. Con o senza spit, con o senza ossigeno, con o senza la corda, con o senza il sole, con o senza il compagno, con o senza il telefono. Si stanno riscoprendo anche tanti spazi d’azione e d’avventura anche sulle montagne fuori casa a dimostrazione che non è il luogo ma l’uomo il protagonista fondamentale delle novità e dell’evoluzione.
Qual è, se c’è, la funzione dei cosiddetti alpinisti di punta?
Nessuno degli scalatori di punta si muove perché pensa di avere una particolare funzione da svolgere. Possono semmai rendersi conto che potrebbero diventare oggetto di emulazione o di tendenza e generalmente stanno attenti a quello che predicano...
Alcuni (pochissimi) sono come astronauti che esplorano realmente nuove frontiere del pensiero e dell’azione. Altri sono come attori in un film e recitano, anche splendidamente, seguendo però un copione... Con il passare degli anni e l’assottigliamento dei progressi fisici e tecnici propri dell’uomo, anche gli alpinisti di punta cominceranno a "perdere“ più frequentemente e, a quel punto, scopriremo chi di loro sarà anche e sopratutto un uomo, oltre che un abile funambolo dei sogni verticali.
Cultura dell’alpinismo e alpinisti, cosa è emerso nel Forum?
Ciò che è emerso nel piacevole, anche se breve, dibattito di Sesto Pusteria è che non va più di moda leggere e sapere la storia dell’alpinismo. Non c’è dunque una generale apatia all’esercizio fisico che preoccupa delle giovani generazioni, ma anche la scarsa attenzione ad un'analisi ed una ricerca storiografica e bibliografica di quello che si fa.
Probabilmente nel nostro ambiente questo fenomeno è meno catastrofico ed allarmante di altri e, grazie a Dio, le nuove tendenze e forme del divertirsi in verticale attraggono ragazzi e ragazze in numero ancora incoraggiante. Interessano però più le "news“ ed i numeri che una sana lettura di cultura alpina e vicende di storia alpinistica. Uno degli obbiettivi di Messner e di altri, presenti anche a Sesto Pusteria, è di conservare il nostro passato non solo con dei ricordi ma con qualcosa che rimane scritto, visto, esposto, immortalato e studiato...
Quale spazio c’è ancora per l’avventura nell’esperienza alpinistica e nell’arrampicata?
Tantissima! Dove c’è fantasia ci può essere avventura e dalle mie risposte precedenti dovrebbe risultare chiaro in che modo io la concepisca. Non si pensi all’avventura come un qualcosa di universale e globale. Ciò che è avventura per me può non esserlo per un altro. Anche un temporale su una via di 3° grado può essere avventura, come può non esserlo il progredire in fila indiana su una famosa salita. Ma, anche in quest'ultimo caso non si pensi che qualcuno di quella fila non stia vivendo una esaltante ed indimenticabile avventura e si senta, anche solo, con le sue paure che per orgoglio o fatica non riesce a raccontare. Smettiamola di considerare la morte, la solitudine, il freddo, l’isolamento totale come unico ed esclusivo modo di concepire l’avventura. Lo può essere per me, ma dove sta scritto che lo debba essere per il mondo intero?
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