Una visita a Walter Bonatti sul Petit Dru. Di Corrado Pesce
La prima impressione che ebbi una volta trasferitomi a Chamonix ai piedi del Monte Bianco fu quella di arrivare troppo tardi. L’alpinismo interessava meno che il trail running, lo sci e il parapendio, in più i ghiacciai che si sciolgono a vista d’occhio e, come se non fosse abbastanza, le montagne che crollano.
Mi sono sempre sentito un po’ derubato dalla sorte per non aver avuto il piacere di toccare con mano sul Petit Dru il capolavoro di Walter Bonatti, il mio alpinista preferito. Crollato a più riprese, il pilastro - così come la parete ovest - sono passati dall’essere il tempio delle più grandi scalate su granito nel massiccio ad un mucchio di massi sparsi sulla morena sottostante.
Uno sguardo più che ottimista indicava però l’esistenza di una parete nuova di zecca e completamente vergine sotto gli occhi di tutti coloro che visitano la valle di Chamonix. Detto questo, ovviamente l’idea di scalare una parete che sta crollando poco a poco può fare riflettere anche i più agguerriti.
I primi che vi si sono avventurati furono Martial Dumas e Jean Yves Friedriksen nel 2007. I due francesi salirono in stile big wall nel cuore dell’inverno per 9 giorni per completare una via molto bella e dura sulla parete grigia rimasta dopo il crollo.
Avendo osservato la parete per anni non avevo mai avuto l’impressione che fosse completamente irresponsabile salirci, ma neanche veramente sicuro. Ancora una settimana prima della nostra salita ero impegnato a fare quante più cascate di ghiaccio possibile, è stato in effetti un buon inverno.
L’improvviso rialzo termico ed un periodo di bel tempo caldo e stabile mi ha spinto a trovare un socio valido e salire una qualsiasi bella via in montagna. Per fortuna Will Sim ha un sacco di tempo libero, è proprio lui che ha suggerito l’idea del Dru, e non ci è voluto molto per convincermi.
Il mio dubbio, non da poco, era il fatto che essendoci già una cordata impegnata in parete avremmo corso dei rischi. Quattro francesi del gruppo militare d’Alta Montagna GMHM stavano aprendo un itinerario nel centro della parete ovest, proprio sopra il canale d’attacco. L’idea di farsi bombardare sembrava inevitabile ma per fortuna il ritmo al quale avanzavano ci faceva pensare che il giorno in cui avremmo attaccato, loro sarebbero già usciti dalla parete.
Quest’inverno gli impianti sono chiusi ed è stato uno sforzo non da poco completare l’avvicinamento di 1900 metri di dislivello con zaini enormi. Abbiamo potuto contare sull’aiuto di Juan Pablo Bosch e Kate Ballard che ci hanno dato man forte, grazie!
Passiamo la prima notte ai piedi della parete; poco sonno, tanti dubbi e un vento sgradevole non ci permettono di riposare adeguatamente. L’obiettivo del primo giorno è di raggiungere la Torre Rossa dove si trova l’unico posto decente per bivaccare di tutta la metà inferiore della parete. Non avendo amaca o portaledge, inutile dire che non avevamo altra scelta che scalare rapidamente per raggiungerla.
La via che stiamo salendo è stata aperta con molta scalata artificiale e, leggendo la relazione, era difficile capire quanto tempo avremmo impiegato per salire certi tiri, un tiro di A3 in artificiale può prendere diverse ore.
I primi tiri nel canale nevoso con balze ghiacciate non ci impegnano ma il canale é esposto ed abbiamo fretta di ripararci sotto la parete verticale. Alcuni tiri di misto con fessure intasate di neve ci ricordano che tutto sommato è inverno e siamo felici di avere portato con noi piccozze tecniche e ramponi da ghiaccio.
Mentre siamo impegnati sui tiri più ripidi della giornata è con piacere che incrociamo la cordata degli amici militari che ridiscendevano dalla loro salita. I ragazzi erano partiti per far fronte a molti bivacchi, in realtà sono stati rapidissimi e siccome hanno ancora gas e cibo in abbondanza ci lasciano i loro resti. Grandi!
Arriviamo alla Torre Rossa in anticipo sull’orario ma passiamo un bel paio d’ore per poter trarre un paio di comode terrazze, il che è difficile a causa della neve talmente farinosa che è quasi impossibile pressarla.
Il secondo giorno non abbiamo obiettivi particolari riguardo a dove giungere. Abbiamo una spalla 200 metri sopra di noi, la scalata è sempre insidiosa poiché la via é disseminata di blocchi instabili e lame taglienti. Il compito più difficile è invariabilmente non fare cadere nulla, assolutamente non danneggiare le corde, sopratutto perché dovevamo anche poi scendere in un qualche modo.
Il nostro materiale è composto da una corda singola da 60 metri, un cordino da recupero da 6 mm, una doppia serie di Camelot sino al #4, un #5 per gli offwidth, un po’ di dadi utilissimi, e 5 chiodi che non abbiamo usato. In più, il materiale per i tiri in dry tooling e anche per risalire a jumar, eventualmente sulla corda fissata dal leader. Questo è importante per ripulire un tiro nel quale il leader scala in artificiale, o qualora il secondo debba caricarsi il saccone sulle spalle dove tirarlo su con l’apposito cordino non è possibile.
Nel secondo tiro della seconda giornata scopriamo con molto piacere che un paio di tiri originali del pilastro Bonatti non sono crollati, la roccia arancione ed i vecchi chiodi e cunei ci riempiono di emozione.
Verso le 3 del pomeriggio giungiamo alla piccola spalla e approfittiamo delle ore di luce restanti per fissare la nostra corda sul tiro al di sopra della terrazza che sarà il nostro bivacco. Il fatto di non avere bisogno di correre ci permette di fare molta attenzione a tutte le manovre, abbiamo cibo e gas a sufficienza, ma se rompiamo una corda siamo obbligati a compiere una ritirata molto delicata.
La parete non è per nulla assestata, alcune scaglie sembrano essere su per miracolo, altri blocchi sembrano incastrati, ma in realtà basta sfiorarli perché escano di sede. Diversi tiri ci danno del filo da torcere e per passare attorno a massi e scaglie instabili facciamo ricorso a corte sezioni di scalata artificiale.
Il terzo bivacco lo facciamo sulla grande spalla superiore. Io fisso i 60 metri molto delicati della placca grigia al limite superiore della parte franata, salendo un po’ di fretta avremmo potuto continuare ed uscire il terzo giorno, ma il rischio di dover ridiscendere di notte alla spalla non ci piace per nulla, così rimandiamo all’indomani.
Nel frattempo però appare nel bollettino meteo una minaccia inattesa malgrado il cielo terso un vento abbastanza forte da Ovest ci mette un po’ di dubbi. Scendere in doppia con vento forte può essere molto complicato, soprattutto nel nostro caso. La parete è molto lavorata ed una corda si può incastrare molto facilmente se il vento la spinge dietro un ostacolo.
Il mattino seguente risaliamo velocemente la corde che avevo fissato il giorno prima e Will si incarica dell’ultimo tiro ed il tetto schifosamente instabili che lo caratterizza. Ritroviamo la roccia arancione e i tanti chiodi della via di Bonatti, presto raggiungiamo le grandi terrazze di quarzo e la via normale, da qui la vetta è a portata di mano. Siamo ben preoccupati all’idea di ripercorre tutta la salita al contrario sperando di non avere problemi; è una grande parete, rimpiangiamo il fatto di non avere portato su tutto per ridiscendere il couloir nord ben più facile. Per lo meno una gran parte delle doppie dovrebbero essere ben visibili, riattrezzate a dadi e chiodi dagli amici francesi.
Fortunatamente perdiamo quota velocemente, anche se in diversi punti non troviamo i loro ancoraggi ed dobbiamo allestirne diversi con il nostro materiale. Alcune doppie molto lunghe su placche lisce verticali ci lasciano il cuore in gola, fortunatamente però non dobbiamo tagliare nemmeno un metro dalle nostre preziose corde da 60 metri, altrimenti sarebbe stato tutto molto più difficile.
Siamo molto contenti di aver potuto salire in sicurezza questa parete ostile e di avere toccato con mano alcune delle fessure salite dal grande Walter. Grazie a Will per essere stato bravissimo e molto organizzato. È stata la nostra prima scalata assieme ed è stata indubbiamente una bellissima avventura.
Vorrei ringraziare di cuore La Sportiva e Black Diamond per il loro supporto.
di Korra Pesce