Filip Babicz, pareti di libertà
Quando in una recente e-mail l’amico Marek Grocholski (direttore di Tatry, l’importante rivista polacca di alpinismo e cultura di montagna) mi chiese se conoscevo Filip Babicz, un giovane di 36 anni, fanatico arrampicatore sportivo, nonché alpinista e skyrunner, gli risposi di no. Dovresti conoscerlo e intervistarlo, ribadì e aggiunse: "Non è famoso in Polonia perché vive in Italia e non è famoso in Italia perché è polacco".
In verità ero un po’ perplesso perché l’arrampicata sportiva su pareti artificiali, il dry-tooling e la corsa in montagna, poco si addicono con il mio personale pensiero di alpinismo; argomento che ho sempre cercato di trattare per conoscere meglio lo spirito e l’umanità dei protagonisti. Ma c’era qualcosa che mi intrigava di questo "sconosciuto", il fatto che avesse girato mezza Europa e fatto molti sacrifici per giungere a realizzare in Italia il suo sogno di arrampicare da professionista. Nonostante le mie titubanze, decisi di incontrarlo e lo feci via Skype. Una bella chiacchierata di oltre due ore che mi permise di conoscerlo un po’ di più. Poi avrei dovuto scrivere di lui, ma nei giorni seguenti questo pensiero mi tormentò molto.
Ma come faccio a scrivere di uno che ha quasi sempre arrampicato su pareti di "plastica", uno che per cercare l’exploit realizza in una grotta una via di dry-tooling di M16 (una delle due vie più difficili al mondo), uno che sale e scende il Cervino (partendo da Cervinia) in cinque ore? Questa non è montagna! Questo non è alpinismo! Questo è solo sport e forse banalizzazione della montagna stessa! Come faccio io, da sempre difensore dell’ambiente e della montagna, scrivere di qualcuno che la corre via? Ci ho riflettuto qualche giorno, poi gli ho scritto le ragioni per cui non potevo farlo. Anche lui, dispiaciuto, mi ha risposto rispettando la mia scelta e la mia filosofia sul modo di intendere la pratica della montagna. Però, leggendo tra le righe, ho compreso qualcosa che a primo acchito, in quel breve incontro via Skype, forse non avevo compreso pienamente e giudicando male Filip.
In realtà per lui la montagna è come l’acqua per un pesce, un continuo motivo di crescita spirituale. Sì, Filip ha lo spirito dell’atleta, l’exploit è nel suo DNA, ma vive la montagna in modo molto profondo, quasi mistico. Per realizzare ogni suo sogno, specie nelle corse in alta montagna, s’impone una filosofia e un’etica davvero invidiabili: rispetto della natura, autosufficienza, solitudine, niente corde fisse e un zainetto minimalista anche in luoghi ostili e con condizioni sfavorevoli e difficoltà alpinistiche elevate.
Be’, allora questa è davvero un’unione con la Montagna ed io, sul subito, non l’avevo ben capito. Chi sono io, chi siamo noi per giudicare e criticare la velocità con la quale una persona raggiunge una cima? Al massimo potrei chiedere a Filip se salendo o scendendo da questa o quella montagna ha visto e sentito il profumo di quel fiore, se nel suo correre si è accorto di quel camoscio che lo guardava curioso da dietro un mugo mentre l’aquila lo sorvegliava volteggiando in cielo, oppure se si è mai fermato a chiedere un po’ d’acqua ad un malgaro o arrivando stanco in un paesino ha mai scambiato due chiacchiere con un vecchio del posto, così, tanto per conoscere un po’ di più le storie di montagna.
Se penso a quante immondizie vengono abbandonate nelle montagne, a quante rocce e pareti sono state imbrattate con scritte, a quante bombole di ossigeno, chiodi, corde, spit, scalette ed altro ancora sono state lasciate o infisse da pseudo alpinisti, allora a ben guardare Filip assurge come a quel Paul Preuss che un secolo fa saliva e scendeva le montagne con solo mani e piedi credendosi un angelo, forse immortale. Lungi da istigare i giovani a imitare Filip, lasciamo però ad ogni amante della montagna la libertà di viverla profondamente, con coraggio, senza maschere e anche con la possibilità di arrischiare la vita, se per raggiungere una dimensione, se per sperimentare la leggerezza, se per vivere la propria spiritualità, lo si deve fare. Almeno lì, nelle montagne, lontani dagli stereotipi della civiltà e dalle prigioni che spesso la città impone, lasciamo che ognuno sia libero di andare.
Dove sei nato e cresciuto?
Nel sud della Polonia, non molto lontano da Katowice, la città dove è nato anche Jerzy Kukuczka. Poi sono cresciuto a Zakopane, ai piedi dei Monti Tatra, le uniche montagne di carattere alpino tra le Alpi a Ovest e il Caucaso a Est.
Chi ti ha trasmesso la passione per la montagna?
Mio padre, guida dei Monti Tatra. Già a 10 anni andavamo insieme su pareti di 200, 300 metri sulle vie facili (II grado). Ero portato per andare in questi posti. Così a 14 anni ho cominciato a praticare l’arrampicata con regolarità, come atleta, facendo delle gare. Per allenarmi usavo un muretto alto 2 metri che si trova ancora oggi a Zakopane, nella sede del Club Alpino Polacco.
Perché te ne sei andato dalla Polonia?
Avevo delle idee molto chiare, il mio sogno era diventare un giorno il Campione del Mondo di arrampicata. Quando mi allenavo al muretto di Zakopane conobbi Adam Liana, il Campione Polacco. Diventammo amici e lui mi parlò di François Legrand, francese, triplo Campione del Mondo e della sua storia di vita. Questo racconto mi affascinò al punto che decisi di seguire le sue orme e andare a vivere in Francia. In quegli anni i francesi, e in particolare François, rappresentavano il livello più alto in gara. Quello era il posto più adatto per realizzare il mio sogno.
Ma la Polonia è la terra di alcuni tra i più forti himalaysti al mondo; penso a Jerzy Kukuczka o a Krzysztof Wielicki…
Sì, questo è vero, ma in quel momento io avevo 17 anni e volevo realizzarmi nello sport. Così, pur provenendo da un paese di forti himalaysti, ho sentito il bisogno di andare a vivere dove l’arrampicata sportiva era uno sport nazionale.
Come è stato organizzato il tuo viaggio, dove sei andato?
A scuola ero uno studente molto bravo e malgrado abbia dovuto abbandonare il liceo, avevo l’appoggio dei miei genitori. Infatti realizzare questo piano senza il loro supporto non sarebbe stato possibile. Mia madre chiese l’aiuto alla mia professoressa di francese. Poi lei riusci a rintracciare il numero di telefono di Legrand e un giorno l’ho chiamò. Grazie al interessamento di François della mia storia qualche mese dopo andai a vivere a Aix-en-Provence, a qualche chilometro da casa sua. Lì c’è una scuola, CREPS dove da tutta la Francia giungono le speranze dello sport: i giovani che vogliono diventare atleti professionisti. Tra le varie specialità c’è anche l’arrampicata sportiva. Lì conobbi Legrand di persona. Un giorno in falesia mi propose di andare a vivere a casa sua! Subito dissi di si, non mi pareva vero! Abitavo e mi allenavo col mio idolo, il campione che avrei voluto emulare!
Come è stata quest’esperienza?
Al livello sportivo mi piacque molto. Mi allenai con il migliore garista al mondo, scalavo nelle falesie che fino allora conoscevo soltanto dalle riviste: Buoux, Seynes, Les Calanques, Orgon, Cimaï solo per citare quelle più famose. Poi però per diversi motivi sono andato via. Ma non volevo ristabilirmi in Polonia, il mio spirito mi diceva che dovevo andare altrove.
Quindi che cosa hai fatto?
Iniziai a viaggiare molto. Anche se poco dopo mi iscrissi alla facoltà "Turismo e Ricreazione" dell’ISEF a Cracovia, come Campione Polacco Giovanile potevo non frequentare i corsi all’Università. Visitai Austria, Svizzera, Francia, Italia, Spagna, Portogallo, sempre con l’obiettivo di arrampicare. Arrampicare e basta! Mi spostavo in autostop e dormivo facendo campeggio selvaggio alla base delle falesie. Vivevo con davvero pochi soldi, mi servivano solo per mangiare e l'attrezzatura. Durante questi viaggi ho lavorato raramente, soltanto qualche volta, raccogliendo arance alle piantagioni spagnole oppure facendo qualche lavoretto extra quando capitava l’occasione.
Sei stato anche a Gaeta, nella Grotta dell’Arenauta, dove hai liberato una via di 8b+.
Sì, nel 2001 ho liberato questa linea che ora è conosciuta con tre nomi diversi: Viaggio Uguale Infinito, La Teoria dell’8a e Deus Fortitudo. Il terzo nome l’ho dato io quando l’ho liberata, perché mi è stato detto che non ne aveva uno. Un giorno, nella grotta, conobbi anche Erri De Luca. Arrampicava scalzo e senza magnesite. Qualche anno dopo, leggendo un’intervista nella rivista francese Vertical, scoprii che aveva ripetuto questa mia via! A 53 anni Deus Fortitudo è diventata la sua scalata più difficile mai realizzata.
Come sei finito a vivere in Italia?
E’ successo per una serie di circostanze. Nel 2003 sono venuto a Lecco per una tappa di Coppa del Mondo. Poi due settimane dopo avrei dovuto essere a Chamonix per partecipare al Campionato del Mondo. Sapendo che per arrivarci dovevo passare per Courmayeur ho deciso di allenarmi lì. Il muro di Courmayeur l’ho conosciuto qualche anno prima, nel 1999 in occasione dei Campionati Mondiali Giovanili. Ricordo che, sia io che i miei collegi della nazionale eravamo rimasti impressionati dalla bellezza e grandezza di questa struttura. Sognavamo di avere una parete così per allenarsi. Così, dopo la gara a Lecco, approfittai e mi fermai a Courmayeur. In questa occasione mi accampai per un po’ di giorni con la mia tenda proprio sotto il famoso Tetto di Sarre, una falesia sopra Aosta.
Poi sei andato a Chamonix.
Sì, ma dopo la gara sono tornato in Italia. Il muro di Courmayeur gestito dalle guide era un po’ abbandonato e poco valorizzato e io avevo delle idee per cambiare questa situazione. Era da tempo che cercavo qualcosa che mi permettesse di guadagnarmi da vivere continuando con la mia passione. Così parlai con il presidente della Società delle Guide, Luca Ferraris, sulle possibilità di collaborazione. Lui accettò la mia proposta e così diventai il tracciatore delle vie e poi, durante la stagione estiva, anche il bigliettaio.
Cosa hai trovato in Italia che in Polonia non c’era?
Al centro della mia decisione di rimanere a Courmayeur c’era il muro di arrampicata dove avrei voluto allenarmi. Poi comunque non riuscirei a vivere in pianura o in una città. Ho bisogno di avere le montagne a portata di mano. E qui ho le Alpi, il Monte Bianco che adoro. In Polonia si vive bene, ma da quando avevo 16 anni volevo vivere in Francia. Courmayeur non è in Francia, ma la Valle d’Aosta è una regione bilingue. Così, puntando alla Francia, mi stabili a Courmayeur. Qui ora mi sento a casa, l’Italia è diventata la mia patria per scelta.
Per vivere ti bastava lavorare al muro?
Più o meno. Considera che non avevo né un auto né una casa. Facevo anche qualche altro lavoro ma i soldi mi servivano per il cibo e l’attrezzatura di arrampicata, non bastavano per affittare un appartamento. Per un po’ sono stato ospitato da Alessandro Quagliolo, un amico del Presidente delle Guide e poi da lui stesso. I primi tre anni in Italia sono stati molto difficili; la Polonia non faceva ancora parte dell’Unione Europea, dovevo chiedere i permessi di soggiorno, di lavoro... Per l’insieme delle difficoltà della vita quotidiana, di ambientarsi in un posto nuovo senza l’aiuto di un conto in banca, mi sono allontanato dalle gare per 3 anni.
All’inizio come te la cavavi con la lingua?
Come ho già detto la Valle d’Aosta è una regione bilingue, quindi puoi comunicare in francese senza problemi. Poi, un anno e mezzo dopo essermi trasferito, da un giorno a l’altro decisi di cominciare a parlare in italiano che nel frattempo avevo assimilato. E’ stato uno shock per i miei amici, all’inizio loro continuavano a rispondermi in francese!
Poi hai lavorato anche in un cinema.
Si, nel 2005 ho iniziato a lavorare al cinema di Courmayeur come proiezionista. Questo impiego mi ha permesso di affittare un monolocale e di comprare una macchina. Guardare tanti film mi ha aiutato anche a imparare bene la lingua. Mi piaceva questo lavoro!
Ma attualmente non lavori più lì.
No, nel 2013 sono diventato atleta professionista del Centro Sportivo Esercito. E’ stato un mio sogno. Nel 2010, durante i Giochi Mondiali Militari, che videro la gara di arrampicata svolgersi proprio a Courmayeur, l’Esercito Italiano, non avendo arrampicatori sportivi tra i propri atleti, espresse un interessamento nei miei confronti. Per i tre anni seguenti ci fu tutto un iter burocratico per ricevere la cittadinanza italiana, ma infine nel 2013 venni arruolato come atleta. Da allora ho rappresentato l’Italia e non più la Polonia nelle gare di Coppa del Mondo.
Come procedeva la tua carriera?
Molto bene, ho vinto un campionato internazionale militare, facevo parte della Squadra Nazionale Italiana. Poi, nel 2015, a pochi giorni dall’inizio della stagione agonistica, durante un allenamento ho subito un grave infortunio ad un dito, che mi ha impedito di fare le gare per tutto l’anno. Non potendo arrampicare ad alto livello, decisi di sfruttare questo tempo per "curare" un altra mia grande passione: la montagna.
Cioè cosa hai fatto esattamente?
Da sempre mi affascinavano i record di velocità sulle cime alpine. Credo siano state le riprese di André Gobet durante la sua famosa corsa record sul Monte Bianco nel 1990 a farmi scattare la molla. Le avevo viste da bambino in qualche reportage in televisione e quelle immagini si sono impresse fortemente nella mia mente. In quell’anno "approfittando" del mio infortunio decisi di buttarmi sulle cime e vedere cosa ero capace di fare. La montagna perfetta per questo tipo di prove è il Cervino. Un giorno d’estate sono salito in modalità turista (12 ore) per vedere il percorso e una settimana dopo, appena 3 settimane dall'infortunio, senza alcun allenamento specifico realizzai il terzo tempo conosciuto, 5h01’, considerando le salite effettuate in autosufficienza. D’improviso ero molto felice. Fino allora pensavo che non ci fosse niente che potesse superare la mia grande passione per l’arrampicata, invece la corsa in montagna mi ha dato un senso di libertà pazzesca, mai provato prima. Convinto che i margini di miglioramento sono enormi da allora sto cercando di occuparmi sempre di più di questo tipo di attività.
Ma la montagna non dovrebbe essere soprattutto una filosofia di vita?
La montagna secondo me prima di tutto dovrebbe essere la libertà. Libertà di scelte, di viverla come uno crede. Ma libertà responsabile. Non deve diventare tirannia o mancanza di rispetto. Parlo di rispetto sia per la natura sia per le altre persone. Ad esempio l’immondizia lasciata in montagna a me dà molto fastidio. Quando posso approfitto per rendere il nostro terreno di gioco più pulito. Se ho tempo e un po’ di spazio nello zaino, raccolgo la spazzatura e la porto a valle. Così ho fatto ad esempio sull’Aiguille Noire de Peuterey dove ho ripulito la vetta da un intero sacco di spezzoni di corde vecchie, fettucce, scatole vuote, bombole di gas, vetri, fili di ferro, sacchetti di plastica...
Cosa insegui in montagna? Spesso usi la parola sport.
Il mio spirito è quello dell’atleta e l’aspetto sportivo delle mie attività gioca un ruolo importante. Ad esempio ho realizzato il miglior tempo sull’Aiguille Noire de Peuterey, salendo in 3h16’ e scendendo dalla cima in 1h26’. Quando arrampico al limite o mi muovo velocemente in una parete, quando sto andando davvero forte, sono totalmente concentrato sullo sforzo, non mi guardo attorno, non contemplo i paesaggi. Non si può fare diversamente, pensa alla difficoltà e il rischio di salire, ma soprattutto di scendere in velocità e in libera sulle vie che arrivano al quinto grado, come ad esempio dalle Tre Cime di Lavaredo, il tutto con le scarpe da corsa ai piedi e senza nessuna sicura! Non è uno scherzo e la concentrazione è fondamentale per la mia vita. Poi dietro c’è una preparazione meticolosa. E’ uno sport a tutti gli effetti. Ma c’è anche qualcos’altro che mi spinge a correre. Recentemente mi sono posto questa domanda: "Se fossi l’ultimo uomo sulla terra e non potessi raccontare a nessuno le mie imprese, continuerei a farle?" Credo che la risposta sia "no", perché è la condivisione che mi spinge a dare tutto. Probabilmente non farei più le exploit al limite, ma di sicuro continuerei ad andare in montagna per vivere questa dimensione, quel senso di libertà.
Parlaci di più delle sensazioni che provi.
Inseguire i miei obbiettivi in montagna è stata un occasione per riscoprire un ambiente al quale sento di appartenere. Molto di più che arrampicando assicurato da una corda; è correndo che mi sento davvero a casa, davvero libero! Muovendomi velocemente in alta quota con il minimo indispensabile: scarpe, pantaloncini, canotta, guanti, qualche gel energetico e un po’ d’acqua, lì, in balia degli eventi atmosferici, solo con me stesso e la montagna, senza maschere e con le mie paure, provo qualcosa che si può definire uno stato mistico dell’essere. Quando corro su una cresta o faccio un bivacco in solitudine su qualche cima, come ad esempio recentemente sulla "mia montagna", l’Aiguille Noire de Peuterey, vedo cose e sperimento emozioni uniche che non si possono nemmeno descrivere.
Di recente hai iniziato a praticare anche altre due discipline: il dry-tooling e l’highballing.
Si è vero. Ma non è stato pre-programmato. Tutto è partito dalle linee da scalare che ho scoperto per caso, che hanno catturato la mia attenzione e il mio cuore al punto da costringermi ad ampliare i miei orizzonti. Una volta viste queste linee volevo scalarle. Questo imperativo interno era molto forte, ha portato una vera e propria rivoluzione, una crescita, non necessariamente facile. Cambiamenti nella mia vita, nella mia mente, la visione delle discipline interessate e anche del rischio coinvolto, tutto è evoluto modificando drasticamente la mia percezione delle cose.
Quanto è importante per te l’aspetto estetico nelle tue imprese?
L’estetica gioca il ruolo assolutamente fondamentale nelle mie scelte di obiettivi. Lo capii qualche anno fa e questo fattore sta diventando sempre più dominante. La difficoltà è un valore aggiunto. Ciò che cerco continuamente, in qualsiasi campo, è la linea ultima, il "non plus ultra", non tanto nel senso di difficoltà ma proprio al livello di estetica. La via, una cresta o una montagna, devono catturare il mio senso di bellezza. Poi se si tratta di una cosa impegnativa allora salirla comporta anche un processo di allenamento, di preparazione. Spendendo il tempo e le energie la carica emotiva aumenta ancora di più.
Come hai scoperto l’highballing?
Da anni osservavo un grande masso ai piedi del Monte Bianco, appoggiato sulla morena del Ghiacciaio della Brenva. Nel 2010 sono andato a vederlo da vicino. Solo una volta arrivato alla base ho capito le sue vere dimensioni. Alto 12 metri, enorme, mi sembrava impraticabile come boulder; o per lo meno lo era per me. Mi spaventava la sola idea di scalarlo senza corda! Così senza conoscere il mondo di highballing ho deciso di chiodarlo. Gli spit però in questo posto mi tormentarono. Mi sentivo un codardo che per il proprio egoistico piacere di arrampicare ha barato. Non avendo il coraggio per affrontare questo masso nello stile puro ho usato una scorciatoia per riuscirci lo stesso. Ci ho messo un anno per capirlo. Un anno di riflessioni, di lettura di testi di climber da tutto il mondo, di ascolto e di discussioni sulle idee, sull’etica e sui principi altrui. Alla fine, ho preso una decisione netta: ho tolto tutti gli spit, avendo cura di limitare al minimo i segni rimanenti del mio errore. Da allora è iniziato il processo di adattamento, di imparare a gestire il rischio, le proprie paure. In 8 anni ho scalato senza corda 16 linee su questo masso fino al grado 7C boulder. Altre 3 aspettano ancora la prima libera. Chissa se mai sarò in grado di salirle, ma Highballing è una pratica che ci insegna anche questo: imparare ad essere responsabili delle proprie azioni e accettare i propri limiti.
Invece con il dry-tooling com’è andata?
Anche qui tutto è iniziato per caso, da una linea che ho scoperto qualche anno fa. Si trova in Valle d’Aosta, in una grotta fino ad ora esclusivamente meta di speleologi. Il posto è veramente impressionante; la sala interna è alta una ventina di metri, molto vasta, da sola potrebbe ospitare un piccolo villaggio! Sul soffitto, un giorno del 2015 ho individuato una possibile linea di scalata. I primi spit li piantai col mio padre a maggio del 2016. La roccia è gesso cristallino, quindi non delle migliori e, attrezzando la via, realizzai che era peggiore di quanto immaginavo: polverosa, a tratti marcia. Ho deciso di lasciar perdere, ma pur avendo abbandonato l’idea, la linea non si lasciava dimenticare. Nel novembre 2017 il progetto è tornato a galla sotto un’altra ottica. Magari si potrebbe scalarlo in dry-tooling? Perché no, tentare non nuoce. Un giorno insieme ad un amico, Paolo Bergamaschi, armati delle sue piccozze, siamo andati a provare, a fare qualche passo. L’idea si è rivelata geniale! Ho constatato che era ciò che poteva valorizzare al massimo questa linea; meglio una spettacolare via di dry-tooling piuttosto che una difficilissima, ma esteticamente mediocre scalata a mani nude. Ho ripreso a chiodarla con una motivazione doppia. Dopo 4 giorni di lavoro, appeso sotto il soffitto come un pipistrello, è nato Ade. Su quel tetto lungo 41 metri piantai 32 spit per passare da una parte ad altra di questa gigantesca volta.
Non hai mai fatto il dry-tooling e hai deciso di scalare subito un tetto come questo? Come ti sei preparato per una salita del genere?
Infatti la via mi sembrava assolutamente futuristica e non mi sentivo affatto pronto per affrontarla! Così, come preparazione decisi di iniziare a fare le altre vie di dry già scalate. Sapevo che a Zakopane c’era un bel posto dove fare pratica in una grotta. Poco dopo ci sono andato. Una volta sul posto, molto velocemente ho ripetuto la maggior parte dei tiri, incluso Bafomet D14+, la via più difficile della Polonia! Un inizio memorabile! Credo che la particolare velocità del mio progresso in dry-toooling sia legata al fatto che questo stile di arrampicata mi si addice molto. Evidenzia al massimo le mie doti fisiche e allo stesso tempo nasconde i miei punti deboli. Il dry-tooling estremo si svolge molto spesso su tetti orizzontali, il terreno dove da sempre mi sentivo a mio agio. Poi è una scalata estremamente fisica, sia a livello delle braccia che del corpo. In più richiede una resistenza pazzesca, ma avendo in mano le maniglie delle picche, la forza delle dita, il mio tallone d’Achille, non conta molto. Questo forse potrebbe spiegare come mai appena 3 settimane da quando ho iniziato, scalavo già sui gradi dry che contano a livello mondiale!
Parlaci della tua via di grado D16, di Oświecenie
L’obbiettivo della visita a Zakopane, salire Bafomet, è stato raggiunto più velocemente del previsto. Avevo ancora un mese di tempo prima di tornare in Italia. Sapevo dell’esistenza di un progetto di nome Blair Witch Project, di default ancora più difficile. Dopo alcuni giorni di prove, il 10 gennaio 2018 l’ho liberato proponendo per la prima volta in Polonia il grado D15! Pochi secondi dopo la salita Marcin, il "curatore" della grotta, mi ha fatto la domanda chiave: "E adesso?" In realtà l’idea per qualcosa di mio, qualcosa di estremo ce l’avevo già. Volevo creare la linea "non plus ultra": la più lunga e la più difficile possibile, che avrebbe superato l’intero tetto, dal punto più profondo fino ad uscirne fuori nel bosco. Durante le visite, fino ad allora 13, nella testa mettevo insieme dei puzzle di ciò che oggi conosociamo sotto nome di Oświecenie. Sapevo che le difficoltà sarebbero state molto alte, che potevano addirittura raggiungere il grado 16. Il nuovo progetto oltre ad inglobare totalmente Blair Witch, il D15 appena liberato, è due volte più lungo! Sono 62 metri, 100 prese, 150 movimenti, un vero mostro! Tre giorni dopo ho iniziato i lavori. Per via della mia etica, il mio approccio all’arrampicata e la motivazione che mi spinge ad aprire nuove vie, non scavo le prese. Quando il 23 gennaio tutto era pronto per la salita, la quantità di movimenti da fare mi spaventava. 150 è un numero che non ho mai raggiunto su una via di roccia. Mi sono concentrato sui primi metri e sono partito. 1 ora e 8 minuti più tardi ho raggiunto la neve nel bosco fuori dalla grotta. Sono crollato dalla fatica ma ce l’avevo fatta! Ho scalato dal completamente buio, più profondo punto della grotta, fino alla Luce. Oświecenie (Illuminazione) è diventata una realtà! Come il grado di difficoltà è il secondo D16 proposto al mondo dopo Storm Giant a Fernie in Canada (anche questa via non conta ancora ripetizioni) e il primo salito in stile DTS (senza uso delle yaniro).
Sei tornato poi su Ade?
Si, ovviamente, è l’origine stessa del mio interesse per il dry-tooling! La via parte nel punto più basso della grotta e attraversa interamente la sua volta. Non esiste una catena tradizionale, il tiro finisce in cima di un enorme blocco che giace dentro la sala. Dopo aver percorso tutta la via, arrivi sopra questo masso, fai una estensione delle braccia appese alle picche, appoggi i piedi in cima del blocco, scendi e voilà... la via è fatta! L’avevo liberata a maggio del 2018, proponendo il grado D13/+... Attualmente però esiste già una sua estensione, l’avevo preparata in altri 2 giorni di chiodatura col aiuto di mio padre. Invece di scendere sul masso continui per altri 29 metri fino al punto più profondo della grotta, dove il tetto finisce, dove arrivi di nuovo per terra! Insieme saranno 70 metri di arrampicata, al buio, sotto terra... Ma questo, per ora, è tutt’altra storia.
Parli della collaborazione con tuo padre. Continuate ad andare insieme in montagna?
Anche se mio padre vive in Polonia e io in Italia, cerchiamo di approfittare delle occasioni per fare qualche uscita insieme. Ovviamente il nostro livello è molto differente quindi spesso lui funge da mio assistente aiutandomi a realizzare le mie performances. Ma non solo. Quest’anno ho potuto ricambiare il favore. Il suo sogno più grande, da quando aveva 5 anni, era salire in cima al Monte Bianco. Nel 2018 si celebrava il bicentenario dell’alpinismo polacco: il 4 agosto 1818 Antoni Malczewski insieme a Jean-Michel Balmat fu il primo polacco a salire la vetta del Tetto d’Europa (l’ottava ascensione del Monte Bianco in assoluto). Così io e mio padre ci siamo organizzati e il 4 agosto 2018 siamo saliti in cima passando dalla classica via di Grands Mulets! All’età di 65 anni mio padre ha realizzato il suo sogno!
Pratichi delle discipline sportive molto adrenaliniche dove la performance e l’exploit contano molto. Pensi che i giovani siano più attratti da sport come l’arrampicata sportiva, la corsa in montagna, il bouldering, piuttosto che dall’alpinismo?
Sicuramente. La maggior parte dei giovani sono attratti sopratutto dal divertimento. E’ normale. L’alpinismo e ancora di più l’himalaysmo sono scuole di sofferenza e i giovani non hanno voglia di soffrire. Per questo penso che il bouldering abbia un grande successo: è un’attività che si basa sulla forza massimale, o superi il passaggio o cadi. L’allenamento per fare i blocchi è più divertente e socievole rispetto ad altre attività. Già fare una via di arrampicata sportiva, anche solo su una parete di 20 metri, richiede un allenamento decisamente più "pesante" a livello mentale.
E adesso?
Devo andare a correre! Ho tantissimi obiettivi: dall’arrampicata, passando al dry-tooling, ai record in alta montagna. Voglio portarli a termine, ma per questo devo allenarmi! Rispetto a qualche anno fa il modo di approcciare ai miei sogni è cambiato. Non vivo più nella speranza che basta lavorare sodo e, un giorno, in un futuro indefinito, in qualche modo le mie fantasie si avvereranno come in una favola. Adesso sono concentrato sulla concreta realizzazione di questi progetti. Non li rimando più. Vivo molto di più nel presente, agisco qui e ora.
Vittorino Mason risiede a Castelfranco Veneto dove sopravvive tra l' asfalto e il cemento anelando all' orizzonte dei monti. Alpinista e scrittore, collabora da anni per le principali riviste di settore e ha realizzato anche un film-documentario "La cengia de l' Adriano". La ricerca della natura, di avventura, ma sopratutto di terra, da anni lo spinge tra i monti per cenge, creste e vie normali... Cerca fiori, animali, alberi, pietre, odori, paesaggi, luoghi, storie e memorie da raccontare. La montagna rappresenta per lui la terra perduta, il luogo di elezione ed elevazione per respirare la vita con l' anima e i luoghi selvaggi la scusa per perdersi e poi ritrovarsi.
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