XV Piolet d'or a Steve House e Vincent Anderson
Il 10/02 a Grenoble la piccozza d'oro, l'oscar dell'alpinismo 2005, è stato assegnato agli americani Steve House e Vincent Anderson per la nuova via sulla parete Rupal del Nanga Parbat.
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Piolet d'or 2005: Steve House e Vincent Anderson vincono il XV Piolet d'or
Giulio Malfer
E' un attimo che tutto sembra racchiudere e spiegare: Steve House sorride (gli brillavano davvero gli occhi!) e insieme a Vincent Anderson accarezza il Piolet d'or 2005. Ma è solo un lampo. Subito dopo, Steve e Vincent, convinti e convincenti, dedicano questa piccozza d'oro allo Stile alpino: per loro quest'oscar dell'alpinismo, che hanno appena ricevuto per il grande viaggio sulla parete più grande della terra, il pilastro del mitico versante Rupal del Nanga Parbat, appartiene all'Alpine style e a chi lo interpreta sulle più grandi e difficili pareti della terra. Insomma, è il premio a quello che considerano lo spirito più giusto e "puro" per affrontare l'avventura sulle grandi montagne. Sul palco di Grenoble, ad applaudire i due statunitensi, ci sono tutti gli altri nominati - o meglio quasi tutti, vista la defezione di Stefan Glowacz per motivi di salute e quella di Ermanno Salvaterra, Rolando Garibotti e Alessando Beltrami, di cui poi diremo le motivazioni. Ci sono i kazachi Denis Urubko e Serguey Samoilov con la loro via sull'immensa e inesplorata parete Ovest del Broad Peak, c'è lo svizzero Ueli Steck con la sua corsa solitaria sul Cholatse, Tawoche e Ama Dablam. E poi i francesi Patrick Wagnon, Christian Trommsdorf e Yannick Graziani per la grande traversata sulle due cime vergini del Chomo Lonzo e ancora lo svizzero Robert Jasper che insieme a Glowacz ha portato a termine, tra il vento patagonico, la "via missile" sull'immensa parete del Murrallon. Tutti credono nello stile alpino, e ovviamente lo praticano. Tutti sono stati interpreti di grandi salite in questo stile, perciò sono qui. Va da sé che per primi è indirizzata proprio a loro la dedica dei "vincitori" House e Anderson. Com'è dedicata a tutti gli altri alpinisti che hanno questo sogno dell'avventura, pura e dura, e soprattutto senza alcuna soluzione di continuità dalla base alla cima delle montagne più difficili e/o più alte della terra. Un unico grande viaggio, anzi un trip, sempre più leggero, sempre più in economia di mezzi, sempre più difficile ma, anche, sempre più interiore. E' questa l'immagine finale del 15° Piolet d'or. Un'immagine sicuramente bella che da sola, però, non basta a spiegare tutto. Certo non riesce a spiegare l'attimo doloroso, quasi di smarrimento, dell'inizio quando sullo schermo sono passate le immagini di JC Lafaille. Dodici mesi fa Jean Christophe era su quel palco del Piolet d'or. Ora è per sempre disperso tra le fredde braccia del Makalu, l'ottomila di cui fino a pochi giorni fa inseguiva, in piena solitudine, la grande prima salita invernale. E' ancora così recente la ferita che il grandissimo, e davvero numerosissimo, pubblico del Piolet fa fatica a rompere il silenzio, a ricominciare la serata. E' come se per una lunghissima frazione di secondo tutti avessero compreso il lato oscuro dell'alpinismo, quello terribile e inesplicabile, eppure così presente e vero, del rischio e della fine. Ma non è solo questa relatività dell'alpinismo che, come per la vita, può spiegarne tutta l'essenza. Come questo Premio, ancorché prestigioso, non può certo, e certo non vuole, comprendere (nel senso di contenere ma anche di capire) tutto l'alpinismo. Questo mondo di confine che, all'insegna del mai così uguale e mai così diverso, ancora una volta, come sempre, sembra sfuggire a qualsiasi metro comune, a qualsiasi misura e paragone, e quindi anche ad una graduatoria della via più bella e più difficile, come al tentativo di individuare l'alpinista più forte. D'altronde questo lo sapevano un po' tutti, già prima che la kermesse avesse inizio. Dagli alpinisti agli organizzatori nessuno metteva in dubbio l'impossibilità di confrontare esperienze così diverse. Non a caso Salvaterra, Garibotti e Beltrami, nominati per la loro grande via sulle pareti est ovest nord del Cerro Torre, pur ringraziando per la nomination, avevano declinato l'invito proprio affermando l'incompatibilità di qualsiasi confronto. Non si fa un'unica graduatoria per le diverse specialità delle Olimpiadi, insomma. E, sia detto per inciso, a proposito di giochi olimpici quasi è sfuggito che mentre si consegnavano gli oscar dell'alpinismo, a meno di 80 chilometri s'inauguravano le Olimpiadi di Torino. Segno di una riaffermata separazione dell'alpinismo da tutto il resto oppure segno che nulla riesce mai a fermare la corsa dei francesi? Certo è che l'alpinismo è sempre stato ritenuto "diverso", anche se il perché e il come di questa diversità sembra ancora sfuggire ad una definizione sicura. Forse è per questo che nessuno ha stigmatizzato la scelta degli italiani del Cerro Torre. Anzi il patron di Montagne magazine, la rivista che organizza l'evento, ha affermato che anche questo gentile rifiuto "ci stava", era compreso nello spirito del Piolet, il cui scopo sempre più sembra essere quello di far riflettere sull'alpinismo (ma anche di festeggiarlo) piuttosto che trovarne il massimo eroe. D'altra parte già nel backstage pre-serata, quello dedicato alle interviste con i giornalisti, tutti affermavano che vie (ed esperienze) così diverse, come le sei realizzazione scelte come le migliori dello scorso anno, non potevano essere comparate. Tutte sono importanti e uniche, era il leitmotiv. Eppure questo premio al grande viaggio sul pilastro della parete Rupal del Nanga Parbat di House e Anderson aleggiava già nell'aria, e, alla fine, sembra davvero aver messo d'accordo tutti. Anche Urubko e Samilov con la loro straordinaria avventura, e prima assoluta, sulla misteriosa sud del Broad Peak sembravano non far troppo caso alla cosa. Eppure la loro impresa è così simile a quella di Steve e Vincent sul Nanga Parbat. Entrambe sono arrivate dopo giorni in parete, entrambe hanno esplorato una via nuova (addirittura una prima assoluta della parete per i kazachi), e poi entrambe hanno risolto un problema su una delle 14 montagne più alte della terra. Entrambe, infine, rappresentano l'essenza, o meglio il manifesto, di quello stile alpino sulle più alte pareti della terra già sognato (e praticato) da Hermann Buhl quasi 60 anni fa. E allora, perché tutti sono sembrati così d'accordo, così convinti di questo Premio, compreso il pubblico che, questa volta, ha bissato il responso della giuria? Si può pensare che sia per una sorta di "riparazione" alla premiazione di 12 mesi fa che aveva visto consegnare la piccozza d'oro al team russo della prima salita allo Jannu (simbolo del "vecchio" e "pesante" modo di conquistare la montagna impossibile) mentre House aveva dovuto "accontentarsi" solo del Piolet del pubblico per la sua "leggerissima" solitaria del K7. Ma sarebbe riduttivo fermarsi a questa considerazione. La sensazione, invece, è quella che si sia trattato di un percorso, di un unicum che ha unito questi 12 mesi, con una sorta di maturazione e affermazione di uno stile e un pensiero che unisce, seppur nella diversità, la maggioranza degli alpinisti. Aspettative e affermazioni personali, attese e ansie per una volta (e solo per un attimo) forse sono state superate con una visione comune sintetizzate dalla dedica di House e Vincent. Per un attimo, insomma, tutti probabilmente hanno respirato un po' di leggerezza, guardando con rispetto agli altri. E tutti, forse, hanno respirato il medesimo sogno. E hanno provato quel senso d'appartenenza speciale che fa uguali nella diversità. La sintesi di questa "lievità" è stata data dalla bellissima motivazione letta dal presidente Stephen Venables, In perfetto anglo-francese, Venables, ha avuto parole di stima per tutti gli alpinisti, centrando la grandezza di tutti, non nascondendo dubbi e interpretando con humour perfettamente anglosassone le piccole grandi aspettative del Piolet ma anche quelle dellÕalpinista. "Avete rubato il mio sogno" ha detto il sorridente Venables rivolgendosi al team francese del Chomo Lonzo. Non a caso "sogno" (nelle sue varie traduzioni ed eccezioni di: reve, dream, vision, viaggio, trip) è stata la parola più ricorrente nelle interviste degli alpinisti di questo Piolet d'or 2005, per i quali le difficoltà (i gradi delle vie) sembravano non essere le cosa più importante. Perché sono stati i sogni (le visioni) a farla da padroni. Quelli che si leggevano negli occhi un po' pazzi di Steve. Come quelli che s'intuivano nel profilo sincero di Vince, e che spuntavano nel sorriso pronto di Robert, come nel silenzio di Serguey, nella insospettata verve sfoderata sul palco da Denis e negli occhi un po' seri di Patrick, Christian e Yannick. I sogni, dunque, forse sono il vero senso (la molla del tutto?). I sogni ché in quanto tali sono di noi tutti. Come quello ricorrente di Ueli che, quando appoggia la testa sul cuscino, si vede su una parete di 4000 metri, su una montagna di ottomila metri dove arrampica da solo e benissimo, godendo della perfezione. Appunto ci unisce una visione, quella passione di alpinisti grandi e piccoli, che speriamo di ri-trovare al prossimo Piolet, o sulla prossima montagna. Vinicio Stefanello Si ringraziano tutti gli alpinisti del Piolet d'or 2005 per le suggestioni "rubate", e confusamente interpretate, in questo report. Come si ringrazia Giulio Malfer, immancabile e impagabile compagno in questi strampalati tour, nonché interprete delle visioni per immagini di quest'articolo. Un grazie sincero va anche ai compagni di viaggio e chiacchiere oltre il tunnel del Bianco: la grande Betta e il Gioacchino "filosofo" Gobbi (della premiata ditta Grivel realizzatrice, non a caso, dell'oggetto Piccozza dÕoro). Ed, inoltre, a Roberto Mantovani (Rivista della montagna), Linda Cottino (ALP), Pietro Giglio e Oriana Pecchio (RAI Valle d'Aosta) che hanno rappresentato la task force della stampa specializzata italiana. E, ancora e non per ultimi, un sincero ringraziamento va a Valery Babanov vincitore en passant di 2 Piolet d'or e allo stilista-alpinista-giornalista Im Duc Young. Entrambi si sono prestati con me al gioco del toto Piolet: con entrambi ho scommesso una birra puntando con l'uno per Urubko e Samilov, con l'altro per House e Anderson. Mirando ovviamente e sfacciatamente ad un pareggio: non ci perdevo e guadagnavo niente, anche perché le birre erano gratis! Anche questo forse spiega molto del Piolet... alla prossima! Foto del Piolet d'or 2005. Foto di Giulio Malfer |
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