Traversata est-ovest dello Hielo Patagonico Sur

Marcello Cominetti racconta la prima traversata est-ovest dello Hielo Patagonico Sur dal Glaciar Chico al fiordo Exmouth (Patagonia), una distesa di ghiacci lunga 400 km e larga un centinaio...
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Fitz Roy e Cerro Torre da ovest
Marcello Cominetti
La stessa traversata affrontata da Marcello Cominetti e dal suo team, in 14 giorni nel 2005, venne effettuata negli anni '50 da una squadra dell'esercito argentino condotta dall'ufficiale Emilio Huerta che però si limitò ad arrivare al bordo dei ghiacci in vista del mare anziché scendere attraversando la temutissima "rain forest". Quella che Cominetti ci racconta dunque si può considerare la prima traversata completa perchè il gruppo della guida alpina genovese è sceso fino al mare attraversando, appunto, la foresta pluviale che come spiega lo stesso Cominetti: “è molto più complessa (!) dei ghiacciai”.

DAL PACIFICO AL PACIFICO CON TESTA E POI GAMBE…
di Marcello Cominetti

I tre grandi laghi pedemontani che invadono gli invasi scavati dai ghiacci ai piedi dei gruppi montuosi indicativamente delle cime tra il Cerro Daudet ed il Don Bosco, e del Mariano Moreno, Fitz Roy e O’Higgins, pur apparendo simili tra loro nella forma e nell’orografia del terreno circostante, hanno invece una grande differenza idrografica dettata dai capricci del suolo.
I laghi Viedma ed Argentino sono uno la prosecuzione dell’altro e portano l’acqua che proviene dalla Cordigliera Patagonica Australe verso l’Oceano Atlantico attraverso l’imponente Rio Santa Cruz, mentre il più settentrionale di questi enormi bacini idrici naturali: il Lago S.Martin-O’Higgins fa defluire le sue acque nell’ Oceano Pacifico attraverso l’impetuoso Rio Pascua.

Dopo avere percorso in canoa, in sci ed a piedi le acque e le rive dei primi due fino a sboccare al mare, mi restava di esplorare il terzo e più misterioso di questi laghi dove soffia spesso un vento fortissimo che sospinge i grossi icebergs che si staccano dai ghiacciai che immergono nelle sue acque le loro estese fronti seraccate. Nessuno mi ha mai ordinato di vagare per queste lande desolate se non una passione per i luoghi complessi da raggiungere e percorrere, credo in contrapposizione ad una vita sempre più agevolata da mille diavolerie, sicuramente comode ma che allontanano l’ essere umano sempre più da quella sua dimensione originaria che non è quella dell’ automobile né quella della sedentarietà.

Dopo avere camminato lungo le sue interminabili rive con le gambe a cavallo e navigato le sue acque tempestose in compagnia del leggendario Capitan Pirincho, avendo quindi raggranellato una discreta quantità di informazioni, non mi restava che inventarmi qualcosa che mi facesse sentire come il più familiare possibile il Lago S.Martin-O’Higgins. Metà argentino e metà cileno questo lago azzurro dalla forma di un polpo, ha due nomi perché gli argentini ed i cileni hanno voluto entrambi dedicare al loro rispettivo “libertador” dalla dominazione spagnola, questa meraviglia della natura.

In un primo momento progettammo insieme con Carlos Comesaña (noto per la prima salita della Supercanaleta al Fitz Roy) di navigare in canoa il lago dal suo estremo sud fino ad imboccare il Rio Pascua che sembrava si molto “caudaloso” (impetuoso, in spagnolo) ma non tanto quanto mi apparve durante un sorvolo aereo con ai comandi un mio amico che dovette tirar fuori tutta la sua abilità di pilota per non trasformare la nostra gita nell’aria in tragedia a causa del vento e delle nubi molto fitte… L’idea di Carlos era quella di arrivare al Pacifico attraverso il Rio Pascua appunto, ma dovemmo scartarla pena l’annegare subito… Il Rio Pascua assomiglia ad un inferno d’ acqua e solo un suicida lo affronterebbe. Ecco perché non è mai stato navigato.

Usare l’acqua per muovermi è sempre stata una mia fissazione, e per acqua intendo anche ghiaccio e neve, così mi venne in mente di salpare con slitte, sci e ramponi dal Lago S. Martin-O’Higgins per arrivare al Pacifico ma invece che lungo il Rio Pascua, lungo lo Hielo Patagonico o Continental, una distesa di ghiacci lunga 400 km e larga un centinaio dove all'interno sbucano cime perlopiù senza nome e mai salite che hanno dimensioni himalayane anche se raggiungono a malapena i 4000 metri delle cime più alte, ma hanno la base a livello del mare, quindi sono montagne molto grosse!

Una traversata come questa non è necessariamente un'impresa alpinistica in senso stretto anche se prevede il superare crepacci, seraccate, pendii, pareti ed insidie di vario genere, tra cui anche tratti a nuoto, pendoli alla Tarzan tra gli alberi ed altre amenità disagevoli che la maggior parte delle persone normali evita accuratamente, specie se la meteo del posto la si conosce come costantemente tempestosa.

Avrei avuto bisogno di compagni assolutamente non normali e neppure alpinisti a tutti i costi, avrei dovuto mettere assieme un gruppo di animali più che di persone, abituati a soffrire e faticare gioendone, tipi di persone che in tempi di alpinismo comodo (vedi spedizioni agli 8000) sempre più sono introvabili, ma anche una difficile ricerca in tal senso faceva parte del piacevole stimolo di intraprenderla. Molte traversate e permanenze a vario titolo sui ghiacci patagonici me li hanno fatti divenire amici se così si può dire… Ho scoperto che è un posto anche vivibile piacevolmente a forza di imparare ad affrontarlo con tutte le condizioni meteo, ma soprattutto ho imparato che quello che conta è di che pasta è fatta la squadra che vi si muove. Poi vi sono fortunatamente molte altre cose che devo ancora imparare sullo Hielo Patagonico, infatti spero di poterci tornare tante altre volte.

Per noi italiani il “team work” cioè il gioco di squadra pare esistere solo nel calcio perchè un fortissimo ed innato individualismo limita le prestazioni di ognuno, mentre esistono popoli che fanno dell’unione nell’ avversità il loro punto di forza. Capitò che un caro amico britannico fino all’osso mi disse che voleva andare a fare un giro da quelle parti con degli amici e che sarebbero stati felici se io avessi potuto fargli da guida… Quale occasione migliore per proporgli una traversata patagonica?

Con alcuni membri del gruppo avevamo già fatto anni addietro una traversata da quelle parti e mi ero reso subito conto che gli inglesi sono talmente abituati al maltempo che in Patagonia si sentono decisamente a casa loro. Se fa bello bene… se fa brutto si tira su il cappuccio della giaccavento e più o meno si va avanti lo stesso! Ritrovarsi in un  gruppo in cui il morale è sempre alto è una cosa fantastica perché si superano avversità di ogni tipo con slancio ed entusiasmo, eventuali dubbi scompaiono ed il gruppo diventa una macchina perfetta per avanzare… insomma non c’ è bisogno che spieghi come gli inglesi sanno farsi strada quando serve. Un certo Shackleton, e non solo lui, insegna…

Un amico geologo ed alpinista di Villa O’ Higgins, sulle rive settentrionali dell’omonimo lago, mi aveva spiegato che erano molti anni che nessuno entrava sul Glaciar Chico e neppure una dettagliata ricerca su internet mi aveva dato sufficienti indicazioni su quale fosse la strada migliore. Lo dissi ai miei compagni che mi risposero che l’avremmo trovata solo andandoci!
Dopo due tentativi, ai primi di novembre del 2005, andati a vuoto causa seraccate impercorribili, eccoci mettere piede nella zona centrale del ghiacciaio che presenta come una corsia poco crepacciata di ghiaccio nero che la fa sembrare una pista d’ aeroporto.

Prendiamo quota gradualmente trainando finalmente le slitte e montiamo il primo campo sul ghiacciaio a 1300m nei pressi del Cerro Koelliker. Il tempo fin qui è stato bello, considerando che abbiamo iniziato a camminare 4 giorni fa e lo abbiamo sempre fatto sotto il sole. Arriva il brutto mentre cerchiamo di raggiungere il Paso Mariano Moreno a ca. 1700 m. ed a 25 km dal primo campo. Montiamo quindi il secondo campo nella bufera che durerà tre giorni durante i quali costruiamo un grande igloo per starci tutti assieme a chiacchierare, giocare ai dadi ed ascoltare buona musica sui cui gusti fortunatamente concordiamo tutti. Un piccolo pannello solare ci permette di ricaricare le batterie degli Ipod anche con il brutto.

Due diplomatici, un medico, un ingegnere, due manager d’azienda, una fisioterapista e due guide alpine italiane, le professioni dei componenti. La mattina del terzo giorno di immobilità forzata, dovuta al fatto che il vento sull’immenso colle del Paso M.Moreno arriva da ovest, la direzione che seguiamo noi, decisamente forte anche per i sudditi di sua Maestà Britannica, il cielo diviene blu e fa freddo… il Cerro Torre ed il Fitz Roy si mostrano in tutta la loro bellezza tra le ultime raffiche di un vento che va lasciando posto alla calma assoluta che ci permetterà di oltrepassare il Paso potendo aggirare una fitta rete di grandi crepacci che nella nebbia ci avrebbero dato molto filo da torcere.

In quei giorni tersi verremmo a sapere che poco distante sulla nordest del Torre Ermanno Salvaterra e compagni e sulla nord del Murallon Stefan Glowacz e Robert Jasper portavano a termine due vie notevoli, aiutati dalle buone condizioni meteo. Cosa di cui approfittammo anche noi “of course”! Dopo il Paso Mariano Moreno si apre davanti a noi l’ immenso ghiacciaio Pio XI che originandosi dal Volcan Lautaro si immerge nel Pacifico dopo una trentina di km. Lungo questo ghiacciaio avevamo “penato” cinque anni fa Lorenzo Nadali ed io tentando di risalirne il lato orografico sinistro carichi come muli mentre scoprivamo che dal 1974 (anno di stampa delle nostre carte) il ghiacciaio era “cresciuto” di 12,5 km su un fronte di 6 km inghiottendo boschi di cipressi “de las guaiatecas” e formando dighe e laghi come avrebbe fatto un esercito di castori giganti!

Quella dei ghiacciai che avanzano, mentre molti altri vicini e non, retrocedono, è un'altra storia che ha le sue ragioni e che andrebbe raccontata in altra sede, ma voglio solo dirvi che un colono che aveva tentato di allevare vacche nei pressi del ghiacciaio sul lato occidentale, un giorno lo vide avanzare di 100 metri inghiottendosi vari ettari di bosco!
Ci lasciamo il bacino superiore del Pio XI alla nostra destra dirigendo verso il Cerro Riso Patron ed il Paso del Rokko o dei giapponesi.

Ci rendiamo conto che l’ attività vulcanica da queste parti è tutt’altro che sopita, da varie depressioni nel ghiacciaio che ospitano laghi circolari semighiacciati, segno che il terreno sottostante è riscaldato… insomma un posticino dalle mille incognite geologiche in costante evoluzione, una meraviglia per l’ esploratore o più semplicemente per i curiosi come noi che elaboriamo teorie per darci spiegazioni.

Un lungo pendio ci regala una bella sciata in neve fresca prima di mettere il campo al riparo del solito muro di neve anti-tempesta il cui allestimento è forse la parte più faticosa della giornata dopo avere trainato la slitta per 12 ore, ma che è indispensabile anche quando il tempo è bello perché un improvviso arrivo del vento distruggerebbe anche le tende più robuste.
Abbiamo dei modelli che sono dei prototipi di una ditta inglese appositamente studiati per i forti venti e che dopo il nostro collaudo e qualche opportuna modifica verranno messi sul mercato con il nome “Hielo”. Prima del tramonto ci concediamo un bagno di sole ed una doccia “fresh & clean” aspettando che la temperatura scenda per consolidare il muro di neve, resa marcia dal caldo, che ci riparerà dalla tempesta notturna che arriverà infatti puntuale!

Appena il sole tramonta la temperatura scende vertiginosamente mentre ci vestiamo al cospetto di montagne fantastiche come il Mariano Moreno, il Riso Patron e le cime senza nome dell’ altipiano Caupolican che si infiammano nell’ ultima luce del giorno che sta finendo. Non una cima è nota o famosa ma sono così belle che siamo ancora più contenti di potercele egoisticamente godere da soli sapendo che in pochissimi le vedranno e le hanno viste…alla faccia dei collezionisti ottusi che vanno solo sulle montagne celebri e piene di gente!
Uno dei primi esploratori di questa zona fu il salesiano De Agostini che per primo nel 1931 traversò lo Hielo Sur dal ghiacciaio Upsala alle alture del fiordo Falcon (che denominerà Monte Torino) con le guide valdostane Bron e Croux ed il geologo torinese Feruglio. Questo il motivo per cui molte cime portano nomi italiani di personalità religiose, scienziati ed inventori.

Il maltempo ritorna obbligandoci a fare molti calcoli tra distanze, angoli e dislivelli con bussola altimetro e gps per cercare di infilare quella che avevamo rilevato da casa come l’ uscita dai ghiacci più logica per scendere al mare.
Con una fortuna sfacciata imbocchiamo nella bufera il colle di uscita che scopriremmo dopo essere quello giusto. Infatti dopo una notte passata sulle ultime propaggini di una lingua glaciale che scende verso il fiordo Exmouth, scopriamo che il mare è proprio lì sotto grazie ad una schiarita.

Ora inizia la parte più impegnativa di tutta la traversata ovvero la “penetrazione” della temuta rain forest, la foresta pluviale che invade ogni angolo di costa cilena a questa latitudine… si tratta di un bosco umido fittissimo che ricopre zone disseminate di grossi massi granitici ricoperti di muschio e tronchi in putrefazione tra cui si intrecciano grosse liane intervallati da profonde paludi che inghiottono il malcapitato che vi incappi: l’ ideale da percorrere con grossi zaini da cui spuntano slitte e sci… Avevo già preso contatto con questo “mostro” anni fa e ricordo di una volta in cui armati di ramponi e piccozze per fare presa sui tronchi scivolosissimi eravamo avanzati di pochi metri in un giorno intero… altro che ghiacciai!
Un giorno di vera lotta ci impegna per raggiungere la spiaggia compresa tra l’ acqua ed il fronte del ghiacciaio Trinidad che sembra pronto ad inghiottirla occhieggiando minaccioso al di là del rado bosco di faggi e cipressi ormai annegati.

Il nostro campo poggia su uno strato di sabbia alluvionale che ha un dislivello di non più di 20 cm. dal letto del fiume che si origina dal ghiacciaio e si getta dopo poco nel mare la cui marea fa ritrarre ed avanzare a ritmi lunari conosciuti solo ai marinai più esperti.  E’ logico preoccuparci di non finire a bagno le notti estremamente piovose in cui il fiume gorgoglia più forte fuori dalle tende fino a che, dopo qualche giorno il gracchiare della radio ci avverte che il veliero con cui ci eravamo accordati per rientrare a Puerto Natales, ha imboccato il fiordo e tra poche ore sarà da noi.

Fino all’ultimo le avventure non mancano, perché il piccolo e malandato tender del veliero che ha dovuto dare l’ ancora a ca. 1km dalla riva a causa del basso fondale, fa decisamente fatica a percorrere i numerosi viaggi che servono per traghettare tutti noi e gli enormi zaini sulla barca.

Si è alzato un vento fortissimo, il mare si è increspato e… sono già le 11 della notte quando facciamo l’ultimo viaggio in 4 su una barchetta lunga 2 metri e mezzo a cui si rompe uno scalmo sul più bello ed io cado in acqua tra le onde al buio stra-vestito e con gli scarponi ai piedi… prendo al volo il bordo della barchetta quasi rovesciandola, risalgo intirizzito e dopo poco riprecipito in mare nel tentativo di agganciare l’ alta murata del Penguin, la nostra barca, calda, sicura e grande, lì a pochi centimetri mentre i miei compagni non sanno se ridere o preoccuparsi mentre ai remi cercano di fare del loro meglio…

Ci issiamo a bordo in qualche modo, Josè il comandante ci ha già preparato un minestrone bollente, carne stufata e vino rosso cileno, che non è buono come l’argentino ma fa lo stesso. 3 giorni di perigliosa navigazione tra “i 40 ruggenti ed i 50 urlanti”, proprio loro (!), ci portano agli agi della terraferma dove ci concediamo perfino il lusso di progettare la prossima avventura mentre torniamo a casa.

Marcello Cominetti
guidestarmountain.com

Foto ©marcellocominetti.com

L'autore è disponibile per serate con il video realizzato durante la traversata dal titolo “La Patagonia che vivo”, già proiettato con successo in numerose sale. Contatto: marcello@guidestarmountain.com
Note:
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