L’arrampicata in Galles, i viaggi in Snowdonia e The Quarryman. Di Martino Quintavalla

Il racconto di Martino Quintavalla di diversi viaggi in Galles del nord insieme a Caterina Bassi, alla scoperta dell'arrampicata British e il particolare mondo della cave di ardesia sopra Llanberis.
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Arrampicata in Galles: Caterina Bassi su Poetry Pink E5 6a, Rainbow slab, Llanberis
Martino Quintavalla

Del Galles, spesso, si sente parlare come di un posto mitico, legato a personaggi e vie famose dell’ambiente britannico. Per noi Italiani, tuttavia, rimane un luogo un po’ remoto e misterioso. Per il brutto tempo, che rende tristemente famoso lo UK, e per lo spauracchio della scalata tradizionale, non è certo la prima meta alla quale si pensa per una vacanza rilassante.

Al mio quinto viaggio nel Galles del Nord e all’ennesima esperienza con un "gripper clipper", di cui le cave di Llanberis pullulano, non posso che confermare questo secondo aspetto: anche quando gli spit ci sono, spesso servono a mettere deliberatamente e perfidamente in difficoltà gli scalatori. Per quanto riguarda invece l’aspetto meteorologico, l’estate è generalmente un buon periodo, con le giornate lunghe e i tramonti luminosi del nord che fanno dimenticare le fatiche, ricordano l’autunno a casa e, irrimediabilmente, mi invogliano a tornare per mettermi alla prova.

La scalata britannica infatti ha sempre avuto per me un fascino particolare. Dopo essere stato in Irlanda e nel Peak District, la naturale meta successiva è stata il Galles. Nel 2012, dopo la laurea, sono riuscito a convincere il mio amico Cristian e partiamo pieni di entusiasmo. Di quel viaggio ricordo il primo impatto con la scalata nelle cave di scura e liscia ardesia: le vie erano strane ma in qualche modo non troppo spaventose perché simili a quelle della falesia di Migiondo, vicino a casa. Ricordo benissimo anche la guida approssimativa e spericolata ("A sinistra Cristian, a sinistra!") e il campeggio con, cito testualmente, "docce calde e fredde" nei bagni senza porte (era ottobre, pioveva spesso ed erano dieci gradi) e dove abbiamo resistito una sola notte.

Per ambientarci, avevamo scalato alcune vie classiche come "Pull my daisy" alla Rainbow slab e la famosissima "Comes the Dervish", della quale si narra che fu avvistata da Stevie Haston dal ristorante del paese e ripulita con un coltello ivi trafugato. Di fianco a quest’ultima, incombeva Gin palace, il "fratello minore" di the Quarryman, che avevo adocchiato in un filmato in cui persino Johnny Dawes scivolava rovinosamente. Quella via mi attraeva molto e l’avrei provata volentieri ma, purtroppo, era sempre bagnata. Oggi mi dispiace non averci almeno provato perché purtroppo è completamente franata, insieme a un pezzo di "Comes the Dervish".

Ricordo anche di una cena a base di uova, salsiccia e fagioli (rigorosamente prima delle 5 pm) da Pete’s Eats, il diner di riferimento per gli scalatori a Llanberis e, in un intermezzo piovoso, la visita all’interessantissimo museo delle cave. Qui due arzille, entusiaste ed anziane signore mi avevano insistentemente invitato ad assistere insieme a loro, alla dimostrazione del taglio dell’ardesia, cosa per la quale Cristian mi prende in giro ancora adesso.

Durante un’altra giornata di maltempo avevamo anche camminato attraverso tutte le cave fino alla parete di Twll Mawr, immersa nella nebbia, verticale e impressionante. Dal sentiero avevamo guardato la famosa "the Quarryman" con il suo leggendario terzo tiro: un diedro reso celebre dalla salita di Johnny Dawes nel film Stone Monkeys. Ricordo di aver pensato che, prima o poi, mi sarebbe piaciuto provarlo ma che, essendo troppo duro per me e troppo lontano, sarebbe stato quasi impossibile e probabilmente sarebbe rimasto un sogno.

Un paio di anni fa, invece, sono riuscito a convincere Caterina a passare di nuovo qualche giorno da quelle parti, questa volta facendo base a Caernarfon, una cittadina sulla costa a metà tra le cave di Llanberis e la vicina all’isola di Anglesey, dove si scala sulle bellissime scogliere. Nonostante l’inizio sia stato per lei abbastanza difficile, si è adattata molto in fretta e abbiamo deciso di allungare la vacanza per poi tornare di nuovo in autunno, quando le giornate sono più corte ma la luce è ancora più bella.

In quel viaggio, abbiamo avuto la possibilità di scalare per la prima volta su vie un po’ più dure e veramente incredibili, come le famose "Poetry Pink" e "Rainbow of recalcitrance", sempre alla Rainbow slab, che sono un misto tra vie trad e vie a spit molto sprotette. Abbiamo scalato anche alcune vie più "sportive" come The medium, una famosa placca in cui 3 spit proteggono i 20 metri di arrampicata, concedendoci questa volta il lusso di allungarne uno e scalarla quindi in "sporty style", per evitare che le vacanze finissero con una caviglia rotta.

Visitando la vicina isola di Anglesey, abbiamo scoperto anche alcune mete per noi nuove e affascinanti, come Gogarth e Rhoscolyn, che offrono una scalata molto particolare, spesso fisica, su strapiombi di quarzite multicolore. Qui l’ambiente è sorprendente, con l’oceano alle spalle, le foche con i piccoli sulla spiaggia e le pecore che pascolano nei prati sopra. Grazie a questo viaggio abbiamo conosciuto John e Michelle, due ragazzi gallesi, e il loro cane Henry che ci hanno ospitato e con i quali abbiamo ben presto fatto amicizia.

Quest’anno decidiamo di tornare nuovamente in Galles per qualche giorno. A differenza delle volte precedenti il nostro obiettivo non è quello di scalare molti tiri ma di provare proprio il diedro di the Quarryman che avevamo osservato nuovamente nell’ultimo viaggio. Facendo qualche ricerca, scopriamo che quasi tutti gli scalatori che l’hanno provato sono dei big che hanno fatto almeno il 9a e ci chiediamo se valga la pena provare a buttarci in un progetto del genere. D’altra parte, sono passati 12 anni dalla mia prima visita e sono cambiate tante cose: mi sento sicuramente più preparato, sia fisicamente che mentalmente, e credo che valga la pena di provarci, se non altro per capire di cosa si tratta.

Ci caliamo dentro Twll Mawr con un misto di curiosità, timore reverenziale e non poca agitazione. Guardando i filmati, avrei pensato addirittura di fare subito un tentativo da primo ma, ora che mi trovo alla base del diedro, capisco che non me la sento proprio e accetto la corda dall’alto con grande gratitudine. Forse è meglio così perché, al primo tentativo, abbiamo la conferma di ciò che temevamo e cioè che si tratta di un progetto veramente ambizioso. Il diedro è all’altezza della sua nomea e i movimenti che vediamo fare ai big nei filmati sono per la maggior parte al limite delle nostre capacità e alcuni palesemente al di là. Ogni passo di arrampicata in opposizione ci sembra incredibilmente precario, con i piedi che scivolano sulla roccia liscissima e che, in modo del tutto controintuitivo, aderiscono meglio dove la roccia è lichenata.

L’idea di salire da primi è terrorizzante ma decidiamo di provare almeno ad abbozzare qualche movimento, almeno per curiosità. Dopo alcuni tentativi, nonostante la salita sembri rimanere fuori dalla nostra portata, scopriamo con sorpresa che la nostra curva di apprendimento è incredibilmente ripida. La nostra breve vacanza però finisce e, di nuovo a casa, dobbiamo stabilire cosa fare durante l’estate. Sorridendo ci guardiamo e sappiamo già che entrambi vogliamo tornare e provarci di nuovo. Per noi, provare dei progetti al limite è sempre una sfida avvincente e poi quest’anno non abbiamo molta voglia di affrontare lunghe camminate e salite alpine.

Tornati in Galles, passiamo tre settimane a provare il tiro, ormai soprannominato "the Bloody Groove" dai nostri amici che, ogni sera, ci chiedono se siamo riusciti a salirlo e noi, puntualmente, rispondiamo sconsolati di no. Nonostante gli incredibili miglioramenti e un mio ottimo tentativo in cui cado quasi alla fine del tiro, ci rendiamo conto che ci stiamo stancando troppo e che peggioriamo invece che migliorare. In tutto il diedro, infatti, ci sono solo un paio di appigli "normali" e la scalata è terribilmente stancante per gambe e spalle che ormai implorano pietà.

Nonostante siamo abbastanza abituati a gestire le incognite di un progetto difficile, questa volta ci sembra di esserci imbarcati in un’impresa molto più grande di noi, soprattutto se concentrata in un tempo così breve che non ci permette di adattarci completamente. Oscilliamo continuamente tra l’ottimismo per i tentativi ben riusciti e la disperazione dovuta alla stanchezza e al conto alla rovescia che ci separa dal ritorno. Alla fine, intuiamo che forse bisogna semplicemente imparare a lasciare andare le cose per la loro strada e ci rassegniamo a riposare gambe e braccia per quattro giorni. A due giorni dalla partenza torniamo sul diedro. Nel giro di riscaldamento, capiamo che potrebbe essere la volta buona anche se nessuno lo dice all’altro per scaramanzia.

A volte capita che, in situazioni come queste in cui non si ha più nulla da perdere, si scali meglio e più rilassati ma questa volta per me non è così. Scalo la prima parte del tiro, che solitamente mi è abbastanza congeniale, in modo molto controllato, stancandomi più del necessario. Provo lo stesso ad andare avanti verso i movimenti che fino ad allora avevo trovato i più difficili riuscendo però ad affrontarli con relativa calma, e senza troppe aspettative. Mi focalizzo su un movimento alla volta e mi trovo finalmente in cima, esausto ma felice.

È il turno di Caterina che sale elegantemente la prima parte, fino alla volta prima il suo scoglio, e arriva esultante ed incredula in catena. È incredibile come talvolta la nostra percezione delle difficoltà cambi completamente a seconda del momento! Lungo il sentiero che si affaccia sulla parete arriva Michelle che ci scatta alcune foto, cercando di tenere a bada Henry che impazzisce per le pecore. Siamo molto felici che a scattare le foto e a condividere questo momento con noi sia proprio lei!

Ora che il diedro è fatto, penso che avrei preferito scalare meglio sia fisicamente che mentalmente ma mi rendo conto che almeno non sembra più orribilmente difficile e penso che potrei persino rifarlo, anche se magari lasciando passare un po’ di tempo! Capisco anche che la pressione psicologica ha giocato un ruolo importante nella mia percezione della difficoltà e che, probabilmente, il tiro era sotto il mio limite e forse potrei anche provare qualcosa di più difficile in futuro.

Con le ultime forze scaliamo anche il breve tiro precedente e torniamo l’indomani per salire anche il quarto tiro. Anche su questo la fatica degli ultimi giorni si fa sentire. Dopo un mio primo tentativo infruttuoso e frustrante, tocca a Caterina che lo scala impeccabilmente. Dopo essermela presa con lei e soprattutto con me stesso, capisco che non ha senso affrontare le cose con rabbia e che non ho più nulla da perdere. Realizzo che l’unica cosa sensata da fare è dare il tutto per tutto. Questo pensiero mi svuota la testa e mi permette di scalare bene e salire il tiro tirando fuori le ultimissime risorse.

Ci piacerebbe provare anche il difficile primo tiro, ma ormai è tardi e la vacanza è finita. In cima alla parete, ci sediamo vicino ai ruderi di una casetta di sassi che ormai è diventata il nostro luogo di pace prima e dopo i tentativi. Essere qui e recuperare finalmente la corda fissa ci sembra un gesto conclusivo che ci fa tirare un sospiro di sollievo dopo così tanti giorni passati a decifrare pochi metri di roccia.

di Martino Quintavalla

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