Desert Sandstone Climbing Trip #4 - Capitol Reef, Goosenecks, Dead Horse e Canyonlands
A questo punto, il nostro programma prevede una visita al Capitol Reef National Park, che racchiude l’ultimo territorio degli Stati Uniti continentali a esser stato esplorato e mappato. Vi si trova il Waterpocket Fold, originato quando la placca nordamericana entrò in collisione con quella che si trova sotto l’Oceano Pacifico: un’immensa ruga nella crosta terrestre, lunga 160 chilometri, unisce strati pianeggianti situati a due diversi livelli. I nativi Paiute chiamavano la grande barriera formata da questa falda terrestre "l’arcobaleno addormentato". Avevano ragione: dalla Scenic Drive le pareti si presentano in tutta la loro magnificenza, in mezzo a un vero e proprio arcobaleno di colori. Purtroppo il meteo, giratosi al brutto per un paio di giorni, ci impedirà di metter le mani sulla roccia di Capitol Reef!
Finalmente, arriva il momento del Canyonlands National Park, che offre la quintessenza della scalata sulle torri del deserto. Puntiamo a salite nel settore di Island-in-the-Sky, un altopiano a circa 1800 metri di quota ad ovest di Moab. Il nome non potrebbe essere più azzeccato per questa mesa: domina la confluenza fra Colorado River e Green River e rappresenta una sorta di torre panoramica su Canyonlands. La vista spazia dalle profondità dei canyon scavati dai due fiumi (impressionante il "gooseneck") fino a un orizzonte incredibilmente lontano. Le 100 miglia della White Rim Road sono l’unica possibilità per addentrarsi nei meandri e nei canyon sotto di noi. Quando è in buone condizioni, può essere percorsa in 2-3 giorni con un 4x4 "high-clearance". Quando, invece, è stata "washed out" da piogge torrenziali, come è successo quest’anno, superare alcuni tratti è molto difficile o addirittura impossibile.
Il nostro primo obiettivo è la Moses Tower, che troneggia su un gruppo di cinque fantastiche torri, situate nel Taylor Canyon a brevissima distanza l’una dall’altra: Zeus Tower, Thracian Mare, The Ark, Aphrodite e la Moses Tower stessa. Quando le condizioni delle piste del deserto lo consentono, l’accesso al canyon avviene in jeep lungo uno sterrato e l’avvicinamento a piedi alle torri non supera i quaranta minuti. Non ci sembra vero!! Per sicurezza ci informiamo presso i ranger sulle condizioni della dirt road. La risposta arriva come una doccia fredda: "Unfortunately, this year the Taylor Canyon is not reachable, even with the best jeep you can rent" – ci viene detto senza mezzi termini. "Also for Italian drivers!?" – chiedo al ranger, sorridendo. Il tipo non capisce la battuta e mi lancia uno sguardo in cui leggo un misto di seccatura e rimprovero. Ok, come non detto… accidenti come prendono le cose sul serio da queste parti…! Il problema è che le piogge abbondanti degli ultimi mesi hanno reso impraticabili molti sterrati di Canyonlands. Un avvicinamento alternativo, usato dai primi salitori della Moses, consiste nel seguire una strada nota come "Mineral Road", abbandonarla al momento giusto, camminare fino al bordo della mesa nel punto in cui il salto è più basso e calarsi nel Taylor Canyon. Purtroppo, però, questo accesso non viene più usato da molti anni: non ci sono tracce di sentiero e non è facile orientarsi sul plateau sommitale per trovare il punto in cui le doppie non finiscono nel vuoto… D’altronde, i rimanenti giorni di scalata sono contati e non abbiamo certo il tempo di andare per tentativi. I local ci dicono che non ci sono altre possibilità per arrivare alla Moses e che dovremo rinunciare… Abbiamo quasi perso le speranze quando James, un climber incontrato per caso, ci spiega che un modo alternativo esiste, ma in pratica non viene mai usato perché richiede tre ore di cammino - qualcosa di inaccettabile per i local, "viziati" dall’uso delle jeep. Ma come??!! A quelle parole ci guardiamo increduli… Con la voglia che abbiamo di scalare sulla Moses, tre ore di avvicinamento sono niente! Ci facciamo spiegare il "trucco" e l’indomani mattina partiamo prima dell’alba.
La nostra idea per la Moses Tower era quella di salire Primrose Dihedrals sulla parete SE, capolavoro di Ed Webster. Proprio lui, il tipo che nel 1988 aprì una via sull’Everest insieme a Robert Anderson, Paul Teare e Stephen Venables. In quella che è considerata l’ultima delle grandi spedizioni su quella montagna, Webster raggiunse la vetta lungo una linea nuova sulla parete più remota e meno conosciuta, senza bombole d’ossigeno, radio e supporto di Sherpa. Niente male, per un "desert tower climber"….! Ma torniamo alla Moses. Webster aprì Primrose Dihedrals in solitaria nel 1979 e la liberò insieme a Steve Hong, sempre nel 1979, di fatto introducendo la climbing community del deserto all’uso dei friend. Arrivati alla base della parete SE, ci rendiamo conto che scalare tutto il giorno al sole con quelle temperature sarebbe solo una sofferenza (nei Canyonlands si va da -5° a +46°, uno dei più ampi range di variazione di tutto il pianeta!). Ci facciamo furbi e pensiamo bene di dirottare sulla Dunn Route, sulla parete NO, aperta nel 1973 da Jimmy Dunn, Stewart Green, Doug Snively e Kurt Rasmusson. La difficoltà in libera e la bellezza sono simili a quelle di Primrose Dihedrals, ma la via è all’ombra… aggiudicata, quindi! La sequenza di tiri è entusiasmante: da face climb a off-width, poi stemming crack, poi ancora un’esteticissima fessura strapiombante, in partenza di mano poi di pugno, porta alla base di un camino che fa sbucare sul versante SE, per il tiro finale di face climb… Insomma, un capolavoro! Al rientro ci perdiamo almeno tre volte, nonostante le frontali che, questa volta, abbiamo prudentemente portato con noi: i canali di risalita dal canyon sembrano tutti uguali, ma solo uno evita gli strapiombi in uscita…
Il secondo obiettivo nella regione di Island-in-the-Sky è la Standing Rock, nel remoto Monument Basin, nota anche come "Totem Pole di Canyonlands": ancor più dell’omonima struttura della Monument Valley, assomiglia a un totem indiano. Anche per questo avvicinamento dobbiamo fare i conti con la gran quantità di pioggia che quest’anno anno ha reso difficilmente praticabili alcune strade sterrate. Noleggiamo per un paio di giorni una jeep Rubicon. Oltrepassato l’ingresso del parco, ci aspettano oltre 3 ore di "fuoristrada tosto" sulla White Rim, che iniziano con i ripidi tornanti della Shafer Road, sospesi sul precipizio. Oltrepassiamo la Airport Tower, la Monster Tower e Washer Woman, con la sua incredibile silhouette di una donna che lava i panni.
Finalmente arriviamo sopra il Monument Basin: il bacino, situato duecento metri sotto la White Rim, letteralmente pullula di torri di arenaria – ciascuna delle quali è un vero e proprio monumento. Lo spettacolo che abbiamo di fronte è una selva di guglie che sembrano conficcate sul fondo del bacino come se vi fossero state scagliate dal cielo: The Mock Turtle, Shark’s Fin, Staggering Rock, The Meemohive, The Enigmatic Syringe, The Deathalonian Spire, Mars Tower, Unknown Tower, Unknown Tower, Bruce Smith Tower e la Stading Rock, aka Totem Pole, che troneggia su tutte quando si guarda il Monument Basin dal Grand Viewpoint di Island-in-the-Sky.
Il resto della giornata se ne va per cercare l’accesso al Monument Basin. Esiste solo una ripidissima goulotte di discesa, fra le molte che incidono la White Rim, ma le guide e le cartine sono estremamente vaghe: quale sarà?! Anche i local vengono raramente da queste parti, optando per le torri più facilmente accessibili. Dopo ore di tentativi, disarrampicate lungo ripidi canaloni rocciosi che sbucano nel vuoto, una quantità industriale di abrasioni e tagli e una quantità ancora maggiore di imprecazioni, quando è ormai buio individuiamo il punto debole della White Rim, marchiamo pazientemente la traccia per l’indomani mattina e facciamo ritorno alle tende.
Il giorno dopo, arrivati ai piedi del Totem Pole, decidiamo di ripetere la via aperta nel 1962, in tre giorni, da Layton Kor (ancora lui, intanto per cambiare…), Huntley Ingalls e Steve Komito, con difficoltà di 5.7/A4. In libera offre un 5.11c di tutto rispetto. "We climbed it because it won’t always be there", fu la famosa battuta di Kor riferita al Totem Pole – che, in effetti, sembra una catasta instabile di frittelle ("rye crisp with moistened kitty litter in between", per usare le parole di Komito). In generale, la sua roccia è friabile e nel complesso di cattiva qualità, anche per gli standard del deserto, ma Kor & soci trovarono una linea con roccia decente. Sulla Kor-Ingalls-Komito l’arrampicata è molto varia. Dopo un meraviglioso diedro seguito da un tetto – a detta di molti uno dei più entusiasmanti tiri di questo genere sulle desert tower) - la via si sbizzarrisce in traversi, off-width, sequenze di tettini, fessure di dita e tratti di face climb. La vetta è semplicemente una delle più assurde che io abbia mai calcato. L’ultima sorpresa arriva quando apriamo il cilindretto che contiene il libro di vetta: spuntano nell’ordine, oltre ai fogli con le poche salite effettuate: un sigaro, un accendino e una canna, avvolta in un pezzetto di carta con scritto: "enjoy some Colorado herb!" No comment…
Rientriamo alla jeep e apriamo con avidità il piccolo frigo portatile. Ormai il ghiaccio si è sciolto, ma in mezzo all’acqua si trovano sei bottiglie di birra che sembrano un miraggio. Le scoliamo quasi senza parlare. Unica nota dolente: in Utah, lo Stato dei rigidi Mormoni, la "birra ufficiale" ha un grado alcolico incredibilmente basso, tanto che è discutibile se sia veramente birra. Va bene per recuperare le incredibili quantità di liquidi sudate durante il giorno, ma, se si riuscisse a mettere le mani sulle bottiglie di "birra vera", andrebbe decisamente meglio…
Marcello Sanguineti, CAAI
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DESERT SANDSTONE CLIMBING TRIP 2014
27/10/2014 - #1 - Colorado National Monument
03/11/2014 - # 2 - Arches National Park
17/11/2014 - #3 - Indian Creek, Monument Valley e Castle Valley