Coffee Break #24 - Allora le Alpi non esistono

Daniela Zangrando dialoga con Enrico Camanni sul tema della montagna, su che idea abbiamo del futuro della montagna ma soprattutto quanto siamo disposti ad amarla e a non banalizzarla.

Qualche giorno fa un lettore della rubrica mi ha consigliato di provare a spostarmi per un attimo da temi riguardanti arrampicata e scalatori. Per guardare come si vive la e in montagna. Mi è sembrato qualcosa di buono. E di importante. Ho deciso di parlarne con Enrico Camanni.

Daniela Zangrando: Cosa vuol dire, oggi, vivere in montagna?

Enrico Camanni: Da cittadino vedo due tendenze: c’è chi sceglie di essere montanaro, ben conoscendo i vantaggi e i limiti della città, e chi lo subisce perché ci è nato o non ha il coraggio di andarsene. Credo e spero che in futuro tutti i montanari possano scegliere, perché non è una vita facile ma può essere una vita straordinaria. Se si fa con il dovuto rispetto dei limiti (ambientali, consumistici, sociali) può anche diventare una scelta contro culturale, di cui abbiamo un gran bisogno in questi tempi così conformisti.

D.Z.: Ho sempre creduto fermamente che si potesse vivere ovunque. Che fosse possibile fare innovazione e portare avanti una dimensione contemporanea sia abitando in qualche metropoli di pianura che in un bivacco sul Passo Sella. È un pensiero verso cui mi sono educata. Ho ripetuto a me stessa che sarebbero bastate una connessione internet – utile sicuramente a sopperire alcuni reali problemi del vivere in un ambiente duro come quello alpino – e una gran tenacia per lanciare dal proprio baluardo montano i progetti creativi e culturali più eversivi. Le sperimentazioni più folli e visionarie.
Forse, in fondo, ci credo ancora. Nella mia prospettiva si è addentrata però anche una sensazione di disillusione.
Sembra che la lontananza dai centri – e soprattutto l’idea che ne consegue di un vivere distanti da nevralgie politiche, culturali, gestionali, decisionali, sociali, etc. – invece che diventare un pungolo, uno stimolo, anche un “privilegio”, origini nella maggior parte dei casi solo dei circoli viziosi.
Da un lato c’è lo stagnare della lamentela: non si può fare, non vale la pena. In montagna è troppo difficile. Il risultato è il proliferare di una progettualità livellata e mediocre. Che si tratti di idee volte alla valorizzazione dell’agricoltura e della pastorizia o alla poesia, pare non ci sia nessuna necessità di insistere sulla qualità. D’altronde, in queste condizioni, è già tanto riuscire a far qualcosa.
Come secondo fattore, c’è il continuo rifugiarsi nella culla delle tradizioni di un bel tempo andato che non ha particolari connotazioni a livello storico né temporale. L’unica caratteristica che gli viene riconosciuta, è quella di essere custode dell’epoca dei nonni, del legno faccia a vista, delle tradizioni congelate di cui non si ha nessun ricordo reale se non quello fermo alla riproposizione kitsch e caricaturale dell’altro ieri.
Spesso i due atteggiamenti riescono persino a coniugarsi. Ricordo la conversazione tenuta qualche anno fa con un Sindaco di un piccolo comune del Piemonte. Voleva organizzare una mostra d’arte che in qualche modo coinvolgesse le accademie e i giovani artisti locali. L’importante non era però che si trattasse di buona arte. Tutto sommato bastava fosse in grado di fare da specchietto per le allodole ai turisti che disertavano il paese preferendo il capoluogo di provincia vicino. Una volta attirati i soggetti, sarebbe stato possibile vestire il paese a festa, con balconi fioriti e delegazioni in costumi d’epoca, facendo riscoprire antiche arti, mestieri e tradizioni. Sicuramente l’anno successivo i turisti sarebbero tornati, creando a poco a poco un volano culturale ed economico d’eccezione.
Avrei molti altri esempi e mi rendo perfettamente conto di aver semplificato la questione. Da dove partire a ragionare? Da cosa?


E.C.: Conosco benissimo questi problemi e non sono affatto convinto che si possano risolvere. Salvo casi e situazioni speciali, il lamento e la nostalgia del bel tempo andato sono esattamente i paradigmi della montagna italiana contemporanea. Paradossalmente i più tradizionalisti sono i montanari, che spesso recitano il tempo andato per i cittadini romantici, dunque è difficile uscire dal circolo vizioso. Secondo me se ne esce solo con politiche coraggiose che portino in montagna giovani motivati, rispettosi, coraggiosi e antiretorici, aperti all’innovazione. Nelle Alpi occidentali e centrali siamo molto lontani da questa prospettiva, certo la musica cambia dove si parla tedesco.

D.Z.: Ho letto il tuo ultimo libro, Alpi Ribelli*. Credo che la sua forbice temporale arrivi fino alla modernità della montagna, lasciando però in parte irrisolto un pensiero sul contemporaneo e sul futuro. Andrea Marcolongo** racconta la parola greca μέλλω descrivendola come «la semplice idea di futuro, traducibile con un semplice ‘sto per’. E basta. Sto per al presente, punto.»
Quale futuro per la montagna?


E.C.: Nel 2002 scrivevo che la terza via delle Alpi è molto lontana dalla museificazione e dalla periferia urbana. Resto dell’idea, ma aggiungo che la montagna di domani, o anche di oggi, ha solo due possibilità: agricoltura di qualità elevata e turismo dolce, responsabile, sostenibile. Le due cose fuse insieme possono creare un ambiente unico, costruire coltura e cultura, salvare il salvabile. Tutto il resto mi sembra destinato al fallimento.

D.Z.: Hai affrontato un tema che mi è molto caro. Quello della resistenza. Quella di Alex Langer, di Emilio Comici e Tita Piaz. Quella di Dolcino e Margherita. Di Giacomo Giovanni detto Meist. Del lupo Ligabue. Sono ritratti di personaggi diversi tra di loro. Di situazioni, mondi, epoche, conquiste, sviluppi che all’apparenza poco hanno a che fare uno con l’altro. Li raccorda il tuo sguardo. Alla ricerca di una pulizia degli intenti. Di un carisma. Di una vocazione. Di un lampo di ardimento anche. A chi senti di poter affidare, oggi, la resistenza?

E.C.: Ai giovani, di qualunque tipo. Bisogna rimodulare l’idea di montagna: non più il mondo del passato ma quello del futuro.

D.Z.: Mi piace molto la capacità che hai di narrare. Di rendere narrativi i fatti, la geografia, i percorsi. Raccontami una storia di montagna che io non conosca già. Che possa farmi guardare oltre.

E.C.: La storia mia e di tutti gli innamorati: le montagne sono ripide, richiedono fatica, bisogna vederci qualcosa di speciale per amarle. Se riusciamo a vederci un senso è giusto viverci, salirle, faticare, spendersi; altrimenti lasciamole alla natura, gestendo solo l’indispensabile. Finisco con le ultime parole del mio libro: «Se non ci parlano di cose alte, se non ci esortano una volta ancora ad alzare gli occhi […] per guardare oltre, allora le Alpi non esistono.»***
La banalizzazione delle Alpi è la loro rovina.

di Daniela Zangrando


Enrico Camanni, alpinista e giornalista torinese.

* Enrico Camanni, Alpi Ribelli. Storie di montagna, resistenza e utopia, Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari 2016.

**Si fa riferimento ad Andrea Marcolongo, La lingua geniale. 9 ragioni per amare il greco, Gius. Laterza & Figli Spa, Bari-Roma 2016, p. 24.

*** Enrico Camanni, op. cit., p. 226.


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