I bianchi e i neri, riflessioni su e oltre l'arrampicata e l'alpinismo partendo da GC Grassi e GP Motti
Partendo da una lettera, finora inedita, inviatagli da Gian Carlo Grassi, Maurizio Oviglia cerca un filo che parte da quel passato (non sempre detto) dell'arrampica e dell'alpinismo che in Gian Carlo Grassi e Gianpiero Motti aveva due visionari innovatori e sperimentatori. Molto era stato visto già allora. E molto, forse, c'è ancora da riflettere, comprendere e... scalare.
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1983 - Probabile prima ripetizione di Sogno di Sea, Vallone di Sea.
Francesco Bordo
A distanza di tanti anni si fa ancora un gran parlare di Gian Piero Motti ed effettivamente è stata una figura di assoluto riferimento, soprattutto negli anni ottanta, divenendo oggi quasi un mito generazionale. Nel 1983 avevo 20 anni ed ero rimasto, come del resto molti miei coetanei, completamente soggiogato dai suoi scritti. Inoltre in molti suoi articoli, specialmente i più ermetici, c’erano continui riferimenti al mondo della psichedelia ed alla musica del gruppo progressive Gong, di cui ero allora un grande fan. Riuscivo quindi forse a capire qualche cosa in più... normale che per me Motti fosse un vero mito.
Purtroppo il 22 giugno del 1983 Gian Piero decise di porre fine alla sua vita proprio mentre ero quasi riuscito a contattarlo e violare quella cortina impenetrabile che si era costruito per proteggersi. La mia sezione era riuscita a parlargli, invitandolo a venire in sede a farci vedere un po’ di diapositive ma lui aveva gelato tutti dicendo che… le aveva bruciate tutte!
Noi ragazzi percepivamo che ci fosse qualcosa che non andava, anche perché appena qualche mese prima era uscita su Scandere la famosa monografia su Caprie, da molti considerata il suo testamento spirituale. La mia voglia di capire e la mia ammirazione per le figure alpinistiche (e culturali) che allora consideravo dei riferimenti, mi aveva spinto a scrivere delle lettere a numerosi alpinisti di quell’epoca, esprimendo loro i miei dubbi esistenziali, le mie considerazioni sui loro scritti, le mie paure e le mie aspettative sul mondo alpinistico di quegli anni.
Mentre Gian Piero non aveva risposto, Alessandro Gogna e Giancarlo Grassi erano stati gentili con me e con loro avevo iniziato una fitta corrispondenza. Una di quelle lettere di Giancarlo, che gli avevo scritto dopo la probabile prima ripetizione di Sogno di Sea (ottobre 1983) mi è ricapitata spesso tra le mani e, rileggendola oggi a mente e cuore freddo, in alcuni passi si intravede una netta contrapposizione tra i vari modi di intendere la scalata che stavano emergendo in quel periodo. Ho deciso dunque di renderla pubblica, chiaramente senza intenti polemici, ma come umile contributo alla nostra storia verticale.
Noi eravamo quelli della Rocca Bianca... Prima però vorrei precisare che noi ragazzi di quel periodo, almeno mi riferisco al mio gruppo di giovani scalatori torinesi, eravamo fortemente attratti dall’arrampicata sportiva e non la giudicavamo negativamente. Anzi, allora ci sembrava una vera e propria rivoluzione! Normale quindi che vedessimo di buon occhio quanto stesse facendo Giancarlo, che era ricorso sistematicamente allo spit sulle pareti della Valle di Susa sin dal 1982.
Ovviamente, non sto a specificarlo, tutti (o quasi) avevamo iniziato a scalare in modo, si direbbe oggi, trad, dunque sapevamo andare in montagna e metterci le protezioni. Semplicemente scalare sugli spit ci sembrava una cosa nuova, attraente, anche se non riuscivamo certo a prevedere la scissione che da lì a poco sarebbe avvenuta tra arrampicatori sportivi e alpinisti. Chi invece lo prevedeva (e lo sentiva) molto bene erano sicuramente Motti e Grassi, che proprio sulle rocce di Caprie avevano preso posizioni opposte, tenendosi piuttosto a distanza.
Mentre Grassi aveva spittato la Rocca Bianca, Motti si era rifugiato alla Rocca Nera aprendo itinerari tradizionali a cui aveva dato un forte valore simbolico. Solo di recente la Rocca Nera ha conosciuto un restyling (con gli spit!), ma ricordo che ai tempi noi giovani non ci avevamo mai messo piede, essendo fortemente attratti dalle cose che faceva Grassi. Ad esempio c’era un settore, mi sembra si chiamasse Eriador, a cui si accedeva da un comodo prato. Da lì ti calavi verso le gole su una vera e propria parete sospesa dove Grassi aveva attrezzato dall’alto delle placche compatte difficili sino al 6c.
Tornavamo spesso a provare quelle belle vie ed ho un ricordo piacevole di quel prato, dove avevo scambiato i primi baci con la fidanzata di allora, poco prima di arrampicare nell’ombra delle gole. Il suicidio di Motti mi colse impreparato e incredulo: lo apprezzavo tantissimo, particolarmente negli scritti più ermetici, che molti consideravano incomprensibili arrivando a dire che era un misantropo fuori di testa.
Negli anni sono state avanzate le ipotesi più disparate sulle ragioni del suo gesto che sono sfociate anche in animate dispute (ne ricordo una ad un convegno in Valle dell’Orco a cui partecipai) su se veramente Motti fosse contrario o meno allo spit, alla sicurezza, allo sport. Al di là di ciò che scrisse Gian Carlo nella lettera che riporto, io penso che la grande paura che si aveva allora è che l’arrampicata venisse banalizzata dalla componente ludica e perdesse veramente la connotazione “culturale” che l’aveva sempre contraddistinta dagli sport comuni.
Inoltre c’è da considerare gli sponsor, e quindi il denaro, che guardavano positivamente a questa nuova tendenza e facevano il timido ingresso nel nostro mondo. Molti tra noi ragazzi sognavano di riuscire a vivere di arrampicata e diventare professionisti. Grassi era una guida alpina, uno dei pochi che poteva dire di vivere arrampicando ed andando in montagna. Ci rivolgevamo dunque a lui sperando che ci desse indicazioni su come muoverci per arrivare a realizzare il nostro sogno.
Non so come Motti e Grassi giudicherebbero quanto successo dopo, in questi 30 anni di alpinismo e arrampicata sportiva. Di certo vorremmo che tutti e due fossero oggi qui con noi a parlarne…
Maurizio Oviglia (CAAI)
La lettera di Gian Carlo Grassi a Maurizio Oviglia - 1983
“E sì, “Sogno di Sea”, un’intesa proprio splendida con le strutture naturali della roccia, meno lo è stato forse con i compagni, ecco la questione spinosa. Purtroppo è difficile trovare un’intesa, un vero rapporto di amicizia che sia duraturo nel tempo. Succede di rimanere soli per scelta consapevole e credimi, anche questa può essere una strada: Mi è piaciuta la tua lettera dove mi rendi partecipe delle tue idee che fuoriescono dalle mode e dagli atteggiamenti di uno schema di gruppo a volte un po’ provinciale. Provincialismo diffuso oggi in un ambiente dove una corrente ben specifica dell’arrampicata è di moda, e se ne serve per neutralizzare frustrazioni o per affermarsi, proprio come succede in tutti gli sport e in ogni attività umana.
In un certo senso si tratta della vera natura umana che si manifesta apertamente quando in un’attività subentra l’interesse per il potere ed il denaro. Forse di una cosa molti ragazzi si sono illusi, credendo che dietro l’alpinismo e l’arrampicata esistano interessi economici tali da arricchire: no, non è così, a livello professionale non siamo né nel campo del tennis o dello sci, e per dedicarti alla passione comune devi battere tutte le strade possibili, in modo da riuscire ad ottenere quell’indipendenza economica che ti permetta di realizzare i tuoi sogni ed essere libero nei tuoi movimenti, liberando la creatività che sta in noi.
Un tempo in montagna non si vedeva che la morte, l’arrampicatore era necessariamente obbligato, per essere riconosciuto, a passare attraverso le forche caudine della sofferenza di una mentalità dominante sul sado-masochismo. Adesso non si vedono che ragazzi belli -giovani- a torso nudo, pieni di vita: siamo esattamente al polo contrario! Chissà che l’equilibrio della creatività esista altrove?
Hai certamente ragione, la vita è bella anche se la tolleranza di “certi amici” pesa una tonnellata. E’ pesante sopportare specialmente quando la presunta amicizia si tramuta in tradimento tale da porre fine all’energia vitale. Questo, mi pare, non si chiami più suicidio, e come atto sarebbe incriminabile. Tutto questo è racchiuso nella tragedia di Gianpiero e che Gianpiero ha saputo vivere sino in fondo. Purtroppo.
Scusa se ti ho un po’ stufato e se non ho risposto subito alla tua lettera, ti ringrazio anche per le informazioni inviatemi successivamente, sperando ancora nella tua collaborazione
Ciao Gian Carlo
Purtroppo il 22 giugno del 1983 Gian Piero decise di porre fine alla sua vita proprio mentre ero quasi riuscito a contattarlo e violare quella cortina impenetrabile che si era costruito per proteggersi. La mia sezione era riuscita a parlargli, invitandolo a venire in sede a farci vedere un po’ di diapositive ma lui aveva gelato tutti dicendo che… le aveva bruciate tutte!
Noi ragazzi percepivamo che ci fosse qualcosa che non andava, anche perché appena qualche mese prima era uscita su Scandere la famosa monografia su Caprie, da molti considerata il suo testamento spirituale. La mia voglia di capire e la mia ammirazione per le figure alpinistiche (e culturali) che allora consideravo dei riferimenti, mi aveva spinto a scrivere delle lettere a numerosi alpinisti di quell’epoca, esprimendo loro i miei dubbi esistenziali, le mie considerazioni sui loro scritti, le mie paure e le mie aspettative sul mondo alpinistico di quegli anni.
Mentre Gian Piero non aveva risposto, Alessandro Gogna e Giancarlo Grassi erano stati gentili con me e con loro avevo iniziato una fitta corrispondenza. Una di quelle lettere di Giancarlo, che gli avevo scritto dopo la probabile prima ripetizione di Sogno di Sea (ottobre 1983) mi è ricapitata spesso tra le mani e, rileggendola oggi a mente e cuore freddo, in alcuni passi si intravede una netta contrapposizione tra i vari modi di intendere la scalata che stavano emergendo in quel periodo. Ho deciso dunque di renderla pubblica, chiaramente senza intenti polemici, ma come umile contributo alla nostra storia verticale.
Noi eravamo quelli della Rocca Bianca... Prima però vorrei precisare che noi ragazzi di quel periodo, almeno mi riferisco al mio gruppo di giovani scalatori torinesi, eravamo fortemente attratti dall’arrampicata sportiva e non la giudicavamo negativamente. Anzi, allora ci sembrava una vera e propria rivoluzione! Normale quindi che vedessimo di buon occhio quanto stesse facendo Giancarlo, che era ricorso sistematicamente allo spit sulle pareti della Valle di Susa sin dal 1982.
Ovviamente, non sto a specificarlo, tutti (o quasi) avevamo iniziato a scalare in modo, si direbbe oggi, trad, dunque sapevamo andare in montagna e metterci le protezioni. Semplicemente scalare sugli spit ci sembrava una cosa nuova, attraente, anche se non riuscivamo certo a prevedere la scissione che da lì a poco sarebbe avvenuta tra arrampicatori sportivi e alpinisti. Chi invece lo prevedeva (e lo sentiva) molto bene erano sicuramente Motti e Grassi, che proprio sulle rocce di Caprie avevano preso posizioni opposte, tenendosi piuttosto a distanza.
Mentre Grassi aveva spittato la Rocca Bianca, Motti si era rifugiato alla Rocca Nera aprendo itinerari tradizionali a cui aveva dato un forte valore simbolico. Solo di recente la Rocca Nera ha conosciuto un restyling (con gli spit!), ma ricordo che ai tempi noi giovani non ci avevamo mai messo piede, essendo fortemente attratti dalle cose che faceva Grassi. Ad esempio c’era un settore, mi sembra si chiamasse Eriador, a cui si accedeva da un comodo prato. Da lì ti calavi verso le gole su una vera e propria parete sospesa dove Grassi aveva attrezzato dall’alto delle placche compatte difficili sino al 6c.
Tornavamo spesso a provare quelle belle vie ed ho un ricordo piacevole di quel prato, dove avevo scambiato i primi baci con la fidanzata di allora, poco prima di arrampicare nell’ombra delle gole. Il suicidio di Motti mi colse impreparato e incredulo: lo apprezzavo tantissimo, particolarmente negli scritti più ermetici, che molti consideravano incomprensibili arrivando a dire che era un misantropo fuori di testa.
Negli anni sono state avanzate le ipotesi più disparate sulle ragioni del suo gesto che sono sfociate anche in animate dispute (ne ricordo una ad un convegno in Valle dell’Orco a cui partecipai) su se veramente Motti fosse contrario o meno allo spit, alla sicurezza, allo sport. Al di là di ciò che scrisse Gian Carlo nella lettera che riporto, io penso che la grande paura che si aveva allora è che l’arrampicata venisse banalizzata dalla componente ludica e perdesse veramente la connotazione “culturale” che l’aveva sempre contraddistinta dagli sport comuni.
Inoltre c’è da considerare gli sponsor, e quindi il denaro, che guardavano positivamente a questa nuova tendenza e facevano il timido ingresso nel nostro mondo. Molti tra noi ragazzi sognavano di riuscire a vivere di arrampicata e diventare professionisti. Grassi era una guida alpina, uno dei pochi che poteva dire di vivere arrampicando ed andando in montagna. Ci rivolgevamo dunque a lui sperando che ci desse indicazioni su come muoverci per arrivare a realizzare il nostro sogno.
Non so come Motti e Grassi giudicherebbero quanto successo dopo, in questi 30 anni di alpinismo e arrampicata sportiva. Di certo vorremmo che tutti e due fossero oggi qui con noi a parlarne…
Maurizio Oviglia (CAAI)
La lettera di Gian Carlo Grassi a Maurizio Oviglia - 1983
“E sì, “Sogno di Sea”, un’intesa proprio splendida con le strutture naturali della roccia, meno lo è stato forse con i compagni, ecco la questione spinosa. Purtroppo è difficile trovare un’intesa, un vero rapporto di amicizia che sia duraturo nel tempo. Succede di rimanere soli per scelta consapevole e credimi, anche questa può essere una strada: Mi è piaciuta la tua lettera dove mi rendi partecipe delle tue idee che fuoriescono dalle mode e dagli atteggiamenti di uno schema di gruppo a volte un po’ provinciale. Provincialismo diffuso oggi in un ambiente dove una corrente ben specifica dell’arrampicata è di moda, e se ne serve per neutralizzare frustrazioni o per affermarsi, proprio come succede in tutti gli sport e in ogni attività umana.
In un certo senso si tratta della vera natura umana che si manifesta apertamente quando in un’attività subentra l’interesse per il potere ed il denaro. Forse di una cosa molti ragazzi si sono illusi, credendo che dietro l’alpinismo e l’arrampicata esistano interessi economici tali da arricchire: no, non è così, a livello professionale non siamo né nel campo del tennis o dello sci, e per dedicarti alla passione comune devi battere tutte le strade possibili, in modo da riuscire ad ottenere quell’indipendenza economica che ti permetta di realizzare i tuoi sogni ed essere libero nei tuoi movimenti, liberando la creatività che sta in noi.
Un tempo in montagna non si vedeva che la morte, l’arrampicatore era necessariamente obbligato, per essere riconosciuto, a passare attraverso le forche caudine della sofferenza di una mentalità dominante sul sado-masochismo. Adesso non si vedono che ragazzi belli -giovani- a torso nudo, pieni di vita: siamo esattamente al polo contrario! Chissà che l’equilibrio della creatività esista altrove?
Hai certamente ragione, la vita è bella anche se la tolleranza di “certi amici” pesa una tonnellata. E’ pesante sopportare specialmente quando la presunta amicizia si tramuta in tradimento tale da porre fine all’energia vitale. Questo, mi pare, non si chiami più suicidio, e come atto sarebbe incriminabile. Tutto questo è racchiuso nella tragedia di Gianpiero e che Gianpiero ha saputo vivere sino in fondo. Purtroppo.
Scusa se ti ho un po’ stufato e se non ho risposto subito alla tua lettera, ti ringrazio anche per le informazioni inviatemi successivamente, sperando ancora nella tua collaborazione
Ciao Gian Carlo
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