Rock Master, la storia di 30 anni d'arrampicata ad Arco
Prima appare il blu del Lago, che si perde all'orizzonte come fosse un mare. Poi, contro il cielo, spunta la grande rupe, pennellata di nero e ocra, con in vetta il castello. Tutt'attorno domina il verde degli ulivi, dei lecci e dei pini da cui s'innalzano, come scudi, le pareti di roccia. S'annuncia così Arco, il piccolo grande borgo Trentino che ha un posto speciale nel cuore degli arrampicatori. Siamo nella Busa - come da queste parti chiamano la "piccola pianura" che a nord s'affaccia sul Lago di Garda - e siamo nella Valle del Sarca, il fiume che dalle Dolomiti del Brenta finisce la sua corsa proprio nel grande Lago. E' giusto qui, in questo territorio che sembra essere stato baciato dagli dei della roccia, che ha inizio la nostra storia, che poi è anche un po' quella della moderna arrampicata. Bisognerebbe aggiungere che è anche la storia di un'autentica visione che, trent'anni fa, riuscì ad immaginare quello che ancora non c'era. Ossia le potenzialità, non solo economiche, di quel turismo che adesso molti inseguono e che tutti definiscono come turismo "outdoor", "attivo" o "all'aria aperta". Tutti termini, è bene sottolinearlo, arrivati ben dopo e che ai tempi nemmeno si sapeva cosa rappresentassero. Ma andiamo con ordine, partendo dall'inizio o quasi.
Era il 1986 e una grandissima folla, assolutamente giovanissima e dai mille colori, è assiepata sotto la strapiombante rupe del castello di Arco. C'era la Rai. E tutti i giornali ne parlavano come di un grande evento. Cosa stava succedendo? Semplice: ad Arco, in quel lontano weekend di fine agosto, s'erano dati convegno tutti, ma proprio tutti, i campioni e gli appassionati della nuova arrampicata. In programma c'era SportRoccia, ovvero la 2a edizione di quella prima competizione mondiale d'arrampicata che l'anno prima, nel 1985, si era disputata sulla parete dei Militi, a Bardonecchia. Una vera e propria novità, forse anche un po' provocatoria, ideata dal giornalista e scrittore Emanuele Cassarà e dall'alpinista e Accademico del Cai Andrea Mellano. Semplificando un po', si potrebbe dire che era una sorta di affermazione (un ci siamo e siamo diversi!) della nuova arrampicata allora nascente. E, per certi versi, anche il suo "distacco" da quella parte (grande o piccola) dell'alpinismo delle vette che a parole non ammetteva competizione ma che da sempre la praticava nei fatti.
A dire il vero non tutto il mondo dell'arrampicata era d'accordo per... metterla in competizione. Vedasi il famoso manifesto "contro le gare" firmato da 19 tra i più forti climber francesi. I fatti diranno in seguito che di quei 19 forse il solo Patrick Berhault non indossò mai un pettorale. D'altro canto è pure un fatto che di quella prima giuria di Bardonecchia facesse parte anche un mito assoluto dell'alpinismo come Riccardo Cassin. Insomma, come per tutte le rivoluzioni - e quella per il mondo della scalata fu davvero una rivoluzione - sotto quel cielo non tutto era chiaro. Com'è altrettanto chiaro che nulla nasce dal caso: ci vuole sempre la scintilla, o una qualche illuminazione, per far accadere le cose. E per capire com'è andata occorre fare un passo indietro nel tempo.
Anche per Arco e per la sua parte da grande protagonista in questa storia occorreva che qualcuno desse fuoco alla miccia, o meglio che vedesse ciò che ancora non esisteva. Insomma, quel giardino dell'arrampicata era lì da sempre in attesa dei tempi giusti ma anche che di qualcuno lo scoprisse. Destino volle non solo che a farlo fosse un gruppetto di arrampicatori tra i più visionari e talentuosi della loro generazione, ma anche tra quelli che "inventarono" quel nuovo mondo dell'arrampicata di cui stiamo raccontando dall'inizio. Erano gli anni a cavallo tra i '70 e gli '80. Allora il mondo era un po' diverso e, nel bene e nel male, si respirava un'altra aria. Diciamo che, dalla parte del bene, allora si era propensi a tentare strade nuove e diverse per cercare, o sognare, di essere tutti un po' più liberi. Fu così che in Valle del Sarca ed ad Arco capitarono, quasi casualmente, i nostri nuovi e inconsapevoli arrampicatori. Si chiamavano Heinz Mariacher, Luisa Iovane, Maurizio "Manolo" Zanolla e Roberto Bassi. Naturalmente erano tutti giovanissimi ma anche tra i più visionari e talentuosi scalatori / alpinisti della loro generazione.
Heinz e Luisa erano una cordata, e una coppia, che aveva cambiato la scalata sulle pareti dolomitiche. Manolo era già il Mago della roccia e le sue avventure sulle pareti delle Pale di San Martino (e non solo) avevano stupito tutti. Roberto il più giovane e forse anche il più "puro", era l'unico trentino ed in Valle, sulla parete dei Colodri, aveva già lasciato il segno con due vie ancora adesso classicissime. Certo ognuno inseguiva un suo sogno e una sua visione. Forse all'inizio qualcuno pensava anche che quelle piccole pareti e quelle vie, alte solo 20 o 30 metri, sarebbero state il trampolino per nuove avventure in montagna. Fatto sta che in quegli anni esplorarono non solo l'immenso giardino di roccia di Arco ma inventarono, appunto, la nuova arrampicata. La stessa che contemporaneamente stava nascendo in altri "laboratori" sparsi per il mondo, a Yosemite come in Francia, in Germania come in Inghilterra. La stessa che, forse anche aldilà delle intenzioni di quei pionieri, venne poi etichettata come "sportiva".
Com'era questa nuova arrampica è presto detto: era bella, impossibile e soprattutto (in) libera. Ergo, le nuove vie non dovevano raggiungere per forza una cima. Dovevano essere difficili, anzi si proponevano programmaticamente di superare tutti i limiti di difficoltà. Dovevano essere belle. E dovevano essere salite dal basso ed esclusivamente in libera. Cioè per la progressione non dovevano essere usati chiodi o altro ma solo mani, piedi, tanta forza e tanta abilità. Naturalmente questa esplorazione delle "impossibili" difficoltà verticali, e spesso oltre la verticale, prevedeva anche l'adozione di una qualche sicurezza. Anche perché, proprio per cercare la massima difficoltà, queste pareti erano compattissime e off limits con i mezzi tradizionali. Così ci si avvalse dello spit, un chiodo che si può piantare ovunque, o quasi, e che permette di provare e anche di "sbagliare". Insomma, un nuova arrampicata che bastava a se stessa era nata, e la roccia di Arco era stata una delle sue culle. Non a caso a quei primi nuovi arrampicatori se ne erano aggiunti altri e in Valle cominciarono ad arrivare da ogni dove per interpretare e ampliare il nuovo appassionante gioco. E' così che, di falesia in falesia, le scoperte e le nuove vie si moltiplicarono e Arco e la Valle del Sarca divennero una meta immancabile per tutti.
A questo punto della nostra storia occorreva che qualcuno interpretasse ciò che stava succedendo da un altro punto di vista. Quello del territorio. Fatalità volle che in quegli anni al Comune di Arco ci fossero Mario Morandini (Assessore al Turismo) ed Ennio Lattisi (Assessore allo Sport). Entrambi sognavano, per lo splendido ambiente che li circondava, un sistema integrato dove far convivere le attività all'aria aperta con un nuovo modo di considerare il territorio e la sua salvaguardia. Un sogno condiviso con Angelo Seneci allora giovane guida alpina e fondatore della scuola arrampica di Arco. Una visione perlomeno contro corrente in un'epoca in cui di ambiente ma anche di outdoor ci si preoccupava o si sapeva poco o nulla. Dunque gli ingredienti per il futuro c'erano tutti, bastava solo la scintilla che li unisse.
E' così che ritorniamo al 1986 a quello Sportroccia disputato tra le rocce di Arco e di Bardonecchia. Fu un successo grandissimo e il seme di un'era nuova non solo per l'arrampicata ma anche per Arco. Non fu un caso infatti che Arco, nel 1987, pur continuando il "tandem" con Bardonecchia, per la sua tappa inventasse il Rock Master, la gara dei campioni. Una novità assoluta. Anzi un'intuizione: era il primo evento che si proponeva di esaltare la spettacolarità dell'arrampicata mettendo in campo solo i migliori atleti. Fu un altro successo. E naturalmente non finì lì.
L'anno dopo Arco continuò da sola l'avventura e avvenne l'impensabile: il campo di gara del 2° Rock Master non fu più la roccia ma una parete artificiale. Anche questa una grande intuizione. O meglio una rivoluzione, che anticipava letteralmente il futuro. D'altra parte si era già capito che la roccia non era il campo di gara ideale. In più, c'erano anche dei problemi di sicurezza: le indagini geologiche avevano rilevato come l'area alla base della la Rupe del Castello fosse esposta alla caduta di pietre. E' così che in 4 mesi all'ombra dei Colodri si compì il miracolo: s'inventò il Climbing Stadium. Era in assoluto una delle primissime pareti artificiali per l'arrampicata. Con i suoi 24 metri d'altezza ed oltre 10 metri di strapiombi, sicuramente la più impressionante. Per non parlare delle prese artificiali, anche quelle una novità futuristica. Ancora non si poteva sapere ma il Rock Master aveva gettato le basi per quella che diventerà la Wimbledon dell'arrampicata. Un vero e proprio laboratorio e punto di riferimento del movimento delle competizioni. E, allo stesso tempo, il simbolo di quella Arco che già stava diventando la capitale della moderna arrampicata mondiale.
Ora, siccome nulla nasce dal nulla, per dare onore al merito occorre dire che per il progetto del Rock Master si era costituito un Comitato di cui, oltre ai già citati Morandini e Lattisi, facevano parte Albino Marchi (ancora adesso motore e presidente del Rock Master), Sergio Calzà, Giuliano Emanuelli, Diego Finotti e Giuseppe Filippi. Mentre ad Angelo Seneci venne dato l'incarico di Direttore Sportivo, un ruolo fondamentale che ricopre ancora oggi.
Sono passati 30 anni dalla nascita del Master di Arco. L'arrampicata è molto cambiata da allora. E il Rock Master, da vero laboratorio, è sempre stato al passo dei tempi, spesso anticipandoli. Così leggere la sua storia è come ripercorrere l'evoluzione stessa dell'arrampicata moderna. Un fenomeno che negli ultimi anni è letteralmente esploso, basti pensare ai frequentatissimi impianti indoor che sono sorti in tutte le città. Dal canto suo Arco è una città simbolo dell'arrampicata sportiva. Ma anche un modello di sviluppo fatto a misura degli arrampicatori e di chi ama gli sport outdoor. Negozi specializzati, bar, ristoranti, pizzerie, hotel tutto è in funzione di questo speciale turismo e particolare modo di vivere la natura.
Intanto il Rock Master è rimasto l'appuntamento imperdibile per tutti gli appassionati. Il Climbing Stadium, con la nuova parete nata nel 2000, è sempre il terreno di confronto dei migliori al mondo. Leggere la sua storia è come ripercorrere la storia setssa dell'arrampicata delle competizioni. Basta scorrere il suo Albo d'oro per capirlo: tutti i campioni di questo dagli albori ai giorni nostri hanno lasciato il segno al Climbing Stadium. Come tutti i più importanti tracciatori. Ma tutto nel Rock Master è sempre stato in evoluzione. Dal 2002 al Master dei campioni si è aggiunto il Rock Junior la festa dell'arrampicata giovanile. Dal 2006 si assegnano gli Arco Rock legends, gli oscar dell'arrampicata. Nel 2011 il Rock Master ha organizzato una grande edizione dei Campionati del mondo. L'anno scorso si è replicato con i Mondiali giovanili. La storia dell'arrampicata, di Arco e del Rock Master continua... e a Tokyo 2020 l'arrampicata sarà Olimpica!
di Vinicio Stefanello
Pubblicato nell'edizione Agosto 2016 di In Movimento di Il Manifesto
IN VENDITA SU SHOP.PLANETMOUNTAIN.COM Rock Master - arrampicata ad Arco Ediz. italiana, inglese Autore: Giulio Malfer, Vinicio Stefanello |