Federico Sordini, fare impresa in montagna
Leggendo il ricchissimo curriculum vitae di Federico Sordini, si comprende il perché delle scelte lavorative e di vita che l’hanno portato a diventare oggi titolare di un’azienda che produce un certo tipo di prodotti in lana merinos per l’outdoor.
Sono architetto, ho lavorato per anni per le ONG all’estero, e poi sono finito a fare il consulente dell’Unione Europea per le infrastrutture di urgenza e post urgenza. Ma ero insoddisfatto, perché mi ero illuso che salendo di grado avrei avuto più libertà d’azione… e invece no. Più sali di grado più hai le mani legate. E io non condividevo le politiche liberiste della UE. Mi ero già allontanato per gli stessi motivi dalla Banca mondiale, per cui gestivo un grosso progetto in Congo. Questo mi ha molto deluso: ho capito, vivendolo in prima persona, che lo sviluppo dei paesi occidentali è quasi sempre a discapito dei paesi più poveri e allora ho deciso di dedicarmi alla tutela dell’ambiente cercando ci apportare il mio contributo alla massima riduzione del nostro impatto.
Sono tornato in Italia e per un periodo ho lavorato per il WWF, facevo il direttore di progetto per le ristrutturazione delle Oasi in tutta Italia, vivevo a Perugia e lavoravo a Roma, e, nei weekend, io e mia moglie andavamo sul Gran Sasso o in Dolomiti ad arrampicare. Dopo un po’, l’illuminazione: perché non andare in montagna, a vivere e fare impresa a modo mio?
Quanto è difficile fare impresa in montagna cercando di rispettare l’ambiente?
Vivere e fare impresa in montagna è stata per me una scelta consapevole, quindi conoscevo le difficoltà. Dove mi sono trasferito io, nell’Alto Agordino, tendenzialmente l’economia si basa su due attività: lo sci e più in generale il turismo, e la Luxottica. Se si riesce a entrare in uno di questi mondi le possibilità sono conosciute, ma per il resto non c’è nient’altro.
Eppure l’idea che mi sono fatto io è che le potenzialità ci siano, e che siano moltissime, soprattutto quelle offerte dalle nuove tecnologie. La spinta con la quale mi sono trasferito qui è quella di chi vede nell’uscire dal sentiero tracciato una esplosione di possibilità.
E quindi hai pensato alla lana merinos…
Non subito. Amo l’outdoor e volevo fare qualcosa legato all’allevamento e all’agricoltura in quota. Inizialmente mi sono dedicato alla permacultura, ovvero la coltivazione di terreni progettati con coscienza e nel pieno rispetto degli ecosistemi naturali, grazie all’interazione delle specie colturali che interagiscono positivamente fra loro.
La mia prima attività è stata quella di coltivare lo zafferano di montagna. Sono andato in Svizzera a Mund, nel Vallese per studiare la tecnica di coltivazione consociata di grano saraceno e zafferano. Abbiamo creato l’Associazione Permaculturale Val Pettorina. Siamo riusciti a coltivare lo zafferano più alto d’Italia (a 1500 metri)! Poi però ho dovuto mollare, perché non ho trovato una superficie fondiaria sufficientemente ampia da iniziare un progetto economicamente sostenibile. Il problema della riunificazione fondiaria è molto difficile da risolvere in montagna: i terreni di eredità in eredità si sono spezzettati, e adesso chi vuole unire più pezzi di terra si trova nell’impossibilità economica di sostenere il costo dei molteplici passaggi di proprietà e nella difficoltà logistica di ritrovare proprietari residenti all’estero o morti senza lasciare eredi. Queste enormi difficoltà scoraggiano chiunque voglia imprendere in ambito agricolo in montagna. Ci vorrebbe una politica che favorisca la riunificazione fondiaria ma nel Bellunese non c’è questo interesse al momento. Per ora le amministrazioni preferiscono dare i terreni in gestioni a grossi allevatori di ovini, solitamente trentini, che beneficiando di ingenti aiuti comunitari, elargiscono proventi.
Contemporaneamente allo zafferano avevamo iniziato a fare trekking con gli asini. Una bellissima esperienza. Abbiamo anche portato i sacconi di Federica Mingolla con tutta l’attrezzatura per la sua salita della Via attraverso il Pesce e per le riprese fotografiche. Anche in quel caso la difficoltà maggiore da sormontare sono stati i paletti dell’amministrazione comunale. Nessuno ci ha autorizzato alla costruzione di una piccola rimessa invernale nonostante il nulla osta della Regione e quindi eravamo costretti a portarli altrove in inverno per proteggerli dal freddo della Val Pettorina (da noi per tre mesi non batte il sole e la valle si trasforma nel regno di Re Ombro. I serrai di Sottoguda non a caso sono a poche centinaia di metri da casa nostra).
L’idea dell’abbigliamento, che doveva essere una pedina in un quadro più ampio, ha funzionato meglio del resto poiché è un’attività che ho potuto gestire in maniera più autonoma. Le nuove tecnologia e la vendita online mi hanno permesso di farmi conoscere all’interno di una comunità di persone che da un lato amano le attività outdoor in montagna e dall’altro hanno una spiccata sensibilità ambientale.
Quando e come hai cominciato?
Sono partito 6-7 anni fa. Non si trovavano calze fatte bene in lana merinos. Adesso sembra la cosa più scontata del mondo prlare di merinos ma al tempo non era così diffuso. Volevo fare un vero calzettone con un’ottima lana, tutto qui. E poi mi piacevano i berretti fatti all’uncinetto. Tutto ciò, legato a una particolare idea di lana: certificata contro il maltrattamento, no mulesing, organica, proveniente cioè da allevamenti biologici che non utilizzano prodotti chimici. Insomma l’attenzione alla riduzione degli impatti in tutta la filiera di produzione è qualcosa a cui non rinuncerò mai.
La lana la prendo solo dove sono sicuro che sia come dico io (in Nuova Zelanda, in Austria e sul Gran Sasso), e faccio molta ricerca perché voglio capire se le certificazioni sono vere o meno. Ormai tutte le pecore sono "felici", tutte le produzioni che utilizzavano manodopera minorile asiatica sono diventate etiche e sostenibile, è tutto "green", è tutto "eco friendly" …nel giro di un paio di anni ci siamo ritrovati in un mondo perfetto! Beh … io non ci credo! Credo che l’unico modo di sapere davvero quel che si fa, sia costruire rapporti personali di fiducia e trasparenza.
In cosa consiste il progetto della manifattura diffusa?
Volevo legarmi con il territorio qui in valle. Così la produzione artigianale che inizialmente realizzavo a mano io e mia moglie (io all’uncinetto e mia moglie alla maglia), si è avvalsa dell’aiuto della vicina, e poi di una sua amica, e andando avanti così abbiamo coivolto più persone, contribuendo ad alleviare le difficoltà di un periodo così difficile come quello di quest’ultimo anno. Noi forniamo la lana e le istruzioni, consegno delle sagome di legno per cercare di standardizzare taglie e dimensioni, e poi ogni persona che realizza i cappelli all’uncinetto ci mette del suo.
Mi piacerebbe scorporare questa attività e farla vivere di vita propria, vorrei diventasse una cooperativa, vorrei fare corsi per tinteggiare naturalmente la lana, come faccio io con i mirtilli, lo zafferano, il vino, etc., a seconda della stagione. Insomma vorrei che la manifattura diffusa potesse essere l’occasione di mantenere viva la manualità e la tradizione.
Che futuro speri per la montagna?
La questione è complessa. La gente ha voglia di uscire dalle città, desidera incontrare la natura, ma quando esce va tutta nello stesso posto. Un po’ per ignoranza, un po’ per paura. Il primo nemico è il turismo di massa. E’ chiaro che per la gente del posto che è passata da una vita di stenti alla ricchezza grazie ad un albergo costruito con le proprie mani o ad una pista da sci su di un terreno scosceso su cui non si poteva coltivare nulla se non fieno, il turismo di massa rappresenta l’unica forma di sviluppo possibile. Purtroppo i tempi cambiano e ci stiamo rendendo conto, con troppo ritardo, degli errori commessi. Io non propongo di tornare indietro, piuttosto di guardare avanti. La tecnologia offre tante nuove opportunità.
E’ innegabile che ci sia stata una grossa perdita dei valori tradizionali, manca un’attenzione al territorio, alla gente del posto, alle tradizioni. In nome del "apreski" si è fatta "tabula rasa" di un sapere ancestrale caratterizzato da una conoscenza profonda del territorio e delle creature che lo abitano. Ad oggi non esiste una visione politica ed economica diversa, non c’è nessun vero progetto per la montagna che non vada nella direzione del turismo di massa. La chiave per uscire da questo "empasse" è ancora una volta la stessa e non ci stancheremo mai di ripeterlo: bisogna uscire dal sentiero tracciato e intraprendere nuovi itinerari che permettano di riappropriarci in modo rispettoso e sostenibile della Montagna.
di Eleonora Bujatti
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