Ueli Steck, i record, le visioni e i limiti dell'alpinismo
Ora che the Swiss Machine (come si definisce talvolta ironicamente lo stesso Steck) ha polverizzato i loro tempi di salita, è probabile che comincerà (anzi, sull’Eiger è già cominciata, ricorrendo a qualche trucco) la corsa ad abbassare il suo record, ma non è più questo che interessa al trentacinquenne di Langnau. Neanche a noi, per la verità. A noi interessa semmai capire il posto che le salite di Steck avranno nella storia dell’alpinismo sulle Alpi, e in Himalaya a cui ha ormai rivolto la propria attenzione.
È una miscela complessa quella da cui nasce un grande alpinista. Vi hanno posto il richiamo delle vette, il senso estetico/estatico dell’azione, e la storia, cioè gli uomini che l’hanno fatta. Tradotto nella lingua di Steck, si dice Eiger, Bonatti, Messner, Cervino... Lui la parete nord dell’Eiger l’aveva salita già a diciott’anni: «Quando inizi una carriera da scalatore e leggi tutte le storie che vi sono legate, la nord diventa un obiettivo. Può sembrare qualcosa di irraggiungibile, ma in cuor tuo sai che prima o poi, se vorrai raggiungere lo status di alpinista completo, quella parete la dovrai domare».
Con tutto che la prima a dover essere domata, o meglio: governata, è la propria persona. Il giovane Steck era passato dalla pratica dell’hockey per prenderne coscienza: «Nello sport collettivo c’è sempre qualcun altro a cui addossare le responsabilità. Il contrario di quanto avviene davanti a una parete da scalare. Quando mi sono avvicinato a questo mondo ho subito capito quanto fosse diverso e semplice: si parte dal basso e si deve arrivare in vetta. Se non ci arrivi il solo responsabile sei tu… e questa credo che sia la ragione principale che mi ha portato all’alpinismo». Spingendo il concetto di responsabilità individuale alla sua manifestazione estrema che è appunto la salita solitaria, i cui nomi di spicco per il pubblico non specializzato sono di nuovo Reinhold Messner e Walter Bonatti. Quest’ultimo, in particolare, ha ispirato non solo o non tanto l’azione, ma soprattutto la riflessione di Steck.
A prima vista non potrebbe esservi niente di più distante tra le salite e lo stile classico di Bonatti e quello ipermoderno di Ueli, ma ad uno sguardo meno superficiale gli elementi di continuità sono ben più degli anni che separano le loro imprese. «Diciamo che Bonatti ha avuto la fortuna di arrampicare quando ancora anche sulle Alpi c’era spazio per innalzare i limiti dell’alpinismo. Lo testimoniano le sue salite, dal Grand Capucin, al Dru. E come queste salite aprissero la strada che oggi viene battuta dagli alpinisti di vertice in Himalaya, lo mostra anche la prima salita, ancora oggi pochissimo ripetuta, del G4. Ora che sulle Alpi è davvero stato fatto tutto, il mio modo di contribuire all’evoluzione dell’alpinismo sono state le salite leggere, in solitaria e veloci. Questa credo che sia la continuità tra il suo e il mio alpinismo: la spinta a innalzarne il limite superiore».
E c’è un altro insegnamento, non meno prezioso, che Steck sostiene di avere ricevuto dal grandissimo alpinista scomparso due mesi fa: «Bonatti è stato grandissimo anche nel capire quando era giunto il momento di smettere. Capire e accettare che un ciclo della propria esperienza fosse chiuso. Oggi non è così. Talvolta, alpinisti pur autori di salite importanti, non si rendono conto di avere già raggiunto e doppiato l’apice della loro bravura, e insistono nel presentare come imprese d’avanguardia salite che invece non lo sono. Io spero di accorgermene, quando verrà il momento».
È in buona compagnia, Steck: un grande come Christophe Profit, dopo salite stupende sulle Alpi (fu il primo a concepire e realizzare la “trilogia” Jorasses-Cervino-Eiger) e in Himalaya (una via nuova sulla nord del K2, con Pierre beghin) ha “capito” e ha deciso di dedicarsi del tutto alla professione di guida. Lo si può incontrare con clienti su d’età lungo la normale del Gran Paradiso, ma anche sulla nord dell’Eiger, forse la sola guida ad averla salita dieci volte con clienti. Questa è grandezza. Non per nulla, Profit è il terzo, dopo Bonatti e Messner, dei grandi con cui Steck ha dialogato nel suo Speed. 7 ore che hanno cambiato la mia vita, libro peraltro modesto, ma che non è qui oggetto di discussione.
Dunque il limite. È solo affrontandolo, spostandolo in avanti che si fa la storia dell’alpinismo. Ma bisogna intendersi: il limite non è quello cronometrico. «Il record non è così importante. La differenza non la fa salire l’Eiger in due ore e quaranta, o in tre: le condizioni della montagna non sono mai le stesse, dunque non è così importante fissarsi sui minuti. Lo stesso nuovo record sull’Eiger è stato fatto ricorrendo alle corde fisse e con la traccia battuta...».
Che cosa conta, allora? Contano l’esperienza, la visione, il progetto. E Ueli Steck lo spiega così: «Quello che mi è restato delle salite veloci sulle Alpi è la consapevolezza della mia capacità e la volontà di trasferirla sulle montagne più alte». Già Erhard Loretan aveva indicato nella velocità e nella leggerezza (da intendersi anche in chiave “etica”) la formula per innalzare il livello delle salite himalayane. «Certo, Loretan non aveva ancora la possibilità di scalare con l’attrezzatura di oggi, ma aveva visto giusto. Io stesso l’ho sperimentato allo Shisha Pangma [8027 metri, ndr], nell’aprile scorso. Avevamo una finestra di bel tempo di un solo giorno, e di solito questo breve lasso di tempo sconsiglia di partire. Ma io mi sono detto: se sulle Alpi faccio duemila metri di dislivello in due ore, vuoi che in Himalaya non ne faccia altrettanti con un giorno a disposizione? Èd è finita che di tutti gli alpinisti presenti al campo base sono stato il solo a toccare la cima».
Di nuovo: non per battere i record, ma per una considerazione di buon senso relativa alla sicurezza (anche se a qualcuno suonerà strano o contraddittorio). «Perché oggi l’innalzamento del livello tecnico delle salite alle quote maggiori può avvenire solo se si è veloci. Non si può restare a lungo a ottomila metri, il nostro fisico non ne è in grado. Per questo non esistono vie particolarmente tecniche a ottomila metri. Sono state compiute salite importanti, e l’élite dell’alpinismo mondiale ha compreso che il futuro è delle spedizioni leggere, del cosiddetto stile alpino: lo avevano indicato Buhl, Messner, e di questo tipo è stata la salita di Steve House al Nanga Parbat. Ma se parliamo di vie davvero dure in stile leggero sugli Ottomila, allora bisogna dire che le stiamo ancora aspettando». E lo dice uno che è stato insignito del Piolet d’or 2009 (una sorta di Oscar dell’alpinismo) per l’assoluto valore della prima salita della parete nord del Tengkampoche, 6500 metri in Himalaya, insieme all’altro svizzero Simon Anthamatten. Con il quale è stato anche insignito dello Spirit of mountaineering dell’Alpine Club britannico, per essersi speso, nel maggio 2008, nel tentativo di soccorrere il fortissimo alpinista basco Inaki Ochoa, bloccato sulla parete sud Annapurna (uno dei colossi himalayani).
Allora si può anche chiedere a Steck perché concentrarsi sugli Ottomila, con la messe di cime tra i sei e i settemila metri che offre l’Himalaya.
«Bisogna intendersi. Certo, ci sono montagne bellissime e difficilissime pur non toccando gli ottomila metri. Ma secondo me è proprio per le caratteristiche complessive delle cime più elevate che il futuro dell’alpinismo si giocherà a ottomila metri. E questo per quanto riguarda la sostanza. Poi c’è un’altra considerazione: se voglio “vendere” la salita al grande pubblico, devo puntare all’Everest. Ma non è di sicuro in testa ai miei desideri, a meno che si tratti di un progetto sui suoi versanti più difficili. Anche in questo caso, tuttavia, si tratterebbe di salite riconosciute e valorizzate solo nell’ambiente alpinistico. Il grande pubblico non fa differenza: pensa all’Everest, senza pensare all’utilizzo dell’ossigeno, alle corde fisse, alle piste battute dagli sherpa. Il marketing ha concepito e sfruttato un immaginario buono per tutti i palati, e lo capisco. Ma non è affar mio, a me interessa contribuire a far progredire l’alpinismo».
Eppure, il professionismo, il marketing, la promozione sono diventati parte della pratica alpinistica d’élite. Scorrendo il calendario delle conferenze programmate da Ueli nei prossimi mesi c’è da chiedersi se non gli costino più fatica di un Eiger speed. «Fa parte del mio essere professionista, anche se è vero che è difficile trovare un equilibrio tra salite e comunicazione. A vent’anni non me ne occupavo, volevo scalare le montagne, e questo mi bastava. Poi, ad un certo punto della mia vita, ho deciso che volevo farne l’attività principale. E mi sono reso conto che per ricavarne di che vivere non basta essere un buon scalatore… devi farti conoscere. Posso dire che sono contento di avere sempre venduto le mie prestazioni (comunque mai dettate dagli sponsor) e mai la mia persona».
Anche per questo, ha rinunciato alla vetta dell’Everest, quando la condizione per raggiungerla era servirsi dell’ossigeno supplementare? Nel libro ha scritto Everest will stay and I can come back. Le montagne sono sempre lì, è un bell’insegnamento... «Sì, allora avrei dovuto usare l’ossigeno per riuscire, ma non ho voluto. Non mi interessa salire in quel modo. Non mi è neppure dispiaciuto troppo: so che ci riuscirò un’altra volta. A me interessa cercare e trovare i miei limiti, ma non superarli barando. Anni di allenamento, di alti e bassi, l’esperienza dell’euforia e della delusione, delle certezze e dei dubbi. È questo percorso a rendere straordinaria la vita di uno scalatore». Perché l’alpinismo vero, come affermò Frederick Mummery (prima di tentare l’ultima visionaria salita del Nanga Parbat nel 1896) è quello praticato by fair means. Con mezzi leali. Di corsa, se siete Ueli Steck, ma va bene anche a passo lento. Purché lealmente.
Erminio Ferrari
Ellade Ossola
>> intervista video su rsi.ch
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