Storie di montagna e alpinismo a Courmayeur
Ad agosto 2011 le “Storie di montagne” ritornano al Jardin de l'Ange di Courmayuer con 4 serate per 4 grandi storie di alpinismo e di vita raccontate da: Nives Meroi e Romano Benet (6 agosto); Steve House (13 agosto); Simone Moro e Denis Urubko (20 agosto); Christoph Hainz (23 agosto). Conduce le serate Vinicio Stefanello editor di PlanetMountain.com
1 / 4
Sabato 6 agosto 2011, a Courmayeur, la prima serata delle Storie di Montagna avrà per protagonisti Nives Meroi e Romano Benet
Planetmountain.com
Anche quest'anno al Jardin de l'Ange di Courmayeur saranno protagonisti grandi racconti di alpinismo e di vita. “Storie di Montagna” è un evento a cura di Grivel Mont Blanc e condotto da Vinicio Stefanello, editor del portale Planet Mountain; Quattro esperienze per altrettante serate che hanno come file-rouge la passione per la montagna e l'alpinismo, ma anche l'estrema umanità dei loro protagonisti, tutti alpinisti di assoluta grandezza internazionale. Così Nives Meroi e Romano Benet, con "Le montagne che non ho scalato", racconteranno il loro straordinario viaggio, unico nel suo genere, fatto sempre insieme sulle più alte vette del mondo. Steve House presenterà “Summits to valleys” e il suo incredibile percorso di alpinista e uomo, alla ricerca dello stile perfetto. Simone Moro e Denis Urubko con "Frozen climbs" parleranno delle loro “impossibili” avventure sulle più alte montagne del mondo nella stagione più fredda e difficile, l'inverno. Mentre, Christoph Hainz ripercorrerà la sua lunga esperienza di alpinista in “Magic Mushroom”.
Sabato 6 agosto la prima serata delle “Storie di montagna 2011” avrà per protagonisti Nives Meroi e Romano Benet. La coppia che più di ogni altra ha lasciato il segno nell'alpinismo himalayano e che ha fatto, dell'esplorazione e del viaggio sulle pareti delle più alte montagne, un motivo di vita e di crescita comune. Nives è bergamasca, di Bonate Sotto. Romano è di Tarvisio. Lei è del 1961, lui del 1962. Hanno la stessa passione per la montagna e per l'alpinismo, e il loro incontro segna l'inizio di una storia che va ben aldilà del legame di una normale cordata. Sposati dal 1989, hanno scelto di vivere a Fusine, un piccolo villaggio nel cuore delle loro selvagge e amatissime Alpi Giulie. Un luogo e delle montagne “fuori dal tempo” per una scelta di vita “d'altri tempi” che sembra la metafora perfetta del loro alpinismo semplice e di grande sostanza, sempre lontano dalle folle come dalle mode. Non a caso per il loro inizio himalayano scelsero di esplorare la difficilissima e semi sconosciuta parete Nord del K2. Era il 1994, e Nives e Romano arrivarono altissimi, a 8450m, a poco meno di 200 metri dalla cima. Un'impresa senza vetta che è anche la chiave per comprendere la loro straordinaria esperienza sulle montagne più alte. Il loro è un viaggio sempre all'insegna dello spirito più puro dell'alpinismo d'avventura e del “by fair means”: senza uso di ossigeno supplementare, portatori d'alta quota e preparazione dei campi. Affrontando la montagna da soli, o in compagnia di un ristrettissimo numero di amici, tra i quali un posto speciale spetta a Luca Vuerich. Nel 1998, arrivò così il Nanga Parbat (8125 m), il loro primo Ottomila. Nel 1999 è la volta della cima dello Shisha Pangma (8046 m) e, solo 10 giorni dopo, quella del Cho Oyu (8202 m). Un'accoppiata velocissima che dà la cifra del loro valore e che fa di Nives Meroi, non solo l'italiana con più Ottomila, ma anche tra le più forti alpiniste in assoluto. Questo però è solo l'inizio. Nel 2003 arriva un trittico d'eccezione con la salita in successione di Gasherbrum I (8068 m), Gasherbrum II (8035 m) e Broad Peak (8047 m). Il tutto in 20 giorni, un tempo da record. Prima di loro solo il mitico Erhard Loretan aveva fatto meglio compiendo lo stesso tour in 17 giorni, e mai nessuna donna aveva fatto tanto. Ma il viaggio continua: con il Lhotse (8516 m) nel 2004. Seguito, nel 2006, dapprima dal Dhaulagiri (8167m) e poi da una salita da incorniciare: quella del K2. Sulla seconda vetta del mondo, la più difficile, Nives e Romano sono soli. La grande montagna è deserta: in vetta vivono la commovente sintesi del loro viaggio... che continua. Così, nel 2007, arriva anche la montagna più alta, l'Everest (8850 m). E, nel 2008, il Manaslu (8163 m). Intanto, con 11 Ottomila saliti, Nives “la tigre” - come l'ha chiamata Erri De Luca nel libro che le ha dedicato - è in prima fila per essere la prima donna a salire tutti i 14 Ottomila. Una “corsa” che lei però ha sempre rifiutato e continua a rifiutare, con le parole e con i fatti. Quello della “competizione” non è né il suo alpinismo né quello di Romano. Loro sono una coppia, una cordata vera. Romano è la bussola e la forza. Nives l'altro sguardo e l'altra via. Insieme trovano quell'equilibrio che motiva e completa il viaggio. Così, nel 2009, sul Kangchenjunga, quando il suo compagno appare stranamente affaticato e non è in grado di continuare la salita, Nives non ha esitazioni. Lui vorrebbe che lei proseguisse: la vetta è vicina, alla sua portata. D'altra parte sugli Ottomila situazioni del genere sono all'ordine del giorno. Ma Nives non ci sta, e insiste per ritornare con il compagno al Campo base. Una scelta che poi si rivelerà “salva vita”. Per Romano, ma anche per Nives, è l'inizio di una nuova e difficile salita, questa volta sulla montagna della vita. Una prova che, in questi ultimissimi anni, hanno affrontato e superato insieme come hanno sempre fatto con il loro alpinismo. Uniti, come sono sempre stati, in montagna come nella vita.
Sabato 13 agosto sul palco del Jardin de l'Ange salirà Steve House, l'alpinista che in questi ultimi anni ha ispirato e motivato la “nouvelle vague” dell'alpinismo più puro. Quello che si declina con lo “stile alpino”, sinonimo del salire leggeri e con mezzi ridottissimi, affrontando la montagna dalla base alla cima in un unico viaggio, senza soluzione di continuità. Nato nel 1970 in Oregon, laureato in scienze dell'ecologia, Steve House diventa guida alpina nel 1999. La grande notorietà arriva con la sua splendida solitaria del K7, nel 2004. Poi, ulteriormente ingigantita dall'incredibile avventura della prima salita del pilastro centrale dell'immensa parete Rupal del Nanga Parbat, portata a termine nel 2005 con Vincent Anderson. Una salita da Piolet d'Or che l'ha fatto entrare di diritto nel gotha del grande alpinismo di tutti i tempi. Ma poco o nulla si capirebbe del suo andare per montagne se non si partisse dall'origine, dalla sua “formazione alpinistica” sulle grandi e freddissime montagne dell'Alaska e delle Canadian Rockies. Infatti, è in Alaska sul McKinley o Denali che, nel 1995, a 25 anni, House apre una delle sue vie più notevoli. Ed è ancora sulla più grande e temuta montagna del Nord America che si ripete con altri due nuovi itinerari, nel 1996 e nel 1997. Ma non è facile elencare tutte le sue salite di rilievo prima della sua esplosione internazionale. Tra queste un posto particolare merita la difficile nuova via sul Monte Bradley, aperta in tre giorni, nel 1998, con il mitico Mark Twight e Jonny Blitz. Mentre nel 2000, sempre con Twight e Scott Backes, brillano le 60 ore della velocissima salita della diretta Slovacca al Denali. E, sempre a proposito di velocità, due anni dopo spicca la corsa, effettuata insieme a Rolando Garibotti, lungo la “Cresta infinita” del Mount Foraker: 20 ore per la salita e 5 per la discesa al posto dei 7 giorni che normalmente impegnano gli alpinisti. Poi, andrebbero almeno citate le sue 27 ore dal campo base alla cima del Cho Oyu e ritorno, un test di resistenza alle grandissime quote di tutto rispetto. Ecco, è questo vero e proprio percorso di formazione e crescita, che poi ha reso possibile tutto il resto. A partire da quella salita con cui House stupì il mondo dell'alpinismo: l'apertura solitaria di una nuova via sulla parete Sud Ovest del K7. Un'impresa, come s'è visto per nulla improvvisata, ma che lasciò tutti di stucco. Non solo per l'ardimento davvero eccezionale con cui era stata concepita, ma anche per lo stile purissimo con cui era stata compiuta. Fu un'autentica illuminazione per gli alpinisti. Sul K7, bellissima montagna pachistana della Charakusa Valley, House partì e ripartì per tre volte prima di afferrare il suo sogno in vetta. Una prova semplicemente impensabile, viste la difficoltà e i rischi che comportava. “Psicologicamente è stato difficile, certo...” ha spiegato lo stesso House a planetmountain.com “Ma ogni volta sono arrivato più vicino alla cima, perché ogni volta ho imparato qualcosa di più. Dovevo essere al mio meglio, e ci sono volute 3 volte per esserlo”. Forse sta tutto qui il fascino del K7 di House, in questo vero e proprio viaggio di conoscenza. Un percorso che nel 2005 gli ha fruttato “solo”, e non senza polemiche, il Piolet d'Or del pubblico per la migliore realizzazione dell'anno. Del resto la sua storia, come punto di riferimento per gli alpinisti di tutto il mondo, era appena all'inizio. Così l'anno dopo, nel 2005, House è ancora lì, in Himalaya, ad indicare la strada di un alpinismo che vuole mettersi alla prova per approfondire la conoscenza del sé. Questa volta la meta del viaggio è l'immensa parete Rupal del Nanga Parbat, e House l'affronta con Vicent Anderson, l'amico di sempre. I due partono e subito s'infilano dentro al “mostro”, cercando la strada che hanno intuito dal basso, l'unica possibile in mezzo ai pericolosissimi seracchi. La loro è una vera e propria scommessa che, dopo 7 incredibili giorni, termina in cima a quella che è la salita dell'anno. La terza su quella mitica parete, la prima in stile alpino. E' la via da Oscar dell'alpinismo, ovvero il Piolet d'Or che consacra Steve House. Ma, appunto, chi cerca se stesso non ha mai finito il viaggio. E House non si ferma di certo. Continua con altre salite. Con altre avventure che privilegiano prima di tutto la ricerca di un'esperienza personale. Come le nuove vie sul Mount Robson e sul Mount Alberta, nelle Canadian Rockies. E come la pubblicazione di “Oltre la montagna” il libro in cui House racconta la sua storia, ma soprattutto guarda alla sua esperienza complessiva. Quella della vita che va oltre all'alpinismo e la montagna, ma che nell'alpinismo ha cercato e continua a cercare l'essenza del proprio essere. Perché il viaggio dentro se stessi, come quello in montagna, non ha mai veramente fine.
Sabato 20 agosto il terzo appuntamento con le “Storie di Montagna” presenta Simone Moro e Denis Urubko e le loro speciali avventure invernali sulle più alte montagne del mondo. E' la storia delle due eccezionali e storiche prime salite invernali di cui Moro e Urubko sono stati protagonisti: sul Makalu nel 2009 e sul Gasherbrum II nello scorso febbraio 2011. Ma è anche la storia di un'amicizia e di una stima nata molti anni fa. Entrambi hanno un curriculum da capogiro. Simone Moro, bergamasco Doc, classe 1967, Guida alpina, è uno degli alpinisti più conosciuti a livello internazionale. Tra le altre imprese vanta tre prime invernali su altrettanti Ottomila che rappresentano un record assoluto, condiviso solo dal grande alpinista polacco Krzysztof Wielicki. Denis Urubko, kazako, nato nel 1973 nel Nord del Caucaso, è uno degli himalaysti più forti di sempre e, oltre alla salita di tutti i 14 Ottomila, vanta 3 vie nuove su altrettanti colossi himalayani. Insieme formano una cordata fortissima, perfetta e affiatata in cui il segreto è la fiducia totale e incondizionata che ciascuno ripone sull'altro. Tutto ciò è il frutto di una conoscenza reciproca e di un'esperienza sul campo che ha pochi eguali. Tanto che è difficile, se non impossibile, riportare tutte le salite in cui ciascuno di loro è stato protagonista sulle montagne del mondo. Basti dire che con i suoi 44 anni Simone Moro ha all'attivo più di 40 spedizione extraeuropee. D'altra parte aveva solo 13 anni quando ha iniziato ad arrampicare. A vent'anni sale la sua prima via di grado 8a, e fino al 1989 sono oltre 30 le sue vie di 8b+. Un risultato notevole all'epoca, che gli vale anche l'incarico di allenatore della nazionale di arrampicata sportiva dal '92 al '96. Intanto, ottiene la laurea con il massimo punteggio in Scienze motorie. La svolta avviene nel 1992, anno della sua prima spedizione sull'Everest. Non raggiunge la cima, anzi soffre per la quota. Ma da allora la sua strada è segnata: l'Himalaya diventerà la sua grande meta e il suo mondo. Nel '96, con Adriano Greco, arriva la vetta dello Shisha Pangma, in 27 ore tra andata e ritorno. Ma, cosa ancora più importante, è lì che incontra l'alpinista russo Anatolij Burkreev: come lui stesso lo definisce questo è l'incontro della sua vita. Burkreev è uno dei più forti himalaysti in assoluto, diventato suo malgrado famoso per la tragedia sull'Everest del 1996, descritta nel bestseller “Aria sottile” da Jon Krakauer. Con Burkreev, nel 1997, Moro tenta subito un'impresa ritenuta ancora adesso impossibile: la traversata Lhotse - Everest. Poi la tragedia: tentano l'invernale all'Annapurna, ma nel tentativo di salire l'inviolata parete Est dell'Annapurna Fang vengono travolti da un'enorme valanga. Di Anatolij Burkreev non resterà più traccia. Mentre Simone Moro si salva per miracolo. E' un trauma, oltre che fisico, soprattutto psicologico, che Simone cercherà di superare anche scrivendo il suo “Comete sull'Annapurna”. E poi andando quasi in pellegrinaggio a scalare nel Pamir, sulle montagne del compagno scomparso. E qui, quasi per destino, c'è l'incontro con Denis Urubko alpinista del gruppo sportivo dell’esercito kazako. Con Urubko l'intesa è da subito perfetta. Salgono insieme il Pik Lenin. Poi, nel 2000, ritentano insieme l'impossibile traversata Lhotse – Everest. Per l'alpinista kazako in quell'occasione arriva “solo” la vetta dell'Everest, ma anche la dimostrazione che è nato per l'altissima quota. E' l'inizio di una escalation inarrestabile che lo porterà sempre più in alto, fino a salire tutti i 14 Ottomila. Il suo è un percorso eccezionale, fatto in modo impeccabile. Sempre senza ossigeno e con spedizioni ultra leggere. Ma non basta, perché Urubko nei suoi 14 Ottomila centra tre vie nuove: nel 2005 sul Broad Peak con Serguey Samoilov; nel 2006 sul Manaslu sempre con Serguey Samoilov; infine nel 2009, insieme a Borish Dedeshko, sul Cho Oyu la vetta con la quale termina il suo speciale tour delle montagne più alte della terra. Per queste imprese ottiene due nominations al Piolet d'Or, riconoscimento che gli viene assegnato per la nuova via sul Cho Oyu. Ma non è ancora finita, perché mancano ancora due salite che hanno fatto la storia: le invernali con Simone Moro. Sì, perché dopo la spedizione all'Everest del 2000 i due non si sono mai persi di vista, anzi i loro contatti sono frequentissimi. Dal canto suo l'alpinista bergamasco non è stato certo fermo. Irrefrenabile nella sua passione per l'Himalaya, Moro non ha mai smesso di puntare sempre più in alto seguendo una strada che lo porta ad esplorare orizzonti sempre diversi e speciali. Sale 9 Ottomila, tra i quali un posto speciale merita la prima traversata da sud a nord dell'Everest. In Pakistan, nel 2005, apre una via nuova sul Batokshi Peak (6050m). Mentre, nel 2008, insieme ad Hervè Barmasse, dopo una “corsa” di 43 ore centra la prima salita del Beka Brakai Chhok (6940m). Mentre è del 2004 la prima invernale dello Shisha Pangma, l'impresa che lo consacra alla storia dell'himalaysmo. E' la prima di una serie di grandi prime salite invernali che lo vedrà protagonista proprio con Denis Urubko. Nel 2009 Denis e Simone affrontano d'inverno il Grande nero, il Makalu. E' una prova difficile su uno degli Ottomila più ostici. Nessuno prima di loro c'era riuscito, eppure decidono di partire da soli cercando di essere più veloci possibile e confidando solo nella loro forza ed esperienza. Si rivelerà la tattica vincente per un'altra grande e storica prima. Come, solo due anni dopo, altrettanto storico è il bis che si concedono sul Gasherbrum II. Stessa tecnica, stessa velocità, stesso team rodato con l'aggiunta dello statunitense Cory Richards per un'altra salita che ha stupito tutti: la prima invernale su uno dei 5 Ottomila del Pakistan realizzato dopo soli 22 giorni dal loro arrivo al campo base. Ma soprattutto è una salita che ancora una volta ha confermato la forza della cordata e dell'amicizia e di un alpinismo che si basa sull'uomo e sulla sua capacità di vivere grandi storie e sfide.
Martedì 23 Agosto. L'ultima Storia di montagna di questa serie 2011 sarà raccontata da Christoph Hainz, un maestro dell'arrampicata e dell'alpinismo che cerca la difficoltà e la bellezza su tutti i terreni: dalle grandi pareti alle difficili vie di arrampicata sportiva, dal ghiaccio alle grandi montagne del mondo. Hainz appartiene a quella stirpe d'uomini che sembrano essere nati per la montagna e l'alpinismo. Non a caso viene da una terra, l'Alto Adige, che ha regalato all'alpinismo alcuni tra i nomi più importanti della sua storia. Nato nel 1962 a Selva dei Molini, guida alpina dal 1990, Christoph Hainz ha legato il suo nome ad alcune delle più belle salite degli ultimi vent'anni, nelle Dolomiti ma anche nelle montagne di tutto il mondo. Semplicemente fortissimo, è l'aggettivo che normalmente gli dedicano gli alpinisti e i climber. Mentre il giudizio di “bellissime”, accompagnato sempre da un “molto impegnative”, è il commento che immancabilmente viene riservato alle sue vie. Ma forse è ancora più importante sottolineare la passione, la forza e il coinvolgimento assolutamente eccezionali con cui Christoph Hainz si dedica alla montagna e alla scalata in tutte le sue forme. Una passione e un impegno che non prescinde mai dalla felicità che gli dà lo stare in montagna. Eppure la sua storia con le pareti è cominciata solo a vent'anni. “Forse” spiega Hainz “è perché le montagne erano parte integrante della mia vita di tutti i giorni”. Hainz, infatti, aveva imparato a conoscerne i segreti in quel maso a 1500m in cui era cresciuto. E ne aveva assaporato gli orizzonti e la bellezza nel modo più semplice: vivendole giorno dopo giorno. Poi però, a vent'anni, arriva la scoperta della parete. Un incontro fatale visto che otto anni dopo, nel 1990, Hainz lascia il suo lavoro di meccanico d'auto per la professione di guida alpina. Una scelta di vita per l'alpinismo e la montagna che dà subito i suoi frutti, naturalmente con nuove vie, soprattutto nelle Dolomiti. La primissima, nel 1987, è quella del Pilastro "Walde" sul Mur des Pisciadu nel Gruppo del Sella. Seguita poi da moltissime altre, tutte da 5 stelle. Tra queste meritano un posto speciale “L'apprendista stregone” sulla Cima Scotoni, la “Via in memoria di Friedl Mutschlechner” al Sass dla Crusc, Moulin Rouge” alla Roda di Vael. E poi, sulla Civetta, “Kein Rest von Sehnsucht” alla Punta Tissi, “Rondò Veneziano” alla Torre Venezia e “Donnafugata” alla Torre Trieste. Da sottolineare, come assolutamente imperdibile, anche il suo trittico di nuove vie sulle pareti nord delle Tre Cime di Lavaredo. Le pareti dove Hainz è di casa e dove ha dettato lo standard di difficoltà con le celeberrime e severe "Phantom der Zinne" sulla Cima Grande, "Alpenliebe" sulla Cima Ovest e “Otzi trifft Yeti" sulla Cima Piccola. Come non si può scordare che Hainz, oltre che sulle Dolomiti, ha lasciato il suo segno anche su una delle più belle montagne del mondo: lo Shivling. Dove, nel 1993, con Hans Kammerlander, ha aperto una difficile via diretta sul Pilastro Nord. Ripetendosi poi, nel 1996, con "Südtiroler Profil" la difficile via aperta sulla grandiosa parete dello Ulumertorsuaq in Groenlandia. Vanno ricordate anche le sue velocissime solitarie sulla via Franco/Argentina al Fitz Roy, ma anche la solitaria invernale sulla “Superdirettissima” della Cima Grande di Lavaredo. E, ancora, la salita super veloce della via Heckmair sulla Nord dell'Eiger. Era il 2003 ed Hainz salì quei 1800 metri in 4 ore e mezza. Un tempo che stupì tutti, ma Hainz non sembrò dargli peso più di tanto: “Non volevo fare un record” disse “volevo solo salire l'Eiger...”. Cosa che rifece ancora. Questa volta però inventando, insieme a Roger Schäli, il suo “Magic Mushroom”: la nuova via che sale l'incredibile fungo di roccia della parete nord dell'Eiger... Perché il viaggio e la magia dell'alpinismo per Hainz non finiscono mai.
STORIE DI MONTAGNA - Jardin de l'Ange, Courmayeur, ore 21,00
Sabato 6 agosto - Nives Meroi e Romano Benet
Sabato 13 agosto - Steve House
Sabato 20 agosto - Simone Moro e Denis Urubko
Martedì 23 agosto - Christoph Hainz
Conduce Vinicio Stefanello – editor di PlanetMountain.com
Sabato 6 agosto la prima serata delle “Storie di montagna 2011” avrà per protagonisti Nives Meroi e Romano Benet. La coppia che più di ogni altra ha lasciato il segno nell'alpinismo himalayano e che ha fatto, dell'esplorazione e del viaggio sulle pareti delle più alte montagne, un motivo di vita e di crescita comune. Nives è bergamasca, di Bonate Sotto. Romano è di Tarvisio. Lei è del 1961, lui del 1962. Hanno la stessa passione per la montagna e per l'alpinismo, e il loro incontro segna l'inizio di una storia che va ben aldilà del legame di una normale cordata. Sposati dal 1989, hanno scelto di vivere a Fusine, un piccolo villaggio nel cuore delle loro selvagge e amatissime Alpi Giulie. Un luogo e delle montagne “fuori dal tempo” per una scelta di vita “d'altri tempi” che sembra la metafora perfetta del loro alpinismo semplice e di grande sostanza, sempre lontano dalle folle come dalle mode. Non a caso per il loro inizio himalayano scelsero di esplorare la difficilissima e semi sconosciuta parete Nord del K2. Era il 1994, e Nives e Romano arrivarono altissimi, a 8450m, a poco meno di 200 metri dalla cima. Un'impresa senza vetta che è anche la chiave per comprendere la loro straordinaria esperienza sulle montagne più alte. Il loro è un viaggio sempre all'insegna dello spirito più puro dell'alpinismo d'avventura e del “by fair means”: senza uso di ossigeno supplementare, portatori d'alta quota e preparazione dei campi. Affrontando la montagna da soli, o in compagnia di un ristrettissimo numero di amici, tra i quali un posto speciale spetta a Luca Vuerich. Nel 1998, arrivò così il Nanga Parbat (8125 m), il loro primo Ottomila. Nel 1999 è la volta della cima dello Shisha Pangma (8046 m) e, solo 10 giorni dopo, quella del Cho Oyu (8202 m). Un'accoppiata velocissima che dà la cifra del loro valore e che fa di Nives Meroi, non solo l'italiana con più Ottomila, ma anche tra le più forti alpiniste in assoluto. Questo però è solo l'inizio. Nel 2003 arriva un trittico d'eccezione con la salita in successione di Gasherbrum I (8068 m), Gasherbrum II (8035 m) e Broad Peak (8047 m). Il tutto in 20 giorni, un tempo da record. Prima di loro solo il mitico Erhard Loretan aveva fatto meglio compiendo lo stesso tour in 17 giorni, e mai nessuna donna aveva fatto tanto. Ma il viaggio continua: con il Lhotse (8516 m) nel 2004. Seguito, nel 2006, dapprima dal Dhaulagiri (8167m) e poi da una salita da incorniciare: quella del K2. Sulla seconda vetta del mondo, la più difficile, Nives e Romano sono soli. La grande montagna è deserta: in vetta vivono la commovente sintesi del loro viaggio... che continua. Così, nel 2007, arriva anche la montagna più alta, l'Everest (8850 m). E, nel 2008, il Manaslu (8163 m). Intanto, con 11 Ottomila saliti, Nives “la tigre” - come l'ha chiamata Erri De Luca nel libro che le ha dedicato - è in prima fila per essere la prima donna a salire tutti i 14 Ottomila. Una “corsa” che lei però ha sempre rifiutato e continua a rifiutare, con le parole e con i fatti. Quello della “competizione” non è né il suo alpinismo né quello di Romano. Loro sono una coppia, una cordata vera. Romano è la bussola e la forza. Nives l'altro sguardo e l'altra via. Insieme trovano quell'equilibrio che motiva e completa il viaggio. Così, nel 2009, sul Kangchenjunga, quando il suo compagno appare stranamente affaticato e non è in grado di continuare la salita, Nives non ha esitazioni. Lui vorrebbe che lei proseguisse: la vetta è vicina, alla sua portata. D'altra parte sugli Ottomila situazioni del genere sono all'ordine del giorno. Ma Nives non ci sta, e insiste per ritornare con il compagno al Campo base. Una scelta che poi si rivelerà “salva vita”. Per Romano, ma anche per Nives, è l'inizio di una nuova e difficile salita, questa volta sulla montagna della vita. Una prova che, in questi ultimissimi anni, hanno affrontato e superato insieme come hanno sempre fatto con il loro alpinismo. Uniti, come sono sempre stati, in montagna come nella vita.
Sabato 13 agosto sul palco del Jardin de l'Ange salirà Steve House, l'alpinista che in questi ultimi anni ha ispirato e motivato la “nouvelle vague” dell'alpinismo più puro. Quello che si declina con lo “stile alpino”, sinonimo del salire leggeri e con mezzi ridottissimi, affrontando la montagna dalla base alla cima in un unico viaggio, senza soluzione di continuità. Nato nel 1970 in Oregon, laureato in scienze dell'ecologia, Steve House diventa guida alpina nel 1999. La grande notorietà arriva con la sua splendida solitaria del K7, nel 2004. Poi, ulteriormente ingigantita dall'incredibile avventura della prima salita del pilastro centrale dell'immensa parete Rupal del Nanga Parbat, portata a termine nel 2005 con Vincent Anderson. Una salita da Piolet d'Or che l'ha fatto entrare di diritto nel gotha del grande alpinismo di tutti i tempi. Ma poco o nulla si capirebbe del suo andare per montagne se non si partisse dall'origine, dalla sua “formazione alpinistica” sulle grandi e freddissime montagne dell'Alaska e delle Canadian Rockies. Infatti, è in Alaska sul McKinley o Denali che, nel 1995, a 25 anni, House apre una delle sue vie più notevoli. Ed è ancora sulla più grande e temuta montagna del Nord America che si ripete con altri due nuovi itinerari, nel 1996 e nel 1997. Ma non è facile elencare tutte le sue salite di rilievo prima della sua esplosione internazionale. Tra queste un posto particolare merita la difficile nuova via sul Monte Bradley, aperta in tre giorni, nel 1998, con il mitico Mark Twight e Jonny Blitz. Mentre nel 2000, sempre con Twight e Scott Backes, brillano le 60 ore della velocissima salita della diretta Slovacca al Denali. E, sempre a proposito di velocità, due anni dopo spicca la corsa, effettuata insieme a Rolando Garibotti, lungo la “Cresta infinita” del Mount Foraker: 20 ore per la salita e 5 per la discesa al posto dei 7 giorni che normalmente impegnano gli alpinisti. Poi, andrebbero almeno citate le sue 27 ore dal campo base alla cima del Cho Oyu e ritorno, un test di resistenza alle grandissime quote di tutto rispetto. Ecco, è questo vero e proprio percorso di formazione e crescita, che poi ha reso possibile tutto il resto. A partire da quella salita con cui House stupì il mondo dell'alpinismo: l'apertura solitaria di una nuova via sulla parete Sud Ovest del K7. Un'impresa, come s'è visto per nulla improvvisata, ma che lasciò tutti di stucco. Non solo per l'ardimento davvero eccezionale con cui era stata concepita, ma anche per lo stile purissimo con cui era stata compiuta. Fu un'autentica illuminazione per gli alpinisti. Sul K7, bellissima montagna pachistana della Charakusa Valley, House partì e ripartì per tre volte prima di afferrare il suo sogno in vetta. Una prova semplicemente impensabile, viste la difficoltà e i rischi che comportava. “Psicologicamente è stato difficile, certo...” ha spiegato lo stesso House a planetmountain.com “Ma ogni volta sono arrivato più vicino alla cima, perché ogni volta ho imparato qualcosa di più. Dovevo essere al mio meglio, e ci sono volute 3 volte per esserlo”. Forse sta tutto qui il fascino del K7 di House, in questo vero e proprio viaggio di conoscenza. Un percorso che nel 2005 gli ha fruttato “solo”, e non senza polemiche, il Piolet d'Or del pubblico per la migliore realizzazione dell'anno. Del resto la sua storia, come punto di riferimento per gli alpinisti di tutto il mondo, era appena all'inizio. Così l'anno dopo, nel 2005, House è ancora lì, in Himalaya, ad indicare la strada di un alpinismo che vuole mettersi alla prova per approfondire la conoscenza del sé. Questa volta la meta del viaggio è l'immensa parete Rupal del Nanga Parbat, e House l'affronta con Vicent Anderson, l'amico di sempre. I due partono e subito s'infilano dentro al “mostro”, cercando la strada che hanno intuito dal basso, l'unica possibile in mezzo ai pericolosissimi seracchi. La loro è una vera e propria scommessa che, dopo 7 incredibili giorni, termina in cima a quella che è la salita dell'anno. La terza su quella mitica parete, la prima in stile alpino. E' la via da Oscar dell'alpinismo, ovvero il Piolet d'Or che consacra Steve House. Ma, appunto, chi cerca se stesso non ha mai finito il viaggio. E House non si ferma di certo. Continua con altre salite. Con altre avventure che privilegiano prima di tutto la ricerca di un'esperienza personale. Come le nuove vie sul Mount Robson e sul Mount Alberta, nelle Canadian Rockies. E come la pubblicazione di “Oltre la montagna” il libro in cui House racconta la sua storia, ma soprattutto guarda alla sua esperienza complessiva. Quella della vita che va oltre all'alpinismo e la montagna, ma che nell'alpinismo ha cercato e continua a cercare l'essenza del proprio essere. Perché il viaggio dentro se stessi, come quello in montagna, non ha mai veramente fine.
Sabato 20 agosto il terzo appuntamento con le “Storie di Montagna” presenta Simone Moro e Denis Urubko e le loro speciali avventure invernali sulle più alte montagne del mondo. E' la storia delle due eccezionali e storiche prime salite invernali di cui Moro e Urubko sono stati protagonisti: sul Makalu nel 2009 e sul Gasherbrum II nello scorso febbraio 2011. Ma è anche la storia di un'amicizia e di una stima nata molti anni fa. Entrambi hanno un curriculum da capogiro. Simone Moro, bergamasco Doc, classe 1967, Guida alpina, è uno degli alpinisti più conosciuti a livello internazionale. Tra le altre imprese vanta tre prime invernali su altrettanti Ottomila che rappresentano un record assoluto, condiviso solo dal grande alpinista polacco Krzysztof Wielicki. Denis Urubko, kazako, nato nel 1973 nel Nord del Caucaso, è uno degli himalaysti più forti di sempre e, oltre alla salita di tutti i 14 Ottomila, vanta 3 vie nuove su altrettanti colossi himalayani. Insieme formano una cordata fortissima, perfetta e affiatata in cui il segreto è la fiducia totale e incondizionata che ciascuno ripone sull'altro. Tutto ciò è il frutto di una conoscenza reciproca e di un'esperienza sul campo che ha pochi eguali. Tanto che è difficile, se non impossibile, riportare tutte le salite in cui ciascuno di loro è stato protagonista sulle montagne del mondo. Basti dire che con i suoi 44 anni Simone Moro ha all'attivo più di 40 spedizione extraeuropee. D'altra parte aveva solo 13 anni quando ha iniziato ad arrampicare. A vent'anni sale la sua prima via di grado 8a, e fino al 1989 sono oltre 30 le sue vie di 8b+. Un risultato notevole all'epoca, che gli vale anche l'incarico di allenatore della nazionale di arrampicata sportiva dal '92 al '96. Intanto, ottiene la laurea con il massimo punteggio in Scienze motorie. La svolta avviene nel 1992, anno della sua prima spedizione sull'Everest. Non raggiunge la cima, anzi soffre per la quota. Ma da allora la sua strada è segnata: l'Himalaya diventerà la sua grande meta e il suo mondo. Nel '96, con Adriano Greco, arriva la vetta dello Shisha Pangma, in 27 ore tra andata e ritorno. Ma, cosa ancora più importante, è lì che incontra l'alpinista russo Anatolij Burkreev: come lui stesso lo definisce questo è l'incontro della sua vita. Burkreev è uno dei più forti himalaysti in assoluto, diventato suo malgrado famoso per la tragedia sull'Everest del 1996, descritta nel bestseller “Aria sottile” da Jon Krakauer. Con Burkreev, nel 1997, Moro tenta subito un'impresa ritenuta ancora adesso impossibile: la traversata Lhotse - Everest. Poi la tragedia: tentano l'invernale all'Annapurna, ma nel tentativo di salire l'inviolata parete Est dell'Annapurna Fang vengono travolti da un'enorme valanga. Di Anatolij Burkreev non resterà più traccia. Mentre Simone Moro si salva per miracolo. E' un trauma, oltre che fisico, soprattutto psicologico, che Simone cercherà di superare anche scrivendo il suo “Comete sull'Annapurna”. E poi andando quasi in pellegrinaggio a scalare nel Pamir, sulle montagne del compagno scomparso. E qui, quasi per destino, c'è l'incontro con Denis Urubko alpinista del gruppo sportivo dell’esercito kazako. Con Urubko l'intesa è da subito perfetta. Salgono insieme il Pik Lenin. Poi, nel 2000, ritentano insieme l'impossibile traversata Lhotse – Everest. Per l'alpinista kazako in quell'occasione arriva “solo” la vetta dell'Everest, ma anche la dimostrazione che è nato per l'altissima quota. E' l'inizio di una escalation inarrestabile che lo porterà sempre più in alto, fino a salire tutti i 14 Ottomila. Il suo è un percorso eccezionale, fatto in modo impeccabile. Sempre senza ossigeno e con spedizioni ultra leggere. Ma non basta, perché Urubko nei suoi 14 Ottomila centra tre vie nuove: nel 2005 sul Broad Peak con Serguey Samoilov; nel 2006 sul Manaslu sempre con Serguey Samoilov; infine nel 2009, insieme a Borish Dedeshko, sul Cho Oyu la vetta con la quale termina il suo speciale tour delle montagne più alte della terra. Per queste imprese ottiene due nominations al Piolet d'Or, riconoscimento che gli viene assegnato per la nuova via sul Cho Oyu. Ma non è ancora finita, perché mancano ancora due salite che hanno fatto la storia: le invernali con Simone Moro. Sì, perché dopo la spedizione all'Everest del 2000 i due non si sono mai persi di vista, anzi i loro contatti sono frequentissimi. Dal canto suo l'alpinista bergamasco non è stato certo fermo. Irrefrenabile nella sua passione per l'Himalaya, Moro non ha mai smesso di puntare sempre più in alto seguendo una strada che lo porta ad esplorare orizzonti sempre diversi e speciali. Sale 9 Ottomila, tra i quali un posto speciale merita la prima traversata da sud a nord dell'Everest. In Pakistan, nel 2005, apre una via nuova sul Batokshi Peak (6050m). Mentre, nel 2008, insieme ad Hervè Barmasse, dopo una “corsa” di 43 ore centra la prima salita del Beka Brakai Chhok (6940m). Mentre è del 2004 la prima invernale dello Shisha Pangma, l'impresa che lo consacra alla storia dell'himalaysmo. E' la prima di una serie di grandi prime salite invernali che lo vedrà protagonista proprio con Denis Urubko. Nel 2009 Denis e Simone affrontano d'inverno il Grande nero, il Makalu. E' una prova difficile su uno degli Ottomila più ostici. Nessuno prima di loro c'era riuscito, eppure decidono di partire da soli cercando di essere più veloci possibile e confidando solo nella loro forza ed esperienza. Si rivelerà la tattica vincente per un'altra grande e storica prima. Come, solo due anni dopo, altrettanto storico è il bis che si concedono sul Gasherbrum II. Stessa tecnica, stessa velocità, stesso team rodato con l'aggiunta dello statunitense Cory Richards per un'altra salita che ha stupito tutti: la prima invernale su uno dei 5 Ottomila del Pakistan realizzato dopo soli 22 giorni dal loro arrivo al campo base. Ma soprattutto è una salita che ancora una volta ha confermato la forza della cordata e dell'amicizia e di un alpinismo che si basa sull'uomo e sulla sua capacità di vivere grandi storie e sfide.
Martedì 23 Agosto. L'ultima Storia di montagna di questa serie 2011 sarà raccontata da Christoph Hainz, un maestro dell'arrampicata e dell'alpinismo che cerca la difficoltà e la bellezza su tutti i terreni: dalle grandi pareti alle difficili vie di arrampicata sportiva, dal ghiaccio alle grandi montagne del mondo. Hainz appartiene a quella stirpe d'uomini che sembrano essere nati per la montagna e l'alpinismo. Non a caso viene da una terra, l'Alto Adige, che ha regalato all'alpinismo alcuni tra i nomi più importanti della sua storia. Nato nel 1962 a Selva dei Molini, guida alpina dal 1990, Christoph Hainz ha legato il suo nome ad alcune delle più belle salite degli ultimi vent'anni, nelle Dolomiti ma anche nelle montagne di tutto il mondo. Semplicemente fortissimo, è l'aggettivo che normalmente gli dedicano gli alpinisti e i climber. Mentre il giudizio di “bellissime”, accompagnato sempre da un “molto impegnative”, è il commento che immancabilmente viene riservato alle sue vie. Ma forse è ancora più importante sottolineare la passione, la forza e il coinvolgimento assolutamente eccezionali con cui Christoph Hainz si dedica alla montagna e alla scalata in tutte le sue forme. Una passione e un impegno che non prescinde mai dalla felicità che gli dà lo stare in montagna. Eppure la sua storia con le pareti è cominciata solo a vent'anni. “Forse” spiega Hainz “è perché le montagne erano parte integrante della mia vita di tutti i giorni”. Hainz, infatti, aveva imparato a conoscerne i segreti in quel maso a 1500m in cui era cresciuto. E ne aveva assaporato gli orizzonti e la bellezza nel modo più semplice: vivendole giorno dopo giorno. Poi però, a vent'anni, arriva la scoperta della parete. Un incontro fatale visto che otto anni dopo, nel 1990, Hainz lascia il suo lavoro di meccanico d'auto per la professione di guida alpina. Una scelta di vita per l'alpinismo e la montagna che dà subito i suoi frutti, naturalmente con nuove vie, soprattutto nelle Dolomiti. La primissima, nel 1987, è quella del Pilastro "Walde" sul Mur des Pisciadu nel Gruppo del Sella. Seguita poi da moltissime altre, tutte da 5 stelle. Tra queste meritano un posto speciale “L'apprendista stregone” sulla Cima Scotoni, la “Via in memoria di Friedl Mutschlechner” al Sass dla Crusc, Moulin Rouge” alla Roda di Vael. E poi, sulla Civetta, “Kein Rest von Sehnsucht” alla Punta Tissi, “Rondò Veneziano” alla Torre Venezia e “Donnafugata” alla Torre Trieste. Da sottolineare, come assolutamente imperdibile, anche il suo trittico di nuove vie sulle pareti nord delle Tre Cime di Lavaredo. Le pareti dove Hainz è di casa e dove ha dettato lo standard di difficoltà con le celeberrime e severe "Phantom der Zinne" sulla Cima Grande, "Alpenliebe" sulla Cima Ovest e “Otzi trifft Yeti" sulla Cima Piccola. Come non si può scordare che Hainz, oltre che sulle Dolomiti, ha lasciato il suo segno anche su una delle più belle montagne del mondo: lo Shivling. Dove, nel 1993, con Hans Kammerlander, ha aperto una difficile via diretta sul Pilastro Nord. Ripetendosi poi, nel 1996, con "Südtiroler Profil" la difficile via aperta sulla grandiosa parete dello Ulumertorsuaq in Groenlandia. Vanno ricordate anche le sue velocissime solitarie sulla via Franco/Argentina al Fitz Roy, ma anche la solitaria invernale sulla “Superdirettissima” della Cima Grande di Lavaredo. E, ancora, la salita super veloce della via Heckmair sulla Nord dell'Eiger. Era il 2003 ed Hainz salì quei 1800 metri in 4 ore e mezza. Un tempo che stupì tutti, ma Hainz non sembrò dargli peso più di tanto: “Non volevo fare un record” disse “volevo solo salire l'Eiger...”. Cosa che rifece ancora. Questa volta però inventando, insieme a Roger Schäli, il suo “Magic Mushroom”: la nuova via che sale l'incredibile fungo di roccia della parete nord dell'Eiger... Perché il viaggio e la magia dell'alpinismo per Hainz non finiscono mai.
STORIE DI MONTAGNA - Jardin de l'Ange, Courmayeur, ore 21,00
Sabato 6 agosto - Nives Meroi e Romano Benet
Sabato 13 agosto - Steve House
Sabato 20 agosto - Simone Moro e Denis Urubko
Martedì 23 agosto - Christoph Hainz
Conduce Vinicio Stefanello – editor di PlanetMountain.com
Note: STORIE DI MONTAGNA
Jardin de l'Ange, Courmayeur, ore 21,00
6/08/11 - Nives Meroi e Romano Benet
13/08/11 - Steve House
20/08/11 - Simone Moro e Denis Urubko
23/08/11 - Christoph Hainz
Conduce Vinicio Stefanello
editor di PlanetMountain.com
Jardin de l'Ange, Courmayeur, ore 21,00
6/08/11 - Nives Meroi e Romano Benet
13/08/11 - Steve House
20/08/11 - Simone Moro e Denis Urubko
23/08/11 - Christoph Hainz
Conduce Vinicio Stefanello
editor di PlanetMountain.com
Planetmountain | |
arch. news Meroi - Benet | |
arch. news Steve House | |
arch. news Simone Moro | |
arch. news Denis Urubko | |
arch. news Christoph Hainz | |
Storie di Montagna 2010 | |
Expo Planetmountain | |
Expo Grivel |
Ultime news
Expo / News
Expo / Prodotti
Nuovissimi sci SCOTT, leggeri per lo scialpinismo e modellati per il freeride.
Realizzati uno ad uno in Dolomiti con lana merinos italiana.
Ferrino X-Dry 15+3 è uno zaino da trail running. Grazie alla membrana HDry, lo zaino è completamente impermeabile.
Imbracatura estremamente leggera per scialpinismo, alpinismo e tour su ghiacciaio.
Scarpone low-cut estremamente leggero e performante sviluppato per alpinismo tecnico.
Rampone a 10 punte in acciaio per alpinismo classico.