Prima e dopo le Mariacher

90 anni di La Sportiva. Le Mariacher, le scarpette viola de La Sportiva rappresentano un punto di riferimento assoluto nella storia dell'arrampicata, non soltanto sportiva.
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Viaggio nel Passato al Monte Casale: Beata ed incosciente gioventù senza casco, Rolando Larcher nel 1988
Dario Sebastiani

C’è un prima e un dopo le Mariacher, intese come scarpette d’arrampicata. Chi ha attraversato, o meglio arrampicato, le rocce in quei primi anni ‘80 potrà testimoniare come quelle scarpette gialle e viola, create da La Sportiva e messe a punto da Heinz Mariacher, abbiano segnato un cambio di paradigma. O meglio un cambio d’epoca. Hanno sancito insomma, il definitivo e assoluto primato delle scarpette sullo scarpone e insieme, anche l’affermazione della nuova arrampicata. Quella che si è lanciata nell’esplorazione dell’immenso mare di roccia e di difficoltà, che non era mai stato percorso.

Potrebbe sembrare una visione presuntuosa, non però se si pensa che quelli erano davvero anni di rivoluzione. Anni fatti da giovani poco più che ventenni che cercavano nuove strade e nuove vie, anche sulla roccia. Non che quell’arrampicata e quelle scarpette venissero dal nulla. Prima, e si deve tornare indietro agli anni ‘30 del Novecento, c’era chi arrampicava sulle grandi pareti dolomitiche con calzature che avevano la suola di feltro o di corda. Parliamo di Angelo Dibona, di Luigi Rizzi, di Emilio Comici. E tutti quelli che hanno fatto la storia del 6° grado. Poi arrivò l’invenzione degli scarponi con la suola Vibram che portò i suoi indubbi vantaggi: quella speciale gomma non si consumava o sfaldava come le primitive pedule di pezza. D’altra parte però quell’innovazione mutò profondamente la tecnica e il modo di arrampicare. Con quegli scarponi, pesanti e rigidi, si scalava quasi esclusivamente in punta di scarpone, con movimenti misurati e statici, sempre con il corpo frontale e ben staccato dalla parete. Nulla a che vedere con lo stile d’arrampicata dinamico e vario a cui ricorrevano gli acrobati del 6° grado. Tanto più che tra gli anni ‘50 e ‘60 andava per la maggiore l’arrampicata artificiale delle direttissime a goccia d’acqua. Non che mancassero i fuoriclasse dell’arrampicata, basti pensare a Cesare Maestri e a Raffaele Carlesso ma quelli erano tempi in cui il focus era altro e la scalata in libera non era certo una priorità. Anche il concetto di arrampicata libera allora, era diverso. Bisogna aspettare la fine degli anni ’70, anzi occorre aspettare una nuova generazione di scalatori perché l’arrampicata libera riprenda il suo primato e si aprano nuovi orizzonti da esplorare.

Forse tutto cominciò con la più classica delle molle: il progresso, quei giovani arrampicatori volevano far meglio di chi li aveva preceduti. Probabilmente nulla sarebbe successo se in quegli anni non avesse spirato un vento nuovo per cui tutto veniva guardato con occhi diversi e tutto doveva cambiare. Quella voglia di andare oltre gli schemi usuali permeava ogni cosa. E, naturalmente, l’arrampicata non ne fu immune. Così tutto fu rimesso in discussione. La libertà di esplorare si tradusse nella voglia di scalare in libera, di superare quei limiti che sembravano sanciti per legge divina. Il desiderio diventava quello di andare oltre alla cima e oltre la conquista delle vette per concentrarsi sul gesto e sulla bellezza della scalata. L’arrampicata in parete divenne così un grande laboratorio di gesti e di idee che coinvolse tutti. Ognuno cercava di metterci del suo e, siccome tutto doveva essere diverso, tutto mutò. Da come ci si vestiva fino a quello che si metteva ai piedi per scalare. Arrivarono le salopette comprate al mercato, i jeans al posto delle classiche braghe alla zuava e poi anche i fuseaux rubati alla fidanzata. Mentre dai piedi scomparvero gli scarponi rigidi dei padri e ricomparvero delle calzature molto più simili a quelle dei nonni del 6° grado. Si chiamavano EB, la suola era di gomma liscia anziché di pezza e somigliavano a delle scarpe da pallacanestro, in quegli anni alla fine dei ‘70 non era facile trovarle in Italia.

Sarà per questa ragione che più di uno sperimentò le scarpette da ginnastica - le Superga alte da basket - in falesia e prima ancora sulle pareti delle Dolomiti. Per non parlare delle leggende che si diffondevano con il passa parola come quello tutto veneto, delle Tepa Sport, scarpe da ginnastica assolutamente anonime che si compravano al mercato e di cui si favoleggiava un grip eccezionale. Naturalmente non era così. Di fatto la ricerca della scarpetta d’arrampicata perfetta era partita, di pari passo e in sintonia con quell’arrampicata che giorno dopo giorno si avventurava e superava sempre nuovi limiti.

Così apparvero anche i primi prototipi di scarpette studiati e propagandati da quasi tutti i profeti della nuova arrampicata. Molta importanza aveva la suola, ovvero la mescola con il magico grip per superare quelle placche e quei muri verticali che nessuno aveva mai scalato. Anche qui il tam-tam tra gli arrampicatori favoleggiava ogni volta di una nuova super gomma. La più celebre tra queste era quella aerlite, utilizzata normalmente come suola per gli zoccoli. Il problema era che quella morbidissima gomma si consumava e sbrecciava troppo in fretta: la leggenda narra che ad alcuni bastò una via lunga in Dolomiti per consumarla per intero.

Poi, finalmente, arrivarono le Mariacher di La Sportiva: era il 1982 e quello fu il punto di partenza e il riferimento che tutti cercavano. Se idealmente la nuova arrampicata era anche la libertà di esplorare nuovi movimenti, quelle scarpe ne rappresentavano lo strumento. Fu l’inizio di un percorso per un’evoluzione fino a quel momento soltanto sognata e ancora tutta in divenire. A quei tempi per garantire la massima performance delle scarpe e garantirsi la tenuta della forma nel tempo si arrivava perfino ad usare scarpette 3 o 4 numeri inferiori alle scarpe normali. Il risultato all’inizio era un insopportabile dolore ai piedi, accompagnato allo stesso tempo da un proliferare di metodi empirici per adattarle in fretta come mettere a mollo i piedi in una bacinella d’acqua calda, ovviamente con le scarpette infilate nei piedi. Per tacere del trucco dei sacchetti di plastica usati per far scivolare i piedi più facilmente dentro a quegli autentici stivaletti malesi. Ma tant’è: quello era solo l’inizio di un’arrampicata che nel frattempo oltre che libera sarebbe diventata prima sportiva e poi anche di gara. Intanto il repertorio dei gesti evolveva sempre più.

E così nel 1984, di fronte a delle rinnovate esigenze, sempre in casa La Sportiva nacquero le prime ballerine della storia. Anche questa intuizione era un nuovo punto di partenza. L’idea di libertà che era contenuta dentro al concetto di arrampicata libera si era dischiusa. Nel frattempo nel 1986 erano arrivate nei negozi anche le Mega, le scarpe dei primi campioni del Rock Master studiate apposta per le grandi performance in gara. Era la conferma che non c’era un unico modello adatto a tutti i tipi di roccia e a tutti gli stili di scalata ma che le scarpette dovevano adattarsi agli arrampicatori e ad una idea di arrampicata che si andava ramificando. Da quei tempi l’arte di salire la roccia ha continuato la sua strada sulle pareti, sui boulder e nelle palestre artificiali di tutto il mondo e le scarpette di arrampicata hanno continuato a segnare il ritmo di questo cammino. Ora noi tutti sappiamo che per ogni tipo di piede e per ogni stile di arrampicata, roccia o parete artificiale c’è una scarpetta più adatta di un’altra. Ci sono quelle studiate apposta per le donne e quelle per i più piccoli, quelle per l’arrampicata in strapiombo e quelle per l’arrampicata in placca o nelle fessure di granito. L’arrampicata nelle palestre indoor sembra aver spalancato la porta a una serie di possibilità infinite. Nel 2020 a Tokio, le gare di arrampicata approderanno per la prima volta alle Olimpiadi. Il cammino continua ed è tempo per pensare ad un’idea di arrampicata libera sempre diversa e sempre più moderna. Naturalmente, con le migliori scarpette ai piedi.

di Vinicio Stefanello

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